GALLERIA NAZIONALE DI CAPODIMONTE
IL MUSEO
Le collezioni Farnese e borbonica costituiscono i nuclei principali del patrimonio museale di Capodimonte. L'origine della raccolta Farnese si deve all'azione politica e alle scelte culturali di Alessandro Farnese (1468-1549), che, ancora prima di diventare papa col nome di Paolo III, aveva coltivato l'interesse per il collezionismo artistico e antiquario. Nel 600 una parte consistente della collezione fu trasferita nelle residenze ducali di Parma e Piacenza; infine Carlo di Borbone, divenuto re di Napoli nel 1734, decise di trasferire la collezione, ereditata dalla madre Elisabetta Farnese, nella capitale del suo nuovo regno. Le raccolte borboniche, dalla complessa storia costellata di commissioni, acquisti, soppressioni monastiche, legati e donazioni, testimoniano lo sviluppo della scuola napoletana dal 200 al 700. Il cospicuo patrimonio proviene in maggior parte da importanti complessi religiosi di Napoli e della sua provincia, selezionato per entrare nelle collezioni del Real Museo Borbonico. Il Museo si sviluppa su tre piani: il primo piano ospita, oltre all'Appartamento storico, la ricca collezione farnesiana; al secondo piano è collocata la galleria napoletana, ed infine, al terzo piano è esposta la collezione di opere dell'Ottocento e di arte contemporanea.
GIVANNI BELLINI - TRASFIGURAZIONE
La Trasfigurazione di Cristo è un dipinto a olio su tavola (116x154 cm) di Giovanni Bellini, databile al 1490-1495 circa .I
Descrizione e stileLa tela raffigura l'episodio riportato nei vangeli in cui Cristo sul monte Tabor rivela la sua natura divina ai tre discepoli (Pietro, Giacomo e Giovanni), i quali sono rappresentati come folgorati dalla visione. Accanto al Cristo si sono infatti materializzati i profeti Elia e Mosè, simbolo dell'avverarsi delle profezie del vecchio testamento, secondo un'iconografia derivata dai Vangeli sinottici. La composizione si basa su un'armonica simmetria, con figure possenti, ben evidenziate dai panneggi dai colori cangianti, quasi serici.
Le foglie dell'albero a destra e i volti di Pietro e Giacomo sono il risultato di un antico rifacimento.
La scena è ambientata in un ampio paesaggio veneto, con colline e montagne che si perdono lontane all'orizzonte e numerose tracce di serena presenza umana, come la città sulla destra, il castello e il pastore con le mucche al pascolo a sinistra. La fusione tra figure e paesaggio, grazie alla costruzione tramite colore e luce che nasconde la linea di contorno, raggiunge qui un'altissima intensità poetica. La luce calda e intensa infatti sembra far partecipare ogni dettaglio, con la sua radiosa bellezza, all'evento miracoloso. Diverso è invece il trattamento dello scosceso precipizio in primo piano, dove le rocce aspre escheggiate ricordano la lezione di Andrea Mantegna.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Descrizione e stileLa tela raffigura l'episodio riportato nei vangeli in cui Cristo sul monte Tabor rivela la sua natura divina ai tre discepoli (Pietro, Giacomo e Giovanni), i quali sono rappresentati come folgorati dalla visione. Accanto al Cristo si sono infatti materializzati i profeti Elia e Mosè, simbolo dell'avverarsi delle profezie del vecchio testamento, secondo un'iconografia derivata dai Vangeli sinottici. La composizione si basa su un'armonica simmetria, con figure possenti, ben evidenziate dai panneggi dai colori cangianti, quasi serici.
Le foglie dell'albero a destra e i volti di Pietro e Giacomo sono il risultato di un antico rifacimento.
La scena è ambientata in un ampio paesaggio veneto, con colline e montagne che si perdono lontane all'orizzonte e numerose tracce di serena presenza umana, come la città sulla destra, il castello e il pastore con le mucche al pascolo a sinistra. La fusione tra figure e paesaggio, grazie alla costruzione tramite colore e luce che nasconde la linea di contorno, raggiunge qui un'altissima intensità poetica. La luce calda e intensa infatti sembra far partecipare ogni dettaglio, con la sua radiosa bellezza, all'evento miracoloso. Diverso è invece il trattamento dello scosceso precipizio in primo piano, dove le rocce aspre escheggiate ricordano la lezione di Andrea Mantegna.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Sandro Botticelli: Madonna col Bambino
un dipinto a tempera su tavola (100x71 cm) di Sandro Botticelli, databile al 1468–1469 e conservato nel Museo di Capodimonte a Napoli.
Il dipinto inizialmente era stato attribuito al Lippi, ma successivamente studi più approfonditi hanno permesso di assegnarlo al Botticelli. La data é verso il 1470Descrizione e stileLa composizione deriva dall'esempio di Filippo Lippi con Maria che tiene in grembo il Bambino sostenuto da due angioletti, ma anche dalla Madonna del Latte di Verrocchio, di pochi anni prima. Sullo sfondo, oltre un alto parapetto marmoreo, si apre un paesaggio roccioso tratteggiato sinteticamente; la composizione si sviluppa quindi per piani scalari, svolgendo una mediazione tra lo spazio teorico reso dal piano prospettico e quello reale costituito dai personaggi in primo piano.
Da Filippo Lippi derivano anche il predominio della linea di contorno e il panneggio vibrante, anche se le forme appaiono ormai più dolcemente fuse, con atteggiamenti più complessi delle sue opere. Il colore acceso dal chiaroscuro incisivo e dal tono bronzeo deriva dall'esempio di Antonio del Pollaiolo, mentre la fisionomia del Bambino è ormai personalizzata e non sege l'esempio del Verrocchio come in opere immediatamente precedenti.
Il tono dei personaggi è serio, pensoso, assorto nella propria bellezza e venato di malinconia, come tipico della produzione botticelliana. La testa della Vergine, dal mento appuntinto, deriva dall'esempio di Verrocchio e ricorda da vicino quelle della Madonna in gloria di serafini, della Madonna dell'Eucarestia, della Madonna della Loggia o della Fortezza,. t
Il dipinto inizialmente era stato attribuito al Lippi, ma successivamente studi più approfonditi hanno permesso di assegnarlo al Botticelli. La data é verso il 1470Descrizione e stileLa composizione deriva dall'esempio di Filippo Lippi con Maria che tiene in grembo il Bambino sostenuto da due angioletti, ma anche dalla Madonna del Latte di Verrocchio, di pochi anni prima. Sullo sfondo, oltre un alto parapetto marmoreo, si apre un paesaggio roccioso tratteggiato sinteticamente; la composizione si sviluppa quindi per piani scalari, svolgendo una mediazione tra lo spazio teorico reso dal piano prospettico e quello reale costituito dai personaggi in primo piano.
Da Filippo Lippi derivano anche il predominio della linea di contorno e il panneggio vibrante, anche se le forme appaiono ormai più dolcemente fuse, con atteggiamenti più complessi delle sue opere. Il colore acceso dal chiaroscuro incisivo e dal tono bronzeo deriva dall'esempio di Antonio del Pollaiolo, mentre la fisionomia del Bambino è ormai personalizzata e non sege l'esempio del Verrocchio come in opere immediatamente precedenti.
Il tono dei personaggi è serio, pensoso, assorto nella propria bellezza e venato di malinconia, come tipico della produzione botticelliana. La testa della Vergine, dal mento appuntinto, deriva dall'esempio di Verrocchio e ricorda da vicino quelle della Madonna in gloria di serafini, della Madonna dell'Eucarestia, della Madonna della Loggia o della Fortezza,. t
Peter Brugel il vecchio - Il Misantropo
Misantropo
Pieter Bruegel il Vecchio (1525/30 - 1569)Datazione: 1568Dipinto tempera su tela cm 86 x 85La tela conflui' nella collezione Farnese a seguito della confisca dei beni della famiglia Masi, i cui membri furono condannati a morte per aver partecipato alla congiura del 1611 ordita contro il duca Ranuccio. La tecnica impiegata per il dipinto e' quella della tempera magra, a cui si devono le tonalita' delicate e matte, simili all'affresco. Come in tutte le ultime opere di Bruegel, anche in questo caso si assiste alla riduzione della molteplicita' delle figure a favore del singolo episodio, qui raffigurante il misantropo che rifugge il mondo. L'identificazione dell'anziano incappucciato con il misantropo - derubato dal mondo del suo borsello, la cui forma evoca metaforicamente un cuore - e' avvalorata dal motto scritto ai piedi dei due personaggi, che recita in fiammingo: <<Poiche' il mondo e' tanto infido, io sono a lutto>>.
Pieter Bruegel il Vecchio (1525/30 - 1569)Datazione: 1568Dipinto tempera su tela cm 86 x 85La tela conflui' nella collezione Farnese a seguito della confisca dei beni della famiglia Masi, i cui membri furono condannati a morte per aver partecipato alla congiura del 1611 ordita contro il duca Ranuccio. La tecnica impiegata per il dipinto e' quella della tempera magra, a cui si devono le tonalita' delicate e matte, simili all'affresco. Come in tutte le ultime opere di Bruegel, anche in questo caso si assiste alla riduzione della molteplicita' delle figure a favore del singolo episodio, qui raffigurante il misantropo che rifugge il mondo. L'identificazione dell'anziano incappucciato con il misantropo - derubato dal mondo del suo borsello, la cui forma evoca metaforicamente un cuore - e' avvalorata dal motto scritto ai piedi dei due personaggi, che recita in fiammingo: <<Poiche' il mondo e' tanto infido, io sono a lutto>>.
Peter Bruegel il Vecchio. Parabola dei Ciechi
Parabola dei ciechi
IPieter Bruegel il Vecchio (1525/30 - 1569)Datazione: 1568Dipinto tempera su tela cm 85.5 x 154Il dipinto entro' nelle raccolte farnesiane in seguito alla confisca dei beni della famiglia parmense dei Masi, che partecipo' alla congiura ordita nel 1611 contro il duca Ranuccio. Come per il Misantropo, anche qui la tecnica impiegata e' la tempera magra, che conferisce ai colori un aspetto particolarmente delicato e matto. Il tema raffigurato ha un riferimento nell'incisione con la serie dei Dodici proverbi fiamminghi di Pieter van der Heyden, nella cui scena dei ciechi e' riportato un motto che recita in fiammingo: <<Camminate sempre con grande prudenza, state saldi/ Non fidatevi di nessuno/ completamente se non di Dio. Perche' quando un cieco ne conduce un altro/ li si vede cadere tutti e due nel fosso>>. La parabola e' tratta dal Nuovo Testamento (Matteo 15,14), a cui, a sua volta, si ispiro' il proverbio "Caecus caeco dux" diffuso in area fiamminga da Erasmo da Rotterdam
IPieter Bruegel il Vecchio (1525/30 - 1569)Datazione: 1568Dipinto tempera su tela cm 85.5 x 154Il dipinto entro' nelle raccolte farnesiane in seguito alla confisca dei beni della famiglia parmense dei Masi, che partecipo' alla congiura ordita nel 1611 contro il duca Ranuccio. Come per il Misantropo, anche qui la tecnica impiegata e' la tempera magra, che conferisce ai colori un aspetto particolarmente delicato e matto. Il tema raffigurato ha un riferimento nell'incisione con la serie dei Dodici proverbi fiamminghi di Pieter van der Heyden, nella cui scena dei ciechi e' riportato un motto che recita in fiammingo: <<Camminate sempre con grande prudenza, state saldi/ Non fidatevi di nessuno/ completamente se non di Dio. Perche' quando un cieco ne conduce un altro/ li si vede cadere tutti e due nel fosso>>. La parabola e' tratta dal Nuovo Testamento (Matteo 15,14), a cui, a sua volta, si ispiro' il proverbio "Caecus caeco dux" diffuso in area fiamminga da Erasmo da Rotterdam
Annibale Carracci - Scelta di Ercole
La Scelta di Ercole è un dipinto ad olio su tela di cm 167 x 237 realizzato nel 1596 dal pittore italiano Annibale Carracci.
È conservato al Museo e Gallerie Nazionali di Capodimonte di Napoli.
Il dipinto è stato esposto all'inizio nella residenza dei Farnese a Parma e poi nel Museo di Capodimonte.
È conservato al Museo e Gallerie Nazionali di Capodimonte di Napoli.
Il dipinto è stato esposto all'inizio nella residenza dei Farnese a Parma e poi nel Museo di Capodimonte.
Annibale Carracci - Pietà
Annibale Carracci (1560 - 1609) PIETA' Datazione: 1599 - 1600 ca.Dipinto olio su tela cm 158 x 151Realizzata per il cardinale Odoardo Farnese verso il 1600, la tela si annovera tra gli esiti piu' alti e maturi dell'attivita' romana di Annibale. La struttura piramidale del gruppo sacro e l'abbandono del corpo di Cristo, rivelano con chiarezza che il modello ideale a cui il pittore attinse fu la celebre Pieta' di Michelangelo, la cui monumentalita' e' qui temprata da un pathos umanissimo e vibrante. Esempio di perfetto equilibrio tra i canoni classici e il rinnovato naturalismo di inizio secolo, la composizione fu accolta dai contemporanei con tale ammirazione da essere replicata piu' volte, sia ad olio che mediante incisione. Sono infatti note diverse copie seicentesche, di cui due di notevole qualita' si conservano a Roma nelle gallerie Doria Pamphilj e Pallavicini.
Correggio - Matrimonio mistico di Santa Caterina D'Alessandria
Registrato in una nota dei beni di Barbara Sanseverino, datata 27 aprile 1596, questa piccolo lavoro era definito come “un quadro del Correggio, chiamato ilSposalizio di Santa Caterina, piccolo ma gioia di estrema bellezza”. La stessa proprietaria lo aveva offerto in dono al duca di Mantova Vincenzo I Gonzaga, che nutriva un particolare interesse per le opere del Correggio, ma in realtà il dipinto non arrivò mai a Mantova. Fu invece richiesto da Odoardo Farnese aRoma, in anni in cui la fama del Correggio nell’Urbe era al suo apice grazie alla popolarità dei Carracci e della loro scuola.
Una copia su tela di questo dipinto si trova all’Ermitage e, secondo quando si legge in un’incisione di Moette tratta da questa, recava sul retro un’iscrizione che recitava così: “Laus Deo, per Donna Mathilda d’Este Antonio Lieto da Correggio fece il presente quadretto per sua divozione. A.o 1517”.
Tuttavia la critica tende a spostare la datazione negli anni immediatamente successivi al 1517, in genere entro la decorazione della Camera di San Paolo con cui condivide un’analoga freschezza narrativa e una nuova sobria - ma in realtà studiatissima - semplicità.
]Descrizione e stileCon una stretta inquadratura Maria, inginocchiata in terra sullo sfondo di un sintetico paesaggio, offre alla principessa e martire Caterina d'Alessandria il piccolo Gesù Bambino che le cinge la mano con l'anello, simbolo della loro unione mistica. Gesti e sguardi si intrecciano tra i protagonisti, con un notevole senso di familiare naturalezza. Maria ha la testa inclinata di profilo, come nell'Adorazione dei Magi, simile nelle fattezze e nell'atteggiamento. Le due donne si chinano verso il centro e nei loro volti si coglie una freschezza adolescenziale, interrotta dall'espressione del Bambino che si volta verso la madre come per ottenerne il consenso. Non si tratta più dell'infante alla maniera quattrocentesca usato nelle due precedenti redazioni del tema, a Washington e a Detroit, ma in questo caso l'artista rappresentò un fanciullo abbastanza grande da poter compiere il gesto di infilare l'anello, a testimonianza dei suoi interessi in quel periodo sul mondo dei bambini che studiava attentamente. Anche la presenza del vestito candido testimonia una scelta precisa di raffigurare con verosimiglianza un'età più avanzata di qualche anno, a differenza della tradzionale nudità di Gesù infante.
Le analisi a raggi X hanno confermato come il dipinto di Napoli sia il prototipo delle numerose copie: il disegno sottostante della Vergine è leggermente diverso e l'artista capovolse il quadro prima di iniziare una nuova composizione.
L'esecuzione è vivace, il tocco sicuro, notevole la resa dei dettagli. Seguirà un linguaggio più forbito ed elegante nell’altro Matrimonio mistico di santa Caterina d'Alessandria del Louvre, che il Correggio dipinse solo qualche anno più tardi..
Una copia su tela di questo dipinto si trova all’Ermitage e, secondo quando si legge in un’incisione di Moette tratta da questa, recava sul retro un’iscrizione che recitava così: “Laus Deo, per Donna Mathilda d’Este Antonio Lieto da Correggio fece il presente quadretto per sua divozione. A.o 1517”.
Tuttavia la critica tende a spostare la datazione negli anni immediatamente successivi al 1517, in genere entro la decorazione della Camera di San Paolo con cui condivide un’analoga freschezza narrativa e una nuova sobria - ma in realtà studiatissima - semplicità.
]Descrizione e stileCon una stretta inquadratura Maria, inginocchiata in terra sullo sfondo di un sintetico paesaggio, offre alla principessa e martire Caterina d'Alessandria il piccolo Gesù Bambino che le cinge la mano con l'anello, simbolo della loro unione mistica. Gesti e sguardi si intrecciano tra i protagonisti, con un notevole senso di familiare naturalezza. Maria ha la testa inclinata di profilo, come nell'Adorazione dei Magi, simile nelle fattezze e nell'atteggiamento. Le due donne si chinano verso il centro e nei loro volti si coglie una freschezza adolescenziale, interrotta dall'espressione del Bambino che si volta verso la madre come per ottenerne il consenso. Non si tratta più dell'infante alla maniera quattrocentesca usato nelle due precedenti redazioni del tema, a Washington e a Detroit, ma in questo caso l'artista rappresentò un fanciullo abbastanza grande da poter compiere il gesto di infilare l'anello, a testimonianza dei suoi interessi in quel periodo sul mondo dei bambini che studiava attentamente. Anche la presenza del vestito candido testimonia una scelta precisa di raffigurare con verosimiglianza un'età più avanzata di qualche anno, a differenza della tradzionale nudità di Gesù infante.
Le analisi a raggi X hanno confermato come il dipinto di Napoli sia il prototipo delle numerose copie: il disegno sottostante della Vergine è leggermente diverso e l'artista capovolse il quadro prima di iniziare una nuova composizione.
L'esecuzione è vivace, il tocco sicuro, notevole la resa dei dettagli. Seguirà un linguaggio più forbito ed elegante nell’altro Matrimonio mistico di santa Caterina d'Alessandria del Louvre, che il Correggio dipinse solo qualche anno più tardi..
Correggio - Sant'Antonio Abate
Sant'Antonio Abate è un dipinto a olio su tavola (49x32 cm) di Correggio, databile al 1517-1518 circa e conservato nel Museo di Capodimonte di Napoli.
La tavoletta si trovava nella sagrestia dei padri Gerolamini a Napoli e recava una significativa attribuzione ad Andrea da Salerno, un artista attento alla lezione leonardesca. Si trova nel museo napoletano dal 1907.
In effetti la conoscenza di Leonardo sembra fondamentale per comprendere il dipinto di Napoli sia per quanto riguarda l’uso della luce e del chiaroscuro già asserviti a quella “poetica dello sfumato” inaugurata dal maestro toscano, sia per la sapiente resa dei "moti dell’animo".
Il santo eremita è raffigurato con un ardita inquadratura stretta, che elimina ogni dettaglio narrativo e ogni specifica relativa all’ambientazione (sintetizzata da pochi elementi appena accennati dietro alla figura del santo). I suoi attributi sono ridotti solo alla semplice, luccicante campanella posta in posizione principe al centro del quadro. Tutto il dipinto si riduce quindi all’espressione del volto, dacché persino il gesto del santo appare volutamente bloccato, quasi che le sue mani fossero legate l’una all’altra. Lo sguardo quasi impaurito e le labbra dischiuse fanno di questo sant’Antonio una figura fragile e sofferente, colta nella sua intima solitudine e nella sua commovente umanità. La luce, che si riverbera sulla sua fronte e che gioca a creare un brillante effetto di cangiantismo sul suo mantello arancio, non fa che accrescere la pregnanza espressiva del suo volto sconfortato. È stato notato come il sant’Antonio sia vicino al san Leonardo deiQuattro santi e si può aggiungere che lo studio approfondito che il Correggio dedicò alla sua espressione rappresentò probabilmente un precedente per la figura del Cristo sofferente nel più tardo Ecce homo.
La tavoletta si trovava nella sagrestia dei padri Gerolamini a Napoli e recava una significativa attribuzione ad Andrea da Salerno, un artista attento alla lezione leonardesca. Si trova nel museo napoletano dal 1907.
In effetti la conoscenza di Leonardo sembra fondamentale per comprendere il dipinto di Napoli sia per quanto riguarda l’uso della luce e del chiaroscuro già asserviti a quella “poetica dello sfumato” inaugurata dal maestro toscano, sia per la sapiente resa dei "moti dell’animo".
Il santo eremita è raffigurato con un ardita inquadratura stretta, che elimina ogni dettaglio narrativo e ogni specifica relativa all’ambientazione (sintetizzata da pochi elementi appena accennati dietro alla figura del santo). I suoi attributi sono ridotti solo alla semplice, luccicante campanella posta in posizione principe al centro del quadro. Tutto il dipinto si riduce quindi all’espressione del volto, dacché persino il gesto del santo appare volutamente bloccato, quasi che le sue mani fossero legate l’una all’altra. Lo sguardo quasi impaurito e le labbra dischiuse fanno di questo sant’Antonio una figura fragile e sofferente, colta nella sua intima solitudine e nella sua commovente umanità. La luce, che si riverbera sulla sua fronte e che gioca a creare un brillante effetto di cangiantismo sul suo mantello arancio, non fa che accrescere la pregnanza espressiva del suo volto sconfortato. È stato notato come il sant’Antonio sia vicino al san Leonardo deiQuattro santi e si può aggiungere che lo studio approfondito che il Correggio dedicò alla sua espressione rappresentò probabilmente un precedente per la figura del Cristo sofferente nel più tardo Ecce homo.
DOMENICHINO- (1581 - 1641) -ANGELO CUSTODE.
Datazione: 1615Dipinto olio su tela cm 249 x 210La tela, realizzata per la cappella Vanni nella chiesa di san Francesco a Palermo, fu donata a Ferdinando di Borbone alla fine del Settecento e nei mesi che seguirono la nascita della Repubblica Napoletana, fu trasferita a Roma dai Francesi. In questa circostanza venne asportata la porzione superiore del dipinto, che, dopo essere stato recuperato dall'emissario borbonico Domenico Venuti, fu reintegrato della lacuna dal restauratore di corte Federico Anders. Costruita con eleganza e virtuosismo formale, la parte inferiore presenta i connotati propri dello stile ormai maturo del pittore bolognese, che impronto' tutta la sua produzione artistica al recupero di un ideale di bellezza e di armonia classica imprescindibile dall'assidua pratica del disegno accademico, di cui fu fervido fautore.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Correggio - San Giuseppe e un Devoto
Correggio (Antonio Allegri) (1494 - 1534) SANGIUSEPPE E UN DEVOTODatazione: 1529Dipinto tempera su tela cm 170 x 65I due pannelli, probabili ante poste a chiusura di un armadio per reliquie o di un piccolo organo, furono realizzati presumibilmente come ex voto commemorativo del conte Guido da Correggio, identificabile con la figura genuflessa dipinta sullo sportello destro. Realizzate con estrema liberta' formale mediante pennellate larghe e compendiarie, le tele documentano gli esiti a cui giunse il maturo e personalissimo classicismo dell'artista, che sul finire degli anni Venti si espresse a pieno nel trattamento della luminosa e vibrante materia pittorica. Il volto assorto e malinconico del conte presuppone la conoscenza degli intensi ritratti di Lotto databili a quegli stessi anni; la figura del santo mostra, invece, delle tangenze con il San Bernardo degli affreschi della cupola del Duomo di Parma, a cui Correggio attese tra il 1526 e il 1530.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
CORREGGIO --La Zingarella
La Zingarella è un dipinto a olio su tavola (49x37 cm) di Correggio, databile al 1516-1517 circa .
IL’opera è registrata nell’inventario manoscritto del 1587 della Guardaroba di Ranuccio Farnese a Parma: “un ritratto della Madona in habito di Cingana di mano del Correggio, incornisato di noce et cortina di cendale verde”. La prima citazione a stampa di questo dipinto si trova invece nelle pagine del Musaeumdi Federico Borromeo, arcivescovo di Milano, nel 1625: “Opera del Correggio è parimente un altro quadro, popolarmente chiamato la Zingara. Anch’esso fu riprodotto da uno dei Carracciolo e ne abbiamo visto in Parma l’originale a tal punto corroso e rovinato da farci sospettare che in breve sarebbe scomparso. Del resto la bellezza di tale lavoro fu pregiudicata dall’artista stesso col violare le leggi del decoro, attribuendo alla ladruncola egiziana la figura della Vergine”. In realtà nonostante il cattivo stato in cui versava l’opera e nonostante le riserve che nutriva sul suo decoro, Federico Borromeo rimase a tal punto affascinato dalla Zingarella da chiedere al duca di Parma il permesso di far copiare l’opera a Bartolomeo Schedoni. Questa copia della Zingarella giunse a Milano dopo il1610 e ispirò molti artisti lombardi, fra cui Fede Galizia[ e Francesco Cairo.
Già nel Cinquecento ne esistevano altre copie, una delle quali si può idenificare probabilmente con l’opera registrata a Roma nell’inventario della collezione di Girolamo Garimberto da Parma: “Un altro quadretto d’una Madonna vestita alla cingaresca, che si riposa in un bosco col figliolo in braccio andando in Egitto, bellissimo”.
Il soggetto infatti è quello del Riposo durante la fuga in Egitto, seppure sia trattato senza la figura di san Giuseppe, e concentrato tutto sull’intimo rapporto fra la madre e il bambino in maniera non dissimile da quanto aveva fatto, o faceva in quegli stessi anni, Dosso Dossi]. Stilisticamente sono da rilevare le affinità fra il grappolo di angioletti che scendono sulla figura della Vergine e lo stesso motivo presente nell’Adorazione dei Magi di Brera, mentre per la riuscita compenetrazione fra figure e paesaggio il dipinto ha tangenze in comune con la Madonna con il Bambino e san Giovannino del Prado.
Purtroppo il dipinto, che era come si è visto già rovinato nel primo Seicento, ha subito un infelice restauro nel 1935 che ne ha irrimediabilmente compromesso la lettura.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
IL’opera è registrata nell’inventario manoscritto del 1587 della Guardaroba di Ranuccio Farnese a Parma: “un ritratto della Madona in habito di Cingana di mano del Correggio, incornisato di noce et cortina di cendale verde”. La prima citazione a stampa di questo dipinto si trova invece nelle pagine del Musaeumdi Federico Borromeo, arcivescovo di Milano, nel 1625: “Opera del Correggio è parimente un altro quadro, popolarmente chiamato la Zingara. Anch’esso fu riprodotto da uno dei Carracciolo e ne abbiamo visto in Parma l’originale a tal punto corroso e rovinato da farci sospettare che in breve sarebbe scomparso. Del resto la bellezza di tale lavoro fu pregiudicata dall’artista stesso col violare le leggi del decoro, attribuendo alla ladruncola egiziana la figura della Vergine”. In realtà nonostante il cattivo stato in cui versava l’opera e nonostante le riserve che nutriva sul suo decoro, Federico Borromeo rimase a tal punto affascinato dalla Zingarella da chiedere al duca di Parma il permesso di far copiare l’opera a Bartolomeo Schedoni. Questa copia della Zingarella giunse a Milano dopo il1610 e ispirò molti artisti lombardi, fra cui Fede Galizia[ e Francesco Cairo.
Già nel Cinquecento ne esistevano altre copie, una delle quali si può idenificare probabilmente con l’opera registrata a Roma nell’inventario della collezione di Girolamo Garimberto da Parma: “Un altro quadretto d’una Madonna vestita alla cingaresca, che si riposa in un bosco col figliolo in braccio andando in Egitto, bellissimo”.
Il soggetto infatti è quello del Riposo durante la fuga in Egitto, seppure sia trattato senza la figura di san Giuseppe, e concentrato tutto sull’intimo rapporto fra la madre e il bambino in maniera non dissimile da quanto aveva fatto, o faceva in quegli stessi anni, Dosso Dossi]. Stilisticamente sono da rilevare le affinità fra il grappolo di angioletti che scendono sulla figura della Vergine e lo stesso motivo presente nell’Adorazione dei Magi di Brera, mentre per la riuscita compenetrazione fra figure e paesaggio il dipinto ha tangenze in comune con la Madonna con il Bambino e san Giovannino del Prado.
Purtroppo il dipinto, che era come si è visto già rovinato nel primo Seicento, ha subito un infelice restauro nel 1935 che ne ha irrimediabilmente compromesso la lettura.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
EL GRECO- Ritratto di Giulio Clovia
El Greco (Domenico Theotokopoulos) (1541 - 1614) Ritratto di Giulio Clovia Datazione: 1571 - 1572Dipinto olio su tela cm 62 x 84E' opera firmata del pittore cretese giunto a Venezia nel 1567 e subito entrato a bottega da Tiziano. Fu realizzata nel 1571-72, all'epoca in cui El Greco, iscritto all'Accademia di San Luca, era perfettamente introdotto presso la corte farnesiana grazie alle raccomandazioni del suo protettore Giulio Clovio. Proprio quest'ultimo, famoso miniatore croato al servizio dei Farnese dal 1539, è ritratto nella tela di Capodimonte, più che settantenne e con in mano la sua più celebre opera, il Libro d'Ore, ora alla Pierpont Morgan Library di New York. Il dipinto è fortemente influenzato nell'impasto cromatico, nel paesaggio tempestoso e nella libera resa delle pagine miniate dalla lezione dell'ultimo Tiziano e dell'ultimo Bassano.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
El Greco - El Soplon
Giovinetto che soffia su un carbone acceso (El soplòn)
Inventario: Q 192El Greco (Domenico Theotokopoulos) (1541 - 1614)Datazione: 1570 - 1572Dipinto olio su tela cm 60.5 x 50.5Negli anni del soggiorno veneziano, El Greco si mostro' particolarmente sensibile alle sperimentazioni luministiche maturate in area lombardo-veneta negli anni Sessanta del Cinquecento; il soggetto - replicato piu' volte anche nel periodo spagnolo, a cui risale la denominazione di "El soplòn" - rievoca, infatti, le suggestive atmosfere crepuscolari di Jacopo Bassano e Tintoretto. L'esemplare risale quasi certamente agli anni romani, durante i quali l'artista strinse amicizia con Giulio Clovio e Fulvio Orsini. Dalla cultura antiquaria di quest'ultimo potrebbe derivare la fonte classica ispiratrice del tema, individuabile nel "Fanciullo che soffia sul fuoco" dipinto nel IV secolo a.C. da Antifilo di Alessandria, rivale di Apelle, e celebrato da Plinio il vecchio nella Naturalis Historia per i suggestivi riverberi di luce sul volto del giovane e nell'ambiente circostante.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Inventario: Q 192El Greco (Domenico Theotokopoulos) (1541 - 1614)Datazione: 1570 - 1572Dipinto olio su tela cm 60.5 x 50.5Negli anni del soggiorno veneziano, El Greco si mostro' particolarmente sensibile alle sperimentazioni luministiche maturate in area lombardo-veneta negli anni Sessanta del Cinquecento; il soggetto - replicato piu' volte anche nel periodo spagnolo, a cui risale la denominazione di "El soplòn" - rievoca, infatti, le suggestive atmosfere crepuscolari di Jacopo Bassano e Tintoretto. L'esemplare risale quasi certamente agli anni romani, durante i quali l'artista strinse amicizia con Giulio Clovio e Fulvio Orsini. Dalla cultura antiquaria di quest'ultimo potrebbe derivare la fonte classica ispiratrice del tema, individuabile nel "Fanciullo che soffia sul fuoco" dipinto nel IV secolo a.C. da Antifilo di Alessandria, rivale di Apelle, e celebrato da Plinio il vecchio nella Naturalis Historia per i suggestivi riverberi di luce sul volto del giovane e nell'ambiente circostante.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Fra Bartolomeo
Fra Bartolomeo (Baccio della Porta) (1472 - 1517)Datazione: 1516Dipinto olio su tavola cm 311 x 203Acquistata nel 1800 dall'emissario Domenico Venuti per le collezioni borboniche, la pala e' stata identificata con quella che Fra Bartolomeo realizzo' nel 1516 per l'altare della Chiesa di Santa Maria in Castello a Prato. Il dipinto si articola in una composizione calibrata e simmetrica, scandita dalla pacatezza delle pose e da una gamma cromatica sapientemente dosata, in linea con la produzione tarda dell'artista, che sino alla fine della carriera si mantenne fedele a moduli raffaelleschi classicistici, tuttavia riproposti in un repertorio di soluzioni compositive e modelli iconografici ripetitivi e convenzionali.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Filippino Lippi
Filippino Lippi (1457 ca. - 1504)Datazione: 1485 ca.Dipinto Tempera su tavola cm 114 x 122Proveniente dal deposito allestito dalle truppe repubblicane francesi a Roma, presso la chiesa di San Luigi dei Francesi, l'opera giunge a Napoli nel 1801. Inizialmente attribuita al Ghirlandaio, viene riconosciuta da Berenson come opera giovanile di Filippino Lippi, e databile verso il 1485. In essa sono presenti, infatti, ancora sia le influenze del padre Filippo, specialmente nel gruppo dell'Annunciazione, sia quelle del Botticelli, nei santi ai lati: una caratteristica ricorrente in tutta la prima produzione di Filippino, ancora fortemente legato ai suoi due maestri. Sullo sfondo appare una straordinaria veduta della citta' di Firenze con il campanile di Giotto e la cupola di Santa Maria del Fiore, mentre sullo sfondo si stagliano dolci colline. In primo piano si svolge la scena dell'Annunciazione, con l'angelo genuflesso che porge un giglio alla Vergine, alla presenza dei santi Giovanni Battista, a sinistra, e Andrea, a destra. La presenza di elementi naturalistici resi con minuzia di particolari, come il prato fiorito arricchito di fiorellini variopinti, ma anche il cespuglio di rose, rivelano un interesse per la pittura fiamminga e anticipano soluzioni che si ritroveranno in Filippino in opere più tarde, degli anni Ottanta, come la Visione di San Bernardo nella Badia fiorentina.ffettuare modifiche.
Lorenzo LOtto.
Olio su tavola (54,7x41,3 cm) di Lorenzo Lotto, datato al 1505.
StoriaL'opera anticamente aveva una coperta, o custodia, con un'iscrizione nel rovescio dove si chiariva il soggetto, il vescovo di Treviso Bernardo de' Rossi, la sua età al momento del ritratto (36 anni) e la data del 1505.
A quel tempo il giovane pittore veneziano frequentava la piccola corte vescovile trevigiana, tra letterati e artisti, per la quale dipinse altre opere. L'antica custodia è stata identificata con la Allegoria della Virtù e del Viziooggi conservata alla National Gallery di Washington. Perduta l'iscrizione in successive manomissioni, il suo contenuto è comunque stato tramandato da trascrizioni attendibili.
Il ritratto fu portato a Parma dallo stesso vescovo, quando vi si rifugiò nel 1524, e in seguito entrò nelle collezioni Farnese che, come è noto, vennero trasferite a Napoli nel 1760.
Descrizione e stileRappresentato a mezza figura, col busto di tre quarti e il volto girato verso lo spettatore, il giovane vescovo è ritratto con un vivo realismo, che si sofferma su particolari come l'incarnato rubicondo, le occhiaie appena accennate, le leggere imperfezioni della pelle. Dalla berretta nera sporgono alcuni riccioli castano chiaro, che evidenziano il fisiotipo nordico, così come gli occhi azzurri ed espressivi. La mantella rossa spicca sullo sfondo scuro, una tenda verde qua e là increspata, tipica dell'arte veneziana a cavallo tra Quattro e Cinquecento.
La mano destra, vicino al bordo, è ornata da anelli e stringe con fermezza un rotolo manoscritto, un gesto rivelatore dell'energia e determinazione del soggetto. Ciò riecheggia le suggestioni psicologiche di Antonello da Messina, mentre la saldezza plastica della figura, la luce forte e incidente, che crea ombre profonde, e l'attenzione al dettaglio sono legati alle suggestioni dell'arte nordica, in particolare Dürer, che forse Lotto aveva conosciuto in maniera indiretta, tramite disegni. Il rotolo forse contiene la condanna verso la congiura organizzata nei suoi confronti nel 1503.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
StoriaL'opera anticamente aveva una coperta, o custodia, con un'iscrizione nel rovescio dove si chiariva il soggetto, il vescovo di Treviso Bernardo de' Rossi, la sua età al momento del ritratto (36 anni) e la data del 1505.
A quel tempo il giovane pittore veneziano frequentava la piccola corte vescovile trevigiana, tra letterati e artisti, per la quale dipinse altre opere. L'antica custodia è stata identificata con la Allegoria della Virtù e del Viziooggi conservata alla National Gallery di Washington. Perduta l'iscrizione in successive manomissioni, il suo contenuto è comunque stato tramandato da trascrizioni attendibili.
Il ritratto fu portato a Parma dallo stesso vescovo, quando vi si rifugiò nel 1524, e in seguito entrò nelle collezioni Farnese che, come è noto, vennero trasferite a Napoli nel 1760.
Descrizione e stileRappresentato a mezza figura, col busto di tre quarti e il volto girato verso lo spettatore, il giovane vescovo è ritratto con un vivo realismo, che si sofferma su particolari come l'incarnato rubicondo, le occhiaie appena accennate, le leggere imperfezioni della pelle. Dalla berretta nera sporgono alcuni riccioli castano chiaro, che evidenziano il fisiotipo nordico, così come gli occhi azzurri ed espressivi. La mantella rossa spicca sullo sfondo scuro, una tenda verde qua e là increspata, tipica dell'arte veneziana a cavallo tra Quattro e Cinquecento.
La mano destra, vicino al bordo, è ornata da anelli e stringe con fermezza un rotolo manoscritto, un gesto rivelatore dell'energia e determinazione del soggetto. Ciò riecheggia le suggestioni psicologiche di Antonello da Messina, mentre la saldezza plastica della figura, la luce forte e incidente, che crea ombre profonde, e l'attenzione al dettaglio sono legati alle suggestioni dell'arte nordica, in particolare Dürer, che forse Lotto aveva conosciuto in maniera indiretta, tramite disegni. Il rotolo forse contiene la condanna verso la congiura organizzata nei suoi confronti nel 1503.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
LORENZO LOTTO - Madonna col Bambino, san Pietro martire e un donatore
La Madonna col Bambino, san Pietro martire e un donatore è un dipinto a olio su tavola (55x88 cm) di Lorenzo Lotto, datato al 1503.
StoriaLa data dell'opera si trova iscritta sul retro ("1503 adì 20 septembris") e sebbene non sia la grafia del pittore, nota da lettere e altre carte, è compatibile con i primi anni del Cinquecento, quindi attendibile.
Ciò la pone all'inizio del periodo trevigiano, probabilmente commissionata dal vescovo Bernardo de' Rossi. L'ipotesi degli studiosi è che la pala fosse un ex-voto per essere scampato all'attentato del 29 settembre 1503, che venne scoperto e sventato in anticipo.
Fu portato a Parma verosimilmente dallo stesso vescovo, quando vi si rifugiò nel 1524, e in seguito entrò nelle collezioni Farnese (prima registrazione nota nel 1650) che, come è noto, vennero trasferite a Napoli nel 1760.
Descrizione e stileLa composizione della sacra conversazione è tipica della pittura veneziana della fine del Quattrocento, legata all'esempio di Giovanni Bellini e Cima da Conegliano. Maria col Bambino in ginocchio si trova a destra, con le spalle parate dal consueto panno verde, in questo caso però animato da pieghe che mostrano anche il risvolto, di un rosso acceso. A sinistra si apre un dolce paesaggio di colline che sfumano in lontananza, punteggiate da castelli e altri segni della presenza umana. La presenza di Pietro Martire, con i tipici attributi della mannaia nel cranio e del coltello nel cranio e nel petto, è spiegabile con una destinazione legata all'Ordine domenicano, ma anche con il parallelismo legato alla sorte del santo, perito in un agguato, rispetto a quella del committente.
La Madonna pone una mano su un san Giovannino di scarsa fattura, verso cui anche il Bambino indirizza un gesto di benedizione, ma analisi radiografiche hanno confermato che sotto questa figura si trovava originariamente un uomo inginocchiato con la croce, probabilmente il vescovo de' Rossi.
Lo stile dell'opera, che predilige colori squillanti e contorni netti, in contrasto con il dominante influsso del tonalismo, rimandano all'influenza di Alvise Vivarini, che probabilmente fu il maestro del LottParagraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
StoriaLa data dell'opera si trova iscritta sul retro ("1503 adì 20 septembris") e sebbene non sia la grafia del pittore, nota da lettere e altre carte, è compatibile con i primi anni del Cinquecento, quindi attendibile.
Ciò la pone all'inizio del periodo trevigiano, probabilmente commissionata dal vescovo Bernardo de' Rossi. L'ipotesi degli studiosi è che la pala fosse un ex-voto per essere scampato all'attentato del 29 settembre 1503, che venne scoperto e sventato in anticipo.
Fu portato a Parma verosimilmente dallo stesso vescovo, quando vi si rifugiò nel 1524, e in seguito entrò nelle collezioni Farnese (prima registrazione nota nel 1650) che, come è noto, vennero trasferite a Napoli nel 1760.
Descrizione e stileLa composizione della sacra conversazione è tipica della pittura veneziana della fine del Quattrocento, legata all'esempio di Giovanni Bellini e Cima da Conegliano. Maria col Bambino in ginocchio si trova a destra, con le spalle parate dal consueto panno verde, in questo caso però animato da pieghe che mostrano anche il risvolto, di un rosso acceso. A sinistra si apre un dolce paesaggio di colline che sfumano in lontananza, punteggiate da castelli e altri segni della presenza umana. La presenza di Pietro Martire, con i tipici attributi della mannaia nel cranio e del coltello nel cranio e nel petto, è spiegabile con una destinazione legata all'Ordine domenicano, ma anche con il parallelismo legato alla sorte del santo, perito in un agguato, rispetto a quella del committente.
La Madonna pone una mano su un san Giovannino di scarsa fattura, verso cui anche il Bambino indirizza un gesto di benedizione, ma analisi radiografiche hanno confermato che sotto questa figura si trovava originariamente un uomo inginocchiato con la croce, probabilmente il vescovo de' Rossi.
Lo stile dell'opera, che predilige colori squillanti e contorni netti, in contrasto con il dominante influsso del tonalismo, rimandano all'influenza di Alvise Vivarini, che probabilmente fu il maestro del LottParagraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
MASACCIO: CROCIFISSIONE
La Crocifissione è un dipinto tempera su tavola di Masaccio, facente parte dello smembrato e in parte disperso Polittico di Pisa, del quale costituiva il comparto centrale superiore. L'opera misura 83x63 cm, risale al 1426.
Destinato alla chiesa del Carmine per la cappella del notaio ser Giuliano di Colino degli Scarsi da San Giusto, il polittico di Pisa è l'opera meglio documentata diMasaccio, grazie a un committente particolarmente preciso, che annotò tutti i pagamenti e i solleciti fatti al pittore.
Il 19 febbraio 1426 l'artista era a Pisa a siglare il contratto per la somma di 80 fiorini (con i quali il pittore doveva provvedere anche ai materiali più costosi: l'oro dello sfondo e l'azzurro ultramarino di buona qualità) e, dopo vari solleciti e richieste a impegnarsi in esclusiva all'opera, il 26 dicembre Masaccio riceveva il saldo per l'opera.
Entro il 1568 Giorgio Vasari lo vide e lo descrisse nella seconda edizione delle Vite. Nel corso del XVII o XVIII secolo venne rimosso dall'altare, smembrato e disperso.
La tavola della Crocefissione venne acquistata dal museo nel 1901 come opera di un anonimo fiorentino. Pochi anni dopo Suida lo riconobbe come opera di Masaccio e lo associò al polittico pisano (W. Suida, 1906, pp. 125-127).
Descrizione e stileLa tavola di Capodimonte mostra la scena della Crocifissione con tre "dolenti": la Vergine, san Giovanni e la Maddalena, rappresentata in ginocchio di spalle al centro (riconoscibilissima dal tipico vestito rosso). Quest'ultima è creata quasi unicamente dal suo gesto disperato, mentre allarga le braccia e piega la schiena.
Il Cristo, guardato di fronte, pare abbia il capo completamente incassato nelle spalle, come arreso alla morte. In realtà la tavola va vista dal basso verso l'alto come quando era collocata nel suo sito originario, ed in questa prospettiva il collo appare nascosto dal torace innaturalmente sporgente. Anche il corpo, con le gambe disarticolate dal supplizio, appare sfalsato dalla prospettiva. Masaccio tentò di scorciare in prospettiva il corpo del Cristo, ma l'effetto sperimentale ottenuto fu più maldestro che illusionistico. In ogni caso fu il primo tentativo del genere e ben testimonia il clima sperimentale del primo Rinascimento fiorentino. Boskovits sottolineò l'inedita posizione frontale, molto rara dai tempi del declino del Cristus Triumphans (inizio del XIII secolo).
Il volto brunito di Cristo è colto nel momento del trapasso, quando ha appena pronunciato, rivolto a san Giovanni, le parole «Ecco la tua madre!», con le quali gli ha affidato la Madonna.
La Madonna sta ora immobile ai piedi della croce, le mani giunte che si stringono nel dolore, erta in tutta la sua statura, nell'ampio mantello blu, come impietrita dall'angoscia. Sull'altro lato della croce sta san Giovanni con il capo mestamente reclinato sulle mani congiunte, ed il movimento delle braccia è sottolineato dal blu di una manica che contrasta con il rosso del manto. Ha il volto affranto e sembra sforzarsi per trattenere le lacrime. In alto sulla croce è posto il l'albero della vita, simbolo della rinascita: quando Giuda si impiccò, l'albero rinacque.
La scena sembrerebbe immobile — come se con il trapasso di Cristo anche il tempo si fosse fermato — se non fosse per la presenza della Maddalena che vediamo solo di spalle, i lunghi capelli biondi disciolti sul suo manto scarlatto, e pare aver fatto da poco irruzione nella scena ed agitarsi scomposta dal dolore.
Inginocchiata ai piedi di Cristo, le braccia aperte e tese al cielo che ricordano i gesti drammatici delle «lamentatrici» nell'antico pianto funebre della tradizione mediterranea, la Maddalena ha, in questa tavoletta di Masaccio, una impareggiabile forza espressiva che segna il culmine del pathos della scena. Roberto Longhi pensò che la figura della Maddalena fosse un'aggiunta leggermente posteriore che si sovrapponeva al piede della croce, come farebbe pensare l'aureola senza decorazioni, che venivano aggiunte in un momento precedente alla pittura della tavolaParagraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Destinato alla chiesa del Carmine per la cappella del notaio ser Giuliano di Colino degli Scarsi da San Giusto, il polittico di Pisa è l'opera meglio documentata diMasaccio, grazie a un committente particolarmente preciso, che annotò tutti i pagamenti e i solleciti fatti al pittore.
Il 19 febbraio 1426 l'artista era a Pisa a siglare il contratto per la somma di 80 fiorini (con i quali il pittore doveva provvedere anche ai materiali più costosi: l'oro dello sfondo e l'azzurro ultramarino di buona qualità) e, dopo vari solleciti e richieste a impegnarsi in esclusiva all'opera, il 26 dicembre Masaccio riceveva il saldo per l'opera.
Entro il 1568 Giorgio Vasari lo vide e lo descrisse nella seconda edizione delle Vite. Nel corso del XVII o XVIII secolo venne rimosso dall'altare, smembrato e disperso.
La tavola della Crocefissione venne acquistata dal museo nel 1901 come opera di un anonimo fiorentino. Pochi anni dopo Suida lo riconobbe come opera di Masaccio e lo associò al polittico pisano (W. Suida, 1906, pp. 125-127).
Descrizione e stileLa tavola di Capodimonte mostra la scena della Crocifissione con tre "dolenti": la Vergine, san Giovanni e la Maddalena, rappresentata in ginocchio di spalle al centro (riconoscibilissima dal tipico vestito rosso). Quest'ultima è creata quasi unicamente dal suo gesto disperato, mentre allarga le braccia e piega la schiena.
Il Cristo, guardato di fronte, pare abbia il capo completamente incassato nelle spalle, come arreso alla morte. In realtà la tavola va vista dal basso verso l'alto come quando era collocata nel suo sito originario, ed in questa prospettiva il collo appare nascosto dal torace innaturalmente sporgente. Anche il corpo, con le gambe disarticolate dal supplizio, appare sfalsato dalla prospettiva. Masaccio tentò di scorciare in prospettiva il corpo del Cristo, ma l'effetto sperimentale ottenuto fu più maldestro che illusionistico. In ogni caso fu il primo tentativo del genere e ben testimonia il clima sperimentale del primo Rinascimento fiorentino. Boskovits sottolineò l'inedita posizione frontale, molto rara dai tempi del declino del Cristus Triumphans (inizio del XIII secolo).
Il volto brunito di Cristo è colto nel momento del trapasso, quando ha appena pronunciato, rivolto a san Giovanni, le parole «Ecco la tua madre!», con le quali gli ha affidato la Madonna.
La Madonna sta ora immobile ai piedi della croce, le mani giunte che si stringono nel dolore, erta in tutta la sua statura, nell'ampio mantello blu, come impietrita dall'angoscia. Sull'altro lato della croce sta san Giovanni con il capo mestamente reclinato sulle mani congiunte, ed il movimento delle braccia è sottolineato dal blu di una manica che contrasta con il rosso del manto. Ha il volto affranto e sembra sforzarsi per trattenere le lacrime. In alto sulla croce è posto il l'albero della vita, simbolo della rinascita: quando Giuda si impiccò, l'albero rinacque.
La scena sembrerebbe immobile — come se con il trapasso di Cristo anche il tempo si fosse fermato — se non fosse per la presenza della Maddalena che vediamo solo di spalle, i lunghi capelli biondi disciolti sul suo manto scarlatto, e pare aver fatto da poco irruzione nella scena ed agitarsi scomposta dal dolore.
Inginocchiata ai piedi di Cristo, le braccia aperte e tese al cielo che ricordano i gesti drammatici delle «lamentatrici» nell'antico pianto funebre della tradizione mediterranea, la Maddalena ha, in questa tavoletta di Masaccio, una impareggiabile forza espressiva che segna il culmine del pathos della scena. Roberto Longhi pensò che la figura della Maddalena fosse un'aggiunta leggermente posteriore che si sovrapponeva al piede della croce, come farebbe pensare l'aureola senza decorazioni, che venivano aggiunte in un momento precedente alla pittura della tavolaParagraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
MASOLINO
Data 1423 o 1428
La Fondazione di Santa Maria Maggiore è una tempera su tavola (144x76 cm) di Masolino, un tempo pannello centrale del recto della Pala Colonna. Oggi è conservata con il dipinto che si trovava sul rovescio (l'Assunzione della Vergine) nel Museo di Capodimonte a Napoli.
I
La datazione della pala, già destinata all'altare maggiore della basilica di Santa Maria Maggiore è molto controversa. L'ipotesi più accreditata è quella che si tratti di un'opera dipinta direttamente a Roma da Masolino a Masaccio (autore del pannello dei Santi Girolamo e Giovanni Battista), l'ultima di Masaccio prima della scomparsa, quindi databile ai primi mesi del 1428; altri (come Spike) la legano, a causa dell'iconografia, al giubileo di Martino V del 1423, ponendola quindi come prima opera della collaborazione tra i due artisti, prima della cappella Brancacci e della Sant'Anna Metterza. Secondo alcuni la pala fu interamente commissionata a Masolino, che poi ne delegò una parte al suo assistente Masaccio; secondo altri fu commissionata a Masaccio, il quale disegnò il complesso, per poi venire completata in larga parte da Masolino dopo la sua morte.
Il cardinale Oddone Colonna, eletto nel 1417 come papa Martino V pose fine allo scisma d'Occidente; tra il 1419 e il 1420 sostò a Firenze, in attesa che Roma fosse sufficientemente sicura a riceverlo. Nella città toscana probabilmente venne in contatto con gli artisti lì attivi: Gentile da Fabriano, Arcangelo di Cola, Lorenzo Ghiberti e probabilmente Masolino. Appena messo piede a Roma Martino V si dedicò subito al compito di riportare la città al suo antico splendore ed indisse un giubileo per il 1423, cui sembrano alludere alcuni particolari iconografici della pala.
La pala venne vista verso la metà del XVI secolo da Vasari e Michelangelo, che la trovarono ormai spostata in una piccola cappella vicino alla sacrestia ("cappella Colonna"). Essi, che videro solo una faccia essendo probabilmente addossata a una parete, la ritennero interamente opera di Masaccio, ignorando Masolino.
Nel 1653 la pala Colonna si trovava ormai a palazzo Farnese, con i pannelli segati nello spessore in modo da separare le facce ed avere sei dipinti separati, che in un inventario sono elencati come opere di Beato Angelico. In seguito vennero dispersi e, ricomparsi in momenti diversi sul mercato antiquario, vennero riconosciuti quando ormai erano sparsi in più musei. La pala centrale, ritenuta la più pregevole, giunse Napoli tramite l'eredità Farnese.
[modifica] Descrizione e stile
Il pannello mostra l'evento miracoloso legato alla fondazione della basilica di Santa Maria Maggiore a Roma. Secondo la leggenda durante il torrido agosto del 358 avvenne una prodigiosa nevicata, che disegnò i contorni di una basilica sull'Esquilino. Papa Liberio si decise allora a fondarla. Egli, vestito col triregno, è raffigurato in primo piano mentre con una zappa traccia il solco delle fondazioni della basilica, della quale si nota l'abside disegnata a terra dalla neve. Secondo Vasari questo sarebbe il ritratto in realtà di Martino V, con accanto l'imperatore Sigismondo.Attorno a lui si dispone una folla numerosa, affiancata da alcuni edifici scorciati in prospettiva. Anche le nuvolette in alto sembrano voler ricreare una semplicistica fuga prospettiva (ben diversa dagli effetti naturalistici disegnati nel cielo del Pagamento del Tributo nella Cappella Brancacci da Masaccio), mentre più in alto, nella lunetta, si trovano entro un medaglione Gesù e la Vergine che osservano il miracolo appena compiuto.Fai clic qui per effettuare modifiche.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Masolino - Assunzione della Vergine.
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Mantegna- Sant'Eufemia
Sant'Eufemia è un dipinto, tempera a colla su tela (171x78 cm), di Andrea Mantegna, firmato e datato 1454.
[Descrizione e stileLa santa a grandezza naturale è posta entro un arco monumentale sul quale si trova scritto il suo nome a lettere dorate e sono appese ghirlande di frutta e foglie di derivazione squarcionesca. Essa è colta in un'espressione di grande semplicità, con i tratti del volto rischiarati della luce che ne restituiscono la bellezza terrena.Eufemia è corredata dei simboli del martirio: la palma in mano, il coltello nel petto, il leone che morde la mano destra.
L'impostazione è simile all'Assunzione della Vergine della cappella Ovetari, con la visione scorciata dal basso e il saldo rigore prospettico della cornice architettonica.
Su un cartiglio alla base si trova la firma dell'artista: OPVS ANDREAE MANTEGNAE / MCCCCLIIII.
[Descrizione e stileLa santa a grandezza naturale è posta entro un arco monumentale sul quale si trova scritto il suo nome a lettere dorate e sono appese ghirlande di frutta e foglie di derivazione squarcionesca. Essa è colta in un'espressione di grande semplicità, con i tratti del volto rischiarati della luce che ne restituiscono la bellezza terrena.Eufemia è corredata dei simboli del martirio: la palma in mano, il coltello nel petto, il leone che morde la mano destra.
L'impostazione è simile all'Assunzione della Vergine della cappella Ovetari, con la visione scorciata dal basso e il saldo rigore prospettico della cornice architettonica.
Su un cartiglio alla base si trova la firma dell'artista: OPVS ANDREAE MANTEGNAE / MCCCCLIIII.
Mantegna - Ritratto di Francesco Gonzaga
E'un dipinto tempera su tavola (25x18 cm) di Andrea Mantegna, databile al 1461 circa.
StoriaFrancesco Gonzaga era il figlio secondogenito del marchese di Mantova Ludovico Gonzaga, eletto cardinale a sedici anni da Pio II poco dopo il Concilio di Mantova.
L'effigie fu tra le prime opere dipinte da Mantegna per la corte mantovana, dove si era trasferito entro il 1460.
Descrizione e stileIl giovane cardinale è ritratto con l'abito porporato di profilo su uno sfondo scuro. La posa laterale era consueta nell'arte nelle corti italiane del tempo, ed era mutuata dalle effigi umanistiche dei vir illustris, a loro volta ispirate alla numismatica romana di età imperiale.
Con notevole sensibilità l'artista fa emergere sotto l'abito ecclesiastico l'aspetto ancora fanciullesco e ingenuo del ragazzo, caratterizzando con naturalezza l'età adolescenziale.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
StoriaFrancesco Gonzaga era il figlio secondogenito del marchese di Mantova Ludovico Gonzaga, eletto cardinale a sedici anni da Pio II poco dopo il Concilio di Mantova.
L'effigie fu tra le prime opere dipinte da Mantegna per la corte mantovana, dove si era trasferito entro il 1460.
Descrizione e stileIl giovane cardinale è ritratto con l'abito porporato di profilo su uno sfondo scuro. La posa laterale era consueta nell'arte nelle corti italiane del tempo, ed era mutuata dalle effigi umanistiche dei vir illustris, a loro volta ispirate alla numismatica romana di età imperiale.
Con notevole sensibilità l'artista fa emergere sotto l'abito ecclesiastico l'aspetto ancora fanciullesco e ingenuo del ragazzo, caratterizzando con naturalezza l'età adolescenziale.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Michelangelo- Disegno
Michelangelo (Michelangelo Buonarroti) (1475 - 1564)Datazione: 1546 ca.Disegno carboncino su carta cm 263 x 156Il prezioso esemplare, l'unico integralmente autografo conservato fino a oggi, e' un frammento del cartone preparatorio impiegato da Michelangelo per la Crocifissione di San Pietro, affrescata tra il 1546 e il 1550 sulla parete destra della Cappella Paolina in Vaticano. Le tre figure, recanti lungo le linee di contorno una foratura finalizzata all'applicazione dello spolvero sull'intonaco, corrispondono ai soldati inquadrati di tergo, che, nell'affresco, occupano l'angolo inferiore a sinistra della scena centrale. In assenza della figurazione complessiva e mancando ogni riferimento paesaggistico, il monumentale plasticismo del gruppo compatto si evidenzia con maggiore intensita' e vigore nel disegno preparatorio piuttosto che nell'opera finita, nella quale i tre personaggi si integrano in un insieme piu' sciolto e dinamico. Il cartone provenie dalla ricca collezione di Fulvio Orsini ed e' composto di 19 fogli di carta reale bolognose, assemblati in un montaggio su tela che fu curato probabilmente dallo stesso bibliotecario dei Farnese.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Raffaello: Ritratto del cardinale Alessandro Farnese
Dipinto ad olio su tavola (132x86 cm) attribuito a Raffaello, databile al 1509-1511 circa.
StoriaL'opera in passato venne anche riconosciuta come ritratto di Silvio Passerini, mentre oggi è ritenuto più probabile che si tratti di Alessandro Farnese, futuro Paolo III. L'attribuzione ha subito varie oscillazioni: quella tradizionale a Raffaello venne contestata dal Cavalcaselle, che parlò di opera di scuola fiorentina del primo Cinquecento, mentre Morelli lo riferì alla scuola del Sanzio. Berenson, Venturi e Fischel invece lo giudicarono opera autografa.
Oggi, sebbene il precario stato di conservazione impedisca di sciogliere tutti i dubbi, è solitamente riferita allo stesso Raffaello nell'ideazione e in gran parte dell'esecuzione.
La datazione oscilla tra il 1509 e il 1512, quando il Farnese, divenuto vescovo di Parma, iniziò una campagna di accrescimento del prestigio personale, sostenuto dal partito mediceo.
Descrizione e stileIl giovane cardinale è ritratto in piedi fino al ginocchio, ruotato di tre quarti verso sinistra e dentro una stanza scura in cui si apre una finestra che lascia intravedere un luminoso paesaggio fluviale.
Indossa la porpora e il berretto cardinalizio e nella mano destra tiene una lettera, mentre la sinistra è distesa lungo la gamba, in un gesto che acquista solennità per i forti contrasti di colore e il rilievo plastico del braccio dato dalla luce incidente che proviene da davanti. Dominano le tonalità di rosso molto acceso, che creano una macchia di colore in cui la figura del cardinale appare quasi esile, con una leggera venatura psicologica che mostra sia fierezza sia un briciolo di incertezza legata alla gioventù del prelato ed alla lunga strada che si era prefissato di percorrere.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
StoriaL'opera in passato venne anche riconosciuta come ritratto di Silvio Passerini, mentre oggi è ritenuto più probabile che si tratti di Alessandro Farnese, futuro Paolo III. L'attribuzione ha subito varie oscillazioni: quella tradizionale a Raffaello venne contestata dal Cavalcaselle, che parlò di opera di scuola fiorentina del primo Cinquecento, mentre Morelli lo riferì alla scuola del Sanzio. Berenson, Venturi e Fischel invece lo giudicarono opera autografa.
Oggi, sebbene il precario stato di conservazione impedisca di sciogliere tutti i dubbi, è solitamente riferita allo stesso Raffaello nell'ideazione e in gran parte dell'esecuzione.
La datazione oscilla tra il 1509 e il 1512, quando il Farnese, divenuto vescovo di Parma, iniziò una campagna di accrescimento del prestigio personale, sostenuto dal partito mediceo.
Descrizione e stileIl giovane cardinale è ritratto in piedi fino al ginocchio, ruotato di tre quarti verso sinistra e dentro una stanza scura in cui si apre una finestra che lascia intravedere un luminoso paesaggio fluviale.
Indossa la porpora e il berretto cardinalizio e nella mano destra tiene una lettera, mentre la sinistra è distesa lungo la gamba, in un gesto che acquista solennità per i forti contrasti di colore e il rilievo plastico del braccio dato dalla luce incidente che proviene da davanti. Dominano le tonalità di rosso molto acceso, che creano una macchia di colore in cui la figura del cardinale appare quasi esile, con una leggera venatura psicologica che mostra sia fierezza sia un briciolo di incertezza legata alla gioventù del prelato ed alla lunga strada che si era prefissato di percorrere.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Raffaello - L'Eterno fra Cherubini e testa della Madonna
L'Eterno tra cherubini e testa di Madonna è un doppio frammento di dipinto a olio su tavola (112x75 cm il riquadro con Dio Padre e 51x41 cm quello con Maria) di Raffaello, databile al 1500-1501.
StoriaLa pala eseguita per la cappella Baronci nella chiesa di Sant'Agostino a Città di Castello è la prima opera documentata di Raffaello, allora diciassettenne, che vi lavorò con un collaboratore più anziano, già a bottega da suo padre, Evangelista da Pian di Meleto. Il contratto è datato 10 dicembre 1500 e la consegna è registrata il 13 settembre 1501.
La pala venne danneggiata durante un terremoto nel 1789. Sezionata per separare le parti lesionate da quelle ancora fruibili, venne in seguito dispersa a metà dell'Ottocento.
Descrizione e stileGrazie a una disegno preparatorio al Musée des Beaux-Arts di Lilla è stato possibile ricollocare i frammenti nella composizione generale. L'Eterno e Maria si trovavano nell'arco superiore, sopra la figura centrale di san Nicola da Tolentino, nell'atto di incoronarlo; a destra si trovava poi la figura di sant'Agostino, del quale si intravede la corona che pure era offerta al santo sottostante.
Dei vari frammenti della pala questo è quello che mostra l'adesione a schemi più tradizionali, di derivazione peruginesca, come nell'arcaico motivo dellamandorla con cherubini. Vi si è letta l'influenza del padre di Raffaello, Giovanni Santi, che usò uno schema simile nella Pala Buffi per la chiesa di San Francesco a Urbino, con lo stesso motivo delle corone sospese.
Se il volto della Vergine mostra una delicatezza assegnabili a Raffaello, il maggiore schematismo dell'Eterno viene di solito riferito alla mano di Evangelista da Pian di Meleto.
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StoriaLa pala eseguita per la cappella Baronci nella chiesa di Sant'Agostino a Città di Castello è la prima opera documentata di Raffaello, allora diciassettenne, che vi lavorò con un collaboratore più anziano, già a bottega da suo padre, Evangelista da Pian di Meleto. Il contratto è datato 10 dicembre 1500 e la consegna è registrata il 13 settembre 1501.
La pala venne danneggiata durante un terremoto nel 1789. Sezionata per separare le parti lesionate da quelle ancora fruibili, venne in seguito dispersa a metà dell'Ottocento.
Descrizione e stileGrazie a una disegno preparatorio al Musée des Beaux-Arts di Lilla è stato possibile ricollocare i frammenti nella composizione generale. L'Eterno e Maria si trovavano nell'arco superiore, sopra la figura centrale di san Nicola da Tolentino, nell'atto di incoronarlo; a destra si trovava poi la figura di sant'Agostino, del quale si intravede la corona che pure era offerta al santo sottostante.
Dei vari frammenti della pala questo è quello che mostra l'adesione a schemi più tradizionali, di derivazione peruginesca, come nell'arcaico motivo dellamandorla con cherubini. Vi si è letta l'influenza del padre di Raffaello, Giovanni Santi, che usò uno schema simile nella Pala Buffi per la chiesa di San Francesco a Urbino, con lo stesso motivo delle corone sospese.
Se il volto della Vergine mostra una delicatezza assegnabili a Raffaello, il maggiore schematismo dell'Eterno viene di solito riferito alla mano di Evangelista da Pian di Meleto.
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Raffaello Sanzio - Disegno.
Raffaello (Raffaello Sanzio) (1483 - 1520)Datazione: 1514 ca.Disegno carboncino e biacca su carta cm 140 x 138Il disegno, concepito per la figura di Mose' affrescata sulla volta della Stanza di Eliodoro in Vaticano, reca una foratura lungo le linee di contorno tale da favorire l'applicazione dello spolvero sull'intonaco. Nell'affresco l'episodio biblico occupa uno dei quattro scomparti del soffitto, insieme all'Apparizione di Dio a Noe', Il Sacrificio di Isacco e Il Sogno di Giacobbe. L'attribuzione del cartone a Raffaello e' stata in passato lungamente dibattuta e da taluni risolta a favore di Baldassarre Peruzzi e Giovan Francesco Penni. Un importante intervento conservativo che ha limitato i danni provocati da un restauro del 1839, ha pero' fugato ogni dubbio sull'autografia del disegno, il cui gigantismo e l'energico plasticismo testimoniano il momento di massima ispirazione al capolavoro michelangiolesco della Sistina.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Palma il Vecchio: Sacra Conversazione
Palma il Vecchio (Jacopo Negretti) (1480 ca. - 1528) SACRA CONVERSAZIONEDatazione: 1525 ca.Dipinto olio su tavola 131 x 194La tavola proviene dalla collezione dell'impresario teatrale Domenico Barbaja ed entro' a far parte delle acquisizioni borboniche nel 1841. Il tema della Sacra Conversazione fu replicato numerose volte da Palma il Vecchio, pittore di origine bergamasca, che trasse dalla cultura veneta e dal complesso stile di Lorenzo Lotto, una continua fonte d'ispirazione. Nell'esemplare napoletano - tra i massimi capolavori dell'artista - la gamma cromatica raggiunge esiti di particolare virtuosismo, specialmente nel calibratissimo contrasto tra i colori diafani di alcuni incarnati e i toni smaltati delle vesti. L'impaginazione compositiva e il monumentale plasticismo di San Giuseppe testimoniano, inoltre, l'influsso sullo stile maturo di Palma, delle complesse invenzioni del Pordenone.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
PARMIGIANINO.
l Ritratto di Galeazzo Sanvitale è un dipinto a olio su tavola (109x81 cm) di Parmigianino, databile al 1524.
Storia: Il breve ma intenso periodo di lavoro del Parmigianino alla corte dei Sanvitale alla Rocca di Fontanellato (oggi in provincia di Parma), si data al 1524 (anno riportato sul retro del dipinto), mentre l'artista iniziava a farsi una fama da maestro prima di partire per Roma l'anno successivo. Alla rocca realizzò la famosaStufetta di Diana e Atteone, un ciclo di affreschi in una stanza privata di Paola Gonzaga, moglie di Galeazzo Sanvitale.
L'opera si trovava già nelle collezioni Farnese nel 1587, quando è menzionata per la prima volta con certezza, durante la redazione di un inventario: "un ritratto del conte Galeazzo Sanvitale [...] di mano del Parmigianino]". Secondo il Bertino l'opera era probabilmente arrivata nella quadreria Farnese nel 1561, quando il duca Ottavio Farnese aveva acquistato dal vescovo Eucherio Sanvitale il casino di Codiponte, per ingrandire il proprio giardino. Eucherio infatti, figlio di Galeazzo a Paola, aveva ereditato i beni familiari alla morte del padre nel 1550 e non è escluso che durante la compravendita dell'edificio avesse alienato anche i dipinti ivi contenuti.
Nel 1784, con tutta la collezione Farnese, il dipinto lasciò Parma per Napoli. Fu requisito dai Francesi nel 1799 e lasciato in deposito a Roma per un anno. Da qui venne spedito a Palermo a Ferdinando IV Borbone, che lo tenne presso di sé per un decennio, dal 1806 al 1816, prima che tornasse nel capoluogo partenopeo..
Nei vari passaggi di proprietà si era nel frattempo persa l'identità del soggetto e dell'autore. Si parlava infatti ormai della scuola di Raffaello e di un ritratto di Cristoforo Colombo, probabilmente per un'interpretazione fantasiosa del cammeo sul cappello, raffigurante le Colonne d'Ercole. Fu un discendente dei Sanvitale, Luigi, a riconoscere in base alle carte ancora in possesso della famiglia la figura del suo antenato, nel 1857, mentre per ristabilire la paternità del Parmigianino si dovette attendere il 1894, quando se ne occupò il Ricci.
Ne esistono disegni preparatori al Cabinet des Dessins (6472 recto e verso) e in collezione Tobley.
Descrizione e stileSi tratta di un "ritratto da parata", destinato cioè a magnificare l'immagine del conte presso i suoi ospiti, non un'effigie privata: ciò si deduca dalla ricchezza di oggetti che ne qualificano i nobili interessi e la raffinatezza dei costumi.
Si tratta di uno dei più celebri ritratti di Parmigianino, col conte, allora ventottenne, raffigurato seduto su una sedia Savonarola, col corpo di tre quarti verso sinistra e il volto ruotato frontalmente, che direziona un intenso sguardo verso lo spettatore. Indossa un'ampia giubba nera, secondo la moda del tempo, da cui escono due maniche di pesante stoffa rossa decorate da tagli sequenziali, che scoprono la vaporosa camicia bianca, con ricami sul polsino. Il berretto è dello stesso colore scarlatto, con tagli eleganti lungo il bordo, perline dorate, una piuma e un cammeo a decorare. Si tratta di un vestito alla francese, che in quei tempi poteva intendere anche la particolare fede politica del protagonista.
La sinistra è poggiata sul bracciolo e, con un anello d'oro con pietra al mignolo, regge un guanto, vicino all'elsa della spada. L'altra è invece ancora inguantata e mostra allo spettatore una medaglia bronzea, recante due simboli. Questi ultimi sono stati letti come una "C" e una "F", allusive al titolo di "Comes Fontanellati", o come un "72" (Ricci, 1894, basandosi anche sulle descrizioni inventariali antiche). Sul significato del numero sono state fatte varie ipotesi, legate soprattutto all'alchimia (Fagiolo Dell'Arco, 1969 e 1970; Mutti, 1978), che vedono nei due numeri allusioni alla Luna e a Giove; oppure alla congiunzione fra Sole e Luna, che alluderebbe all'unione matrimoniale fra Galeazzo e la moglie Paola Gonzaga. Tutte ipotesi che però contrastano con le fonti antiche, che in nessun caso ricordano il conte come alchimista (lo fu invero con tutta probabilità il Parmigianino, ma non è questa una ragione perché egli inserisse messaggi in codice in un dipinto ritraente un suo committente).
Il volto con uno sguardo magnetico, è illuminato incisivamente da destra, evidenziando l'incarnato chiaro e liscio, la soffice barba, i lunghi favoriti e i ricci leggeri della capigliatura. La fronte è spaziosa, gli occhi chiari ed espressivi, il naso dritto. Una certa intimità tra pittore e soggetto dovette essere necessaria per poter restituire così efficacemente la giovanile bellezza, la fiera baldanza e la ricchezza di interessi del conte, guerriero e gentiluomo al contempo.
Su un tavolino dietro ad esso si trovano appoggiati i pezzi di un'armatura lucente e una mazza ferrata, simboli evocativi della sua indole guerriera. Oltre un muro, a destra, si apre poi una veduta di un albero frondoso, elemento piacevole e decorativo, con le foglie lumeggiate con sapiente maestria. Questa vegetazione è così fitta da bloccare lo spazio, assumendo una funzione di variazione di colore dell'ambiente chiuso.
Il dipinto, di raffinatissima fattura, segue solo apparentemente i canoni della ritrattistica cinquecentesca; in realtà presenta un elaborato gioco di piani e di effetti. La sedia è posta di traverso, mentre il busto è in posizione frontale, ed il muro di sfondo si colloca in obliquo. Quest'ultimo viene presentato scialbo, in netto contrasto con la lussureggiante vegetazione che si intravvede dalla vicina finestra. Anche la luce illumina sostanzialmente solo il volto e le braccia del Sanvitale, mentre uno sprazzo si riflette sull'armatura lucidata, interrotto soltanto da una piccola ammaccatura decentrata.
Storia: Il breve ma intenso periodo di lavoro del Parmigianino alla corte dei Sanvitale alla Rocca di Fontanellato (oggi in provincia di Parma), si data al 1524 (anno riportato sul retro del dipinto), mentre l'artista iniziava a farsi una fama da maestro prima di partire per Roma l'anno successivo. Alla rocca realizzò la famosaStufetta di Diana e Atteone, un ciclo di affreschi in una stanza privata di Paola Gonzaga, moglie di Galeazzo Sanvitale.
L'opera si trovava già nelle collezioni Farnese nel 1587, quando è menzionata per la prima volta con certezza, durante la redazione di un inventario: "un ritratto del conte Galeazzo Sanvitale [...] di mano del Parmigianino]". Secondo il Bertino l'opera era probabilmente arrivata nella quadreria Farnese nel 1561, quando il duca Ottavio Farnese aveva acquistato dal vescovo Eucherio Sanvitale il casino di Codiponte, per ingrandire il proprio giardino. Eucherio infatti, figlio di Galeazzo a Paola, aveva ereditato i beni familiari alla morte del padre nel 1550 e non è escluso che durante la compravendita dell'edificio avesse alienato anche i dipinti ivi contenuti.
Nel 1784, con tutta la collezione Farnese, il dipinto lasciò Parma per Napoli. Fu requisito dai Francesi nel 1799 e lasciato in deposito a Roma per un anno. Da qui venne spedito a Palermo a Ferdinando IV Borbone, che lo tenne presso di sé per un decennio, dal 1806 al 1816, prima che tornasse nel capoluogo partenopeo..
Nei vari passaggi di proprietà si era nel frattempo persa l'identità del soggetto e dell'autore. Si parlava infatti ormai della scuola di Raffaello e di un ritratto di Cristoforo Colombo, probabilmente per un'interpretazione fantasiosa del cammeo sul cappello, raffigurante le Colonne d'Ercole. Fu un discendente dei Sanvitale, Luigi, a riconoscere in base alle carte ancora in possesso della famiglia la figura del suo antenato, nel 1857, mentre per ristabilire la paternità del Parmigianino si dovette attendere il 1894, quando se ne occupò il Ricci.
Ne esistono disegni preparatori al Cabinet des Dessins (6472 recto e verso) e in collezione Tobley.
Descrizione e stileSi tratta di un "ritratto da parata", destinato cioè a magnificare l'immagine del conte presso i suoi ospiti, non un'effigie privata: ciò si deduca dalla ricchezza di oggetti che ne qualificano i nobili interessi e la raffinatezza dei costumi.
Si tratta di uno dei più celebri ritratti di Parmigianino, col conte, allora ventottenne, raffigurato seduto su una sedia Savonarola, col corpo di tre quarti verso sinistra e il volto ruotato frontalmente, che direziona un intenso sguardo verso lo spettatore. Indossa un'ampia giubba nera, secondo la moda del tempo, da cui escono due maniche di pesante stoffa rossa decorate da tagli sequenziali, che scoprono la vaporosa camicia bianca, con ricami sul polsino. Il berretto è dello stesso colore scarlatto, con tagli eleganti lungo il bordo, perline dorate, una piuma e un cammeo a decorare. Si tratta di un vestito alla francese, che in quei tempi poteva intendere anche la particolare fede politica del protagonista.
La sinistra è poggiata sul bracciolo e, con un anello d'oro con pietra al mignolo, regge un guanto, vicino all'elsa della spada. L'altra è invece ancora inguantata e mostra allo spettatore una medaglia bronzea, recante due simboli. Questi ultimi sono stati letti come una "C" e una "F", allusive al titolo di "Comes Fontanellati", o come un "72" (Ricci, 1894, basandosi anche sulle descrizioni inventariali antiche). Sul significato del numero sono state fatte varie ipotesi, legate soprattutto all'alchimia (Fagiolo Dell'Arco, 1969 e 1970; Mutti, 1978), che vedono nei due numeri allusioni alla Luna e a Giove; oppure alla congiunzione fra Sole e Luna, che alluderebbe all'unione matrimoniale fra Galeazzo e la moglie Paola Gonzaga. Tutte ipotesi che però contrastano con le fonti antiche, che in nessun caso ricordano il conte come alchimista (lo fu invero con tutta probabilità il Parmigianino, ma non è questa una ragione perché egli inserisse messaggi in codice in un dipinto ritraente un suo committente).
Il volto con uno sguardo magnetico, è illuminato incisivamente da destra, evidenziando l'incarnato chiaro e liscio, la soffice barba, i lunghi favoriti e i ricci leggeri della capigliatura. La fronte è spaziosa, gli occhi chiari ed espressivi, il naso dritto. Una certa intimità tra pittore e soggetto dovette essere necessaria per poter restituire così efficacemente la giovanile bellezza, la fiera baldanza e la ricchezza di interessi del conte, guerriero e gentiluomo al contempo.
Su un tavolino dietro ad esso si trovano appoggiati i pezzi di un'armatura lucente e una mazza ferrata, simboli evocativi della sua indole guerriera. Oltre un muro, a destra, si apre poi una veduta di un albero frondoso, elemento piacevole e decorativo, con le foglie lumeggiate con sapiente maestria. Questa vegetazione è così fitta da bloccare lo spazio, assumendo una funzione di variazione di colore dell'ambiente chiuso.
Il dipinto, di raffinatissima fattura, segue solo apparentemente i canoni della ritrattistica cinquecentesca; in realtà presenta un elaborato gioco di piani e di effetti. La sedia è posta di traverso, mentre il busto è in posizione frontale, ed il muro di sfondo si colloca in obliquo. Quest'ultimo viene presentato scialbo, in netto contrasto con la lussureggiante vegetazione che si intravvede dalla vicina finestra. Anche la luce illumina sostanzialmente solo il volto e le braccia del Sanvitale, mentre uno sprazzo si riflette sull'armatura lucidata, interrotto soltanto da una piccola ammaccatura decentrata.
Pamigianino - LUCREZIA.
Parmigianino (Francesco Mazzola) (1503 - 1540)Datazione: 1539 - 1540 ca.Dipinto Olio su tavola cm 67 x 51
Attribuita erroneamente da alcuni critici, in contraddizione con le antiche citazioni, a Bedoli, o addirittura a Tibaldi, può essere identificata, viceversa, con la Lucrezia citata da Vasari nella Vita di Parmigianino. La freddezza eburnea delle carni e l'astratta eleganza del profilo rivelano, infatti, una qualita' altissima, mai raggiunta da Bedoli, e vicina, anche per la raffinata esecuzione della capigliatura, alle opere tarde di Parmigianino. L'esistenza poi di un disegno preparatorio per la Diana cacciatrice - simbolo di verginità - incisa sul cammeo che ferma la veste cangiante della matrona, costituisce un elemento probante per l'autografia del dipinto.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Attribuita erroneamente da alcuni critici, in contraddizione con le antiche citazioni, a Bedoli, o addirittura a Tibaldi, può essere identificata, viceversa, con la Lucrezia citata da Vasari nella Vita di Parmigianino. La freddezza eburnea delle carni e l'astratta eleganza del profilo rivelano, infatti, una qualita' altissima, mai raggiunta da Bedoli, e vicina, anche per la raffinata esecuzione della capigliatura, alle opere tarde di Parmigianino. L'esistenza poi di un disegno preparatorio per la Diana cacciatrice - simbolo di verginità - incisa sul cammeo che ferma la veste cangiante della matrona, costituisce un elemento probante per l'autografia del dipinto.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Parmigianino: Ritratto di giovane Donna
Parmigianino -AnteaParagraph. Ritratto di giovane donna (Antea)
)Datazione: 1530 - 1535Dipinto Olio su tela cm 136 x 86Identificata tradizionalmente con 'Antea', celebre cortigiana forse amata dall'artista durante il suo soggiorno romano (1524-27), questa enigmatica fanciulla, per il suo aspetto virginale e il suo curioso abbigliamento, ha suscitato diverse interpretazioni e ipotesi cronologiche che ne hanno accresciuto il fascino, facendone una delle immagini - simbolo del manierismo italiano. L'astrazione stereometrica e il sofisticato gioco di deformazione ottica utilizzato come principio di idealizzazione formale, inducono a porre l'opera accanto a capolavori come la Madonna dal collo lungo (1534-35), forse ancora al tempo del soggiorno dell'artista a Bologna.Fai clic qui per effettuare modifiche.
)Datazione: 1530 - 1535Dipinto Olio su tela cm 136 x 86Identificata tradizionalmente con 'Antea', celebre cortigiana forse amata dall'artista durante il suo soggiorno romano (1524-27), questa enigmatica fanciulla, per il suo aspetto virginale e il suo curioso abbigliamento, ha suscitato diverse interpretazioni e ipotesi cronologiche che ne hanno accresciuto il fascino, facendone una delle immagini - simbolo del manierismo italiano. L'astrazione stereometrica e il sofisticato gioco di deformazione ottica utilizzato come principio di idealizzazione formale, inducono a porre l'opera accanto a capolavori come la Madonna dal collo lungo (1534-35), forse ancora al tempo del soggiorno dell'artista a Bologna.Fai clic qui per effettuare modifiche.
ROSSO Fiorentino.
Rosso Fiorentino (Giovanbattista di Jacopo) (1495 ca. - 1540)Datazione: 1529 ca.Dipinto olio su tavola cm 120 x 86Proveniente dalla preziosa collezione di Fulvio Orsini, il dipinto e' oggi considerato un capolavoro della ritrattistica cinquecentesca. L'enigmatico giovinetto, ritratto in un interno domestico ricco di elementi decorativi che suggeriscono un'ambientazione tipicamente umanistica, siede su un tavolino coperto da un tappeto orientale, mentre dal fondo affiorano i particolari di quella che sembra essere una camera da letto. A sinistra del personaggio si scorge un tendaggio verde, sulla cui sommita' spicca la stravagante presenza di una melagrana, mentre sulla destra, da un portale marmoreo, si intravede un'alcova strutturata a baldacchino. La stesura compendiaria delle pennellate conferisce all'opera un aspetto incompiuto, che ne accresce ulteriormente l'intensita' espressiva; di straordinaria suggestione sono, inoltre, gli effetti luministici che torniscono la testa emergente dall'ombra, una delle poche parti della tavola realmente finite.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Guido Reni: Atalanta e Ippomene
Atalanta e Ippomene è un dipinto di Guido Reni risalente al 1625, custodito al Museo di Capodimonte di Napoli.
Descrizione e stileLa tela rappresenta il mito di Atalanta, ninfa la cui imbattibile capacità nella corsa fu sconfitta solo da Ippomene tramite uno stratagemma ordito da Afrodite. Le due figure sono dipinte in un paesaggio notturno, in cui i colori del cielo si uniscono idealmente alle tinte del terreno facendo risaltare prepotentemente i due personaggi.
Atalanta e Ippomene hanno corpi dall'incarnato rosa pallido, ornati da pochi veli che ne coprono gli organi genitali; le loro figure sono tese in movimenti al limite della danza, con un solo piede d'appoggio e le braccia sinistre ripiegate verso il corpo, scelta che permette di creare una composizione geometrica particolare e tesa albarocco.
Descrizione e stileLa tela rappresenta il mito di Atalanta, ninfa la cui imbattibile capacità nella corsa fu sconfitta solo da Ippomene tramite uno stratagemma ordito da Afrodite. Le due figure sono dipinte in un paesaggio notturno, in cui i colori del cielo si uniscono idealmente alle tinte del terreno facendo risaltare prepotentemente i due personaggi.
Atalanta e Ippomene hanno corpi dall'incarnato rosa pallido, ornati da pochi veli che ne coprono gli organi genitali; le loro figure sono tese in movimenti al limite della danza, con un solo piede d'appoggio e le braccia sinistre ripiegate verso il corpo, scelta che permette di creare una composizione geometrica particolare e tesa albarocco.
Francesco Salviati
Francesco Salviati (1510 - 1563)Datazione: 1545 ca.Dipinto Olio su tavola cm 75.5 x 58.5Identificato in passato con il raffaellesco dipinto raffigurante il poeta Tibaldeo, è in realta' un autoritratto di Francesco Salviati, come rivela la scritta a matita posta sul retro della tavola. L'opera risale alla metà degli anni Quaranta del Cinquecento, dopo il ritorno a Firenze dell'artista che si rappresenta con una espressione assorta e malinconica nell'abito severo, ma al tempo stesso raffinato per i dettagli del colletto ricamato e del velluto operato delle maniche, di moda nell'Italia centrale alla metà del secolo XVI.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Giulio Romano - Madonna della Gatta
Giulio Romano (Giulio Pippi) (1492/99 - 1546 MADONNA DELLA GATTA )Datazione: 1523 ca.Dipinto olio su tavola cm 141 x 173La tavola fu eseguita presumibilmente a Roma, su commissione di Federico Gonzaga, gia' mecenate e committente dell'artista negli anni precedenti al suo trasferimento alla corte di Mantova. L'esecuzione del dipinto risalirebbe, infatti, a un periodo prossimo alla celebre Sacra Famiglia del Prado, detta "La Perla", eseguita tra il 1521 e il 1522, a cui rimandano il vigoroso plasticismo del gruppo piramidale in primo piano, i toni metallici intensamente chiaroscurati e l'iconografia dei personaggi. La descrizione analitica dell'interno domestico e il gusto prezioso per i dettagli desunti dal repertorio classico, riflettono, invece, il noto interesse dell'artista per la cultura antiquaria.
Sebastiano del Piombo: Ritratto di Clemente VII
Sebastiano del Piombo.
Sebastiano del Piombo (Sebastiano Luciani) (1485 - 1547)Datazione: 1533 - 1535 ca.Dipinto Olio su lavagna cm 112 x 88Variante speculare e più tarda della Madonna del Velo della Galleria Nazionale di Praga, realizzata da Sebastiano nel 1520 circa probabilmente per il futuro papa Clemente VII, trae spunto, come quella, dalla cosiddetta Madonna del Popolo di Raffaello, di cui i Farnese possedevano un'antica copia. La pienezza dei volumi e la più accesa spiritualita' rivelano l'ascendente di Michelangelo sul pittore veneziano che rielabora l'esemplare praghese negli anni posteriori al Sacco del 1527, tanto più che l'utilizzo del supporto in lavagna è successivo al 1529 e al ritorno dell'artista a Roma. La datazione più adatta sembrerebbe quindi coincidere con gli anni Trenta del Cinquecento, all'epoca in cui il nuovo papa Paolo III Farnese istituiva un rapporto di committenza con Sebastiano del Piombo.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Sebastiano del Piombo: Ritratto di Clenente VII
Sebastiano del Piombo (Sebastiano Luciani) (1485 - 1547)Datazione: 1528 ca.Dipinto olio su lavagna cm 55 x 34Negli anni successivi al 1527 Sebastiano del Piombo realizzo' diversi ritratti di Clemente VII, che dopo il Sacco di Roma, per voto, si era lasciato crescere la barba. Un ritratto su pietra fu commissionato al pittore dal pontefice stesso, ma e' improbabile che il dipinto - documentato in una lettera dell'artista - sia identificabile con il nostro esemplare, da ricondurre, piuttosto, a un altro "ritratto su preta" attestato nella bottega di Sebastiano sino al 1547 e successivamente confluito nella collezione di Fulvio Orsini. Il piccolo dipinto, piu' che un ritratto ufficiale, potrebbe costituire uno studio dal vero impiegato come modello per le successive versioni su tela.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Francesco Salviati: Arazzeria Medicea
Arazzeria Medicea (da Francesco Salviati) (1545 - 1737)Datazione: XVI sec. - meta'Arazzo lana e seta cm 385 x 315L'arazzo, databile alla meta' del XVI secolo, fu realizzato su un cartone di Francesco Salviati. La bordura che incornicia la scena centrale e' caratterizzata da festoni di fiori e frutta, trofei compositi, figure monocrome e cartelle con scritte didascaliche che alludono all'episodio principale e al suo significato allegorico. La fonte da cui Salviati trasse ispirazione e' rintracciabile in un passo dei "Factorum et dictorum memorabilium" di Valerio Massimo, in cui si racconta di un giovane incensiere che, sebbene bruciatosi con un carbone ardente durante un sacrificio rituale, non manifesto' alcun dolore nel rispetto della solennita' della funzione (Lib: III, cap. 3). L'episodio rappresentato nell'arazzo sarebbe, quindi, un'esortazione alla virtu' della Pazienza.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Luca Signorelli:
Luca Signorelli (1445 ca. - 1523)Datazione: 1490 - 1495 ca.Dipinto tempera su tavola cm 142 x 179Il dipinto conflui' nelle collezioni di papa Pio VI in seguito al crollo della chiesa di Sant'Agostino di Citta' di Castello; nel 1802 fu acquistato a Roma dall'emissario borbonico Domenico Venuti e quindi trasferito a Napoli. Inizialmente classificato come anonimo prodotto di scuola toscana, negli anni Trenta del secolo scorso fu attribuito a Luca Signorelli da Berenson, che vi riscontro' spiccate affinita' stilistiche con le Nativita' autografe del Louvre e della National Gallery, databili rispettivamente al 1480 e al 1490. La scena - descritta con un piglio analitico e narrativo che suggerisce molteplici punti di vista - presenta una partitura alquanto arcaica, ulteriormente accentuata dai due angeli affrontati in volo che sovrastano il gruppo centrale, nel quale, tuttavia, non mancano particolari di indubbia qualita', riscontrabili soprattutto nella robusta figura di san Giuseppe.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Ritratto di Filippo II
Tiziano (Tiziano Vecellio) (1488/90 - 1576) RITRATTO FILIPPO II Datazione: 1554 ca.Dipinto olio su tela cm 187 x 98.5Il dipinto si annovera tra le piu' alte prove ritrattistiche di Tiziano, sia per la preziosita' della materia pittorica che per l'acuta indagine psicologica dell'assorto sovrano, effigiato in abiti regali e con indosso il collare dell'Ordine del Toson d'oro. In base alle ipotesi formulate sull'eta' di Filippo, si presume che il ritratto - versione tarda di un perduto esemplare dipinto a Milano in occasione del primo incontro tra l'artista e il giovane principe - fu realizzato e poi inviato in Spagna verso il 1554. Un ulteriore modello a cui Tiziano attinse per la tela napoletana e' rintracciabile nel "Ritratto di Filippo II in armatura", oggi al Museo del Prado, eseguito nel 1551 durante il suo secondo soggiorno ad Augusta.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Tiziano: Ritrattto di Paolo III
Paolo III e i nipoti Alessandro e Ottavio Farnese è un dipinto ad olio su tela realizzato nel 1546 dal pittore italiano Tiziano Vecellio durante il suo soggiorno a Roma.
Ritrae il vecchio papa Paolo III, seduto su di una sedia, con il nipote Ottavio, genuflesso. Dietro c'è l'altro nipote Alessandro, in posa ufficiale con l'abito cardinalizio; il suo sguardo è rivolto verso l'osservatore e non sembra partecipare al colloquio tra gli altri due personaggi. Il ritratto mette in evidenza anche i caratteri dei due soggetti, che con le loro figure comunicanti sembrano quasi descrivere un arco: il papa malato e curvo (ma non privo d'energia, come mostrano l'ossuta mano che stringe il bracciolo della sedia e gli occhietti vivi e attenti) rimprovera con lo sguardo Ottavio, che si inchina per dovere formale (effettivamente in seguito tenterà di uccidere il proprio padre).
Ispirato chiaramente dal quadro di Raffaello Sanzio Ritratto di Leone X con i cardinali Giulio de' Medici e Luigi de' Rossi, l'opera è una fotografia impietosa da parte di Tiziano della controversa politica nepotistica dei pontefici di quel tempo. Lo sfondo e la tovaglia sono infatti scuri e l'uso di colori pastosi e di pennellate poco definite, perché rapide ed abbozzate, lascia un senso di oppressione e di tetraggine.
Nella figura del nipote Ottavio è evidente il richiamo alla posa del discobolo, caratteristica del manierismo nota come figura serpentinata.
Giorgio Vasari, nel suo celebre Le vite, sostiene che il ritratto del papa Paolo III era così apprezzato che molte persone nel passargli davanti si prostravano, credendolo il papa in persona.
« Abbiamo visto ingannare molti occhi a' di nostri, come nel ritratto di Papa Paolo III messo per inverniciarsi su un terrazzo al sole, il quale da molti che passavano veduto, credendolo vivo, gli facevano di capo. »(Giorgio Vasari, Le vite de' più eccellenti pittori, scultori e architettori[1])Il quadro è stato conservato alcuni anni nella corte del Ducato di Parma. Estinta la dinastia maschile dei Duchi Farnese, fu trasferito a Napoli ove si trova tuttora.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Ritrae il vecchio papa Paolo III, seduto su di una sedia, con il nipote Ottavio, genuflesso. Dietro c'è l'altro nipote Alessandro, in posa ufficiale con l'abito cardinalizio; il suo sguardo è rivolto verso l'osservatore e non sembra partecipare al colloquio tra gli altri due personaggi. Il ritratto mette in evidenza anche i caratteri dei due soggetti, che con le loro figure comunicanti sembrano quasi descrivere un arco: il papa malato e curvo (ma non privo d'energia, come mostrano l'ossuta mano che stringe il bracciolo della sedia e gli occhietti vivi e attenti) rimprovera con lo sguardo Ottavio, che si inchina per dovere formale (effettivamente in seguito tenterà di uccidere il proprio padre).
Ispirato chiaramente dal quadro di Raffaello Sanzio Ritratto di Leone X con i cardinali Giulio de' Medici e Luigi de' Rossi, l'opera è una fotografia impietosa da parte di Tiziano della controversa politica nepotistica dei pontefici di quel tempo. Lo sfondo e la tovaglia sono infatti scuri e l'uso di colori pastosi e di pennellate poco definite, perché rapide ed abbozzate, lascia un senso di oppressione e di tetraggine.
Nella figura del nipote Ottavio è evidente il richiamo alla posa del discobolo, caratteristica del manierismo nota come figura serpentinata.
Giorgio Vasari, nel suo celebre Le vite, sostiene che il ritratto del papa Paolo III era così apprezzato che molte persone nel passargli davanti si prostravano, credendolo il papa in persona.
« Abbiamo visto ingannare molti occhi a' di nostri, come nel ritratto di Papa Paolo III messo per inverniciarsi su un terrazzo al sole, il quale da molti che passavano veduto, credendolo vivo, gli facevano di capo. »(Giorgio Vasari, Le vite de' più eccellenti pittori, scultori e architettori[1])Il quadro è stato conservato alcuni anni nella corte del Ducato di Parma. Estinta la dinastia maschile dei Duchi Farnese, fu trasferito a Napoli ove si trova tuttora.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Tiziano - ritratto del Cardinal Farnese.
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Tiziano: Ritratto di Papa PaoloIII
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Tiziano: Diana
Danae è un dipinto ad olio su tela di cm 120 x 172 realizzato nel 1545 dal pittore italiano Tiziano Vecellio.
Il singolare concepimento di Danae, figlia di Acrisio, re di Argo, da parte di Giove trasformato in pioggia d'oro, è stato rappresentato da più artisti nel corso del quattro-cinquecento. Lo stesso Tiziano esegue nel corso degli anni più versioni di questo stesso soggetto. In questa, la prima, conservata a Napoli, al Museo di Capodimonte, Tiziano dipinge una Danae in completo abbandono e soddisfazione.
Ascendenze e discendenzeLa postura della Danae, con un braccio vicino al corpo e l’altro piegato lontano, richiama in modo chiaro la Leda di Michelangelo – dipinto ormai perduto e di cui rimangono solo copie ed incisioni – che sembra essere il primo modello della tela. In questa composizione è presente un Cupido che impedisce alla nutrice di raccogliere la pioggia per impedire la fecondazione. L'opera era sicuramente nota a Tiziano grazie a una copia portata a Venezia dal Vasari nel 1541.
Un altro modello michelangiolesco è sicuramente la Notte, eseguita per la tomba di Giuliano de' Medici nella Sagrestia Nuova a Firenze nel 1531. Si noti, in entrambe le opere, la postura frontale della parte superiore del tronco, con le gambe invece quasi di profilo.
In seguito ritroveremo il tonalismo di Tiziano, coi suoi delicati giochi di luce, nello stesso soggetto trattato da Rembrandt e in uno simile da Van Dyck[, mentre, ancora più modernamente, e con ancor maggiore erotismo, il tema è stato trattato da Klimt.
Dall'opera, comunque, Tiziano trasse un cartone che utilizzò per almeno ben sei versioni, dato il gran successo che ebbe il quadro, giudicato eroticamente molto stimolante: la Danae veniva replicata ogni volta con piccole varianti, ora col Cupido ora con la custode, ora la pioggia ora lampi e fulmini, ora col cagnolino ora senza, ora col lenzuolo ora senza. Ogni cliente riceveva così una diversa versione. Dopo questa di Roma oggi a Napoli fu la volta diFilippo II (versione al Prado), poi una versione che nel 600 apparteneva al Cardinale Montalto e poi donata all'Imperatore Rodolfo II (oggi a Vienna); un'altrasi trova a San Pietroburgo, e così via.
[StoriaTiziano Vecellio, Paolo III con i nipoti, 1546, Olio su tela, 210 x 176, Napoli, Museo di CapodimonteLa forte carica erotica del dipinto aveva fatto attribuire per lungo tempo la commissione del dipinto a Ottavio Farnese]. L’opera, cioè sarebbe da considerare una raffigurazione erotica, creata per il diletto di un giovane principe.
Altri critici[13] propendono oggi per l'attribuzione della commissione ad Alessandro Farnese. Il ritrovamento del carteggio del 1544 del nunzio papale, Monsignor Giovanni Della Casa, indirizzato al cardinale Farnese[14], sembra non lasciar dubbi: Tiziano, scriveva Monsignor Della Casa «...lha presso che fornita, per commession di Vostra Signoria Reverendissima, una nuda che faria venir il diavolo addosso al cardinale San Sylvestro...». Al confronto di questa "nuda", continua Della Casa, «quella che Vostra Signoria Reverendissima vide in Pesaro nelle camere de' l Signor duca d' Urbino è una teatina appresso a questa».
Della Casa continua nella lettera aggiungendo che il Farnese aveva mandato a Tiziano una miniatura che raffigurava la cognata della signora Camilla perché ne facesse il ritratto. Ma il pittore aveva avuto l'idea folgorante: applicare la testa della cognata sul corpo della "nuda". Secondo Monsignor Della Casa, dunque, la Danae non sarebbe altro che il ritratto nudo dell'amante del Farnese, tale Angela, cognata appunto di Camilla Pisana, celebre cortigiana dell'epoca.
Comunque sia, sicuramente il quadro è stato iniziato da Tiziano nel 1544 a Venezia e terminato a Roma nel 1545 – 1546. A Roma Tiziano viene alloggiato al Palazzo del Belvedere e gli vien dato il Vasari come guida. Gira infatti la città, visita i monumenti, lavora nello studio che gli viene assegnato. Qui un giorno arriva Michelangelo che vede «in un quadro che allora aveva condotto, una femina ignuda figurata per una Danae, che aveva in grembo Giove trasformato in pioggia d' oro e molto, come si fa in presenza, gliene lodarono». In privato, tuttavia espresse serie riserve, riportate dal Vasari: «il Buonarruoto lo comendò assai, dicendo che molto gli piaceva il colorito suo e la maniera, ma che era un peccato che a Vinezia non s’imparasse da principio a disegnare bene e che non avessono quei pittori il miglior modo nello studio». Soprattutto Michelangelo nota alcune imperfezioni della gamba, certo che se Tiziano avesse »disegnato assai e studiato cose scelte, antiche o moderne» avrebbe saputo «aiutare le cose che si ritranno dal vivo dando quella grazia e perfezione, che dà l'arte fuori dell'ordine della natura, la quale fa ordinariamente alcune parti che non sono belle». Si comprende quale fosse il rapporto tra gli artisti all'epoca e perché Tiziano abbia voluto con insistenza riprendere tanti motivi michelangioleschi[2].
In seguito il quadro fu trasferito a Parma, nel palazzo della Pilotta, dove risulta negli inventari. Come tutta la collezione Farnese, fu ereditato da Carlo III di Borbone e trasportato a Capodimonte. Durante la rivoluzione del 1799 fu trasferito a Palermo insieme al Paolo III con i nipoti e al Paolo III a capo scoperto. Tornato a Napoli con la restaurazione fu conservato nel "Gabinetto delle cose oscene"[19].
StileL'esame a raggi X del quadro ha rivelato due elementi che fanno riflettere: il primo è la mancanza di disegno al di sotto della pittura[20]. Già Michelangeloaveva notato, come detto prima, l'assenza di disegno e di chiaroscuro e la magnificenza del colore. L'esclusione di disegno preparatorio dà alla pittura una connotazione coloristica molto particolare, quasi impressionistica.
Il secondo elemento rivelato dai raggi X è che esiste, al di sotto di quella visibile, una primitiva composizione con cassoni e domestici, con un esplicito richiamo, quindi, alla Venere di Urbino[3]; il pittore ha poi modificato l'ambiente perché evidentemente troppo domestico per la rappresentazione di un mito altamente erotico e sensuale come quello di Danae.
Lo sguardo è rivolto verso l'alto, avvolto in un'ombra compiacente; il corpo è languido, rilasciato, le gambe, benché coperte da un lembo, sono aperte a ricevere la pioggia fecondante; l'emozione di Danae è tradita dalle pieghe del letto, le cui lenzuola tormenta con la mano destra: in questa versione la principessa di Argo si dona a Giove per amore, come è testimoniato anche dalla presenza del Cupido, di chiara derivazione classica. Non è l'oro che seduce Danae, dunque, ma un reale sentimento erotico[.
Le pennellate sono morbide e sfatte, come spesso in Tiziano; il pittore supera, con quest'opera, la troppa sottolineatura della plasticità dei corpi, come nei lavori precedenti, per approdare ad uno stile libero e coloristicamente puro, di cui volle dare dimostrazione proprio nella Roma michelangiolesca[. Infatti «... se Tiziano e Michiel Angelo fussero un corpo solo, over al disegno di Michiel Angelo aggiontovi il colore di Tiziano, se gli potrebbe dir lo dio della pittura, sì come parimenti dono anco dèi propri...».Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Il singolare concepimento di Danae, figlia di Acrisio, re di Argo, da parte di Giove trasformato in pioggia d'oro, è stato rappresentato da più artisti nel corso del quattro-cinquecento. Lo stesso Tiziano esegue nel corso degli anni più versioni di questo stesso soggetto. In questa, la prima, conservata a Napoli, al Museo di Capodimonte, Tiziano dipinge una Danae in completo abbandono e soddisfazione.
Ascendenze e discendenzeLa postura della Danae, con un braccio vicino al corpo e l’altro piegato lontano, richiama in modo chiaro la Leda di Michelangelo – dipinto ormai perduto e di cui rimangono solo copie ed incisioni – che sembra essere il primo modello della tela. In questa composizione è presente un Cupido che impedisce alla nutrice di raccogliere la pioggia per impedire la fecondazione. L'opera era sicuramente nota a Tiziano grazie a una copia portata a Venezia dal Vasari nel 1541.
Un altro modello michelangiolesco è sicuramente la Notte, eseguita per la tomba di Giuliano de' Medici nella Sagrestia Nuova a Firenze nel 1531. Si noti, in entrambe le opere, la postura frontale della parte superiore del tronco, con le gambe invece quasi di profilo.
In seguito ritroveremo il tonalismo di Tiziano, coi suoi delicati giochi di luce, nello stesso soggetto trattato da Rembrandt e in uno simile da Van Dyck[, mentre, ancora più modernamente, e con ancor maggiore erotismo, il tema è stato trattato da Klimt.
Dall'opera, comunque, Tiziano trasse un cartone che utilizzò per almeno ben sei versioni, dato il gran successo che ebbe il quadro, giudicato eroticamente molto stimolante: la Danae veniva replicata ogni volta con piccole varianti, ora col Cupido ora con la custode, ora la pioggia ora lampi e fulmini, ora col cagnolino ora senza, ora col lenzuolo ora senza. Ogni cliente riceveva così una diversa versione. Dopo questa di Roma oggi a Napoli fu la volta diFilippo II (versione al Prado), poi una versione che nel 600 apparteneva al Cardinale Montalto e poi donata all'Imperatore Rodolfo II (oggi a Vienna); un'altrasi trova a San Pietroburgo, e così via.
[StoriaTiziano Vecellio, Paolo III con i nipoti, 1546, Olio su tela, 210 x 176, Napoli, Museo di CapodimonteLa forte carica erotica del dipinto aveva fatto attribuire per lungo tempo la commissione del dipinto a Ottavio Farnese]. L’opera, cioè sarebbe da considerare una raffigurazione erotica, creata per il diletto di un giovane principe.
Altri critici[13] propendono oggi per l'attribuzione della commissione ad Alessandro Farnese. Il ritrovamento del carteggio del 1544 del nunzio papale, Monsignor Giovanni Della Casa, indirizzato al cardinale Farnese[14], sembra non lasciar dubbi: Tiziano, scriveva Monsignor Della Casa «...lha presso che fornita, per commession di Vostra Signoria Reverendissima, una nuda che faria venir il diavolo addosso al cardinale San Sylvestro...». Al confronto di questa "nuda", continua Della Casa, «quella che Vostra Signoria Reverendissima vide in Pesaro nelle camere de' l Signor duca d' Urbino è una teatina appresso a questa».
Della Casa continua nella lettera aggiungendo che il Farnese aveva mandato a Tiziano una miniatura che raffigurava la cognata della signora Camilla perché ne facesse il ritratto. Ma il pittore aveva avuto l'idea folgorante: applicare la testa della cognata sul corpo della "nuda". Secondo Monsignor Della Casa, dunque, la Danae non sarebbe altro che il ritratto nudo dell'amante del Farnese, tale Angela, cognata appunto di Camilla Pisana, celebre cortigiana dell'epoca.
Comunque sia, sicuramente il quadro è stato iniziato da Tiziano nel 1544 a Venezia e terminato a Roma nel 1545 – 1546. A Roma Tiziano viene alloggiato al Palazzo del Belvedere e gli vien dato il Vasari come guida. Gira infatti la città, visita i monumenti, lavora nello studio che gli viene assegnato. Qui un giorno arriva Michelangelo che vede «in un quadro che allora aveva condotto, una femina ignuda figurata per una Danae, che aveva in grembo Giove trasformato in pioggia d' oro e molto, come si fa in presenza, gliene lodarono». In privato, tuttavia espresse serie riserve, riportate dal Vasari: «il Buonarruoto lo comendò assai, dicendo che molto gli piaceva il colorito suo e la maniera, ma che era un peccato che a Vinezia non s’imparasse da principio a disegnare bene e che non avessono quei pittori il miglior modo nello studio». Soprattutto Michelangelo nota alcune imperfezioni della gamba, certo che se Tiziano avesse »disegnato assai e studiato cose scelte, antiche o moderne» avrebbe saputo «aiutare le cose che si ritranno dal vivo dando quella grazia e perfezione, che dà l'arte fuori dell'ordine della natura, la quale fa ordinariamente alcune parti che non sono belle». Si comprende quale fosse il rapporto tra gli artisti all'epoca e perché Tiziano abbia voluto con insistenza riprendere tanti motivi michelangioleschi[2].
In seguito il quadro fu trasferito a Parma, nel palazzo della Pilotta, dove risulta negli inventari. Come tutta la collezione Farnese, fu ereditato da Carlo III di Borbone e trasportato a Capodimonte. Durante la rivoluzione del 1799 fu trasferito a Palermo insieme al Paolo III con i nipoti e al Paolo III a capo scoperto. Tornato a Napoli con la restaurazione fu conservato nel "Gabinetto delle cose oscene"[19].
StileL'esame a raggi X del quadro ha rivelato due elementi che fanno riflettere: il primo è la mancanza di disegno al di sotto della pittura[20]. Già Michelangeloaveva notato, come detto prima, l'assenza di disegno e di chiaroscuro e la magnificenza del colore. L'esclusione di disegno preparatorio dà alla pittura una connotazione coloristica molto particolare, quasi impressionistica.
Il secondo elemento rivelato dai raggi X è che esiste, al di sotto di quella visibile, una primitiva composizione con cassoni e domestici, con un esplicito richiamo, quindi, alla Venere di Urbino[3]; il pittore ha poi modificato l'ambiente perché evidentemente troppo domestico per la rappresentazione di un mito altamente erotico e sensuale come quello di Danae.
Lo sguardo è rivolto verso l'alto, avvolto in un'ombra compiacente; il corpo è languido, rilasciato, le gambe, benché coperte da un lembo, sono aperte a ricevere la pioggia fecondante; l'emozione di Danae è tradita dalle pieghe del letto, le cui lenzuola tormenta con la mano destra: in questa versione la principessa di Argo si dona a Giove per amore, come è testimoniato anche dalla presenza del Cupido, di chiara derivazione classica. Non è l'oro che seduce Danae, dunque, ma un reale sentimento erotico[.
Le pennellate sono morbide e sfatte, come spesso in Tiziano; il pittore supera, con quest'opera, la troppa sottolineatura della plasticità dei corpi, come nei lavori precedenti, per approdare ad uno stile libero e coloristicamente puro, di cui volle dare dimostrazione proprio nella Roma michelangiolesca[. Infatti «... se Tiziano e Michiel Angelo fussero un corpo solo, over al disegno di Michiel Angelo aggiontovi il colore di Tiziano, se gli potrebbe dir lo dio della pittura, sì come parimenti dono anco dèi propri...».Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Tiziano: Ritratto di Carlo V
Tiziano (Tiziano Vecellio) (1488/90 - 1576)RITRATTO DI CARLO V Datazione: 1533 - 1535 ca.Dipinto olio su tela cm 98 x 71Il recente intervento conservativo a cui la tela e' stata sottoposta ha fugato ogni dubbio sull'autografia di Tiziano e ha contribuito a far luce sull'identita' del personaggio effigiato, certamente identificabile con l'imperatore Carlo V. A lungo reputato un prodotto di bottega, in sede di restauro il dipinto ha rivelato l'originario plasticismo delle vesti, la sapiente cromia dello sfondo che si apre su uno straordinario tramonto infuocato, nonche' la definizione analitica di capelli e barba, le raffinate velature del volto e le labbra dischiuse a causa del noto difetto fisico del sovrano. La spiccata somiglianza con il celebre ritratto dell'imperatore e il cane - oggi al Museo del Prado - eseguito nel 1533, ha suggerito anche per l'esemplare napoletano una datazione ai primi anni Trenta del Cinquecento.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Tiziano: Ritratto Di Pierluigi Farnese
Tiziano (Tiziano VecellioRitratto Pierluigi FarneseDatazione: 1546 ca.Dipinto olio su tela cm 111 x 87Nonostante i danni subiti e il precario stato di conservazione, la tela si colloca tra i massimi capolavori eseguiti da Tiziano per la famiglia Farnese. Figlio primogenito del papa, Pierluigi - qui ritratto nelle vesti di gonfaloniere pontificio - grazie all'esperienza militare e alle doti di abile condottiero, nel 1543 ottenne dal padre l'investitura del ducato di Castro e nel 1545 di Parma e Piacenza. La scelta di promuovere una politica assolutistica, pur incrementando il prestigio della famiglia, determino' tuttavia la repentina e drammatica fine del suo governo: nel settembre del 1547 Pierluigi fu assassinato in una congiura ordita da Ferrante Gonzaga, duca di Milano, e dalle famiglie piacentine dei Landi e degli Anguissola.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Tiziano: Maddalena
(Tiziano Vecellio) (1488/90 - 1576) MADDALENA Datazione: 1550 ca.Dipinto olio su tela cm 122 x 94Nel corso della sua lunga carriera Tiziano replico' piu' volte il tema della Maddalena penitente, a cui apporto' solo poche varianti, riscontrabili soprattutto negli esemplari realizzati durante il Concilio di Trento, le cui direttive imposero la raffigurazione del soggetto in termini piu' pudichi e corredato di tutti gli attributi iconografici convenzionali. La critica ha lungamente dibattuto circa la datazione e la completa autografia della tela napoletana, in cui, secondo alcuni, e' ravvisabile un consistente contributo della bottega.Tra le molteplici proposte di datazione, la piu' convincente sembra essere quella che ascrive l'opera ai primi anni Cinquanta del Cinquecento; il presunto apporto di aiuti e' stato invece smentito da un intervento conservativo risalente al 1960, che, seppur non in grado di arginare i danni provocati da un piu' antico restauro, ha comunque fugato ogni dubbio sulla completa autografia del dipinto e ha messo in luce l'alta qualita' della materia pittorica e la raffinata stesura delle velature.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Tiziano
Tiziano (Tiziano Vecellio) (1488/90 - 1576)Datazione: 1544 - 1545 ca.Dipinto olio su tela cm 84.5 x 73Non e' noto dove, se a Roma o ancora a Venezia,Tiziano abbia realizzato questo ritratto di giovane dama, la cui identita' resta tutt'oggi sconosciuta. La critica degli anni Venti del Novecento ravviso' nel volto della fanciulla le fattezze di Lavinia, figlia di Tiziano, di cui si conserva un ritratto alla Gemaldegalerie di Dresda. Studi piu' recenti hanno invece suggerito il nome di Angela, cortigiana romana e amante del cardinale Alessandro Farnese, identificabile sia con la fanciulla qui effigiata che con la Danae. L'ipotesi che la tela risalga al tempo in cui il pittore lavoro' a Roma e' avvalorata dalla piena maturita' formale che la connota e che suggerisce, pertanto, una datazione alla meta' degli anni Quaranta del Cinquecento.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Tiziano: Annunciazione
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Alvise Vivarini.
Alvise Vivarini (1442/53 - 1505/06) MADONNA E I SS FRANCESCO E BERNARDINO Datazione: 1485Dipinto tempera su tavola cm 120 x 128I tre pannelli, confluiti nelle collezioni borboniche nel 1831, erano parte integrante di un piu' ampio polittico, firmato e datato 1485 sul cartiglio alla base del trono. L'arcaica struttura, articolata in piu' scomparti su probabile richiesta della committenza, in passato ha spinto la critica a reputare le tavole un prodotto di bottega, ipotesi smentita da un'attenta analisi stilistica che ha messo in luce il raggiungimento, da parte di Vivarini, di una completa maturita' formale che si esprime in un plasticismo pieno e terso, aggiornato su Giovanni Bellini e sulle opere veneziane di Antonello da Messina.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Bartolomeo Vivarini
Bartolomeo Vivarini (1432 ca. - post 1491) SACRA CONVERSAZIONE Datazione: 1465Dipinto tempera su tavola cm 118 x 120La tavola, proveniente dal convento degli Osservanti di Bari, in seguito alla soppressione dell'ordine fu trasferita a Napoli e integrata nelle collezioni del Real Museo Borbonico. Pietra miliare della produzione giovanile dell'artista, si reputa che sia la piu' antica Sacra Conversazione - prodotta in ambito veneziano - in cui e' abolita la tradizionale struttura a scomparti a favore di uno spazio unificato. Sul fronte stilistico il dipinto attesta l'affrancamento di Bartolomeo dai modi ancora arcaici del fratello e capobottega Antonio, nonche' una personale e piu' consapevole adesione al nuovo naturalismo padovano e all'incisivo plasticismo mantegnesco.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.