GALLERIA PALATINA
Palazzo Pitti.
La Galleria Palatina è un museo ospitato in Palazzo Pitti a Firenze. Si tratta della "quadreria" dei Granduchi di Firenze: l'allestimento infatti rispetta il gusto dei secoli passati, con i dipinti collocati su più file selezionati per criteri decorativi, e non per periodo e scuole. Cronologicamente, a parte qualche eccezione, i dipinti coprono soprattutto i secoli XVI e XVII, facendone uno dei musei più importanti in Italia nel suo genere.
È situata in alcuni fra i più bei saloni del Palazzo (dal quale deriva appunto il nome Palatina cioè del Palazzo), nel piano nobile. La superba collezione di dipinti è centrata sul periodo del tardo Rinascimento e il barocco, l'epoca d'oro del palazzo stesso, ed è il più importante esempio in Italia di quadreria, dove, a differenza di un allestimento museale moderno, i quadri non sono esposti con criteri sistematici, ma puramente decorativi, coprendo tutta la superficie della parete in schemi simmetrici, molto fedele all'allestimento originario voluto dal Granduca Pietro Leopoldo tra la fine del Settecento e l'inizio dell'Ottocento.
Andrea del Sarto -Sacra Famiglia Bracci.
La Sacra Famiglia Bracci è un dipinto a olio su tavola (129x105 cm) di Andrea del Sarto, databile al 1523 circa .
I
Storia Il dipinto fu eseguito per il mercante Zanobi di Giovambattista Bracci e, quando apparteneva ancora ai suoi discententi, Pier Francesco di Jacopo Foschi ne realizzò una copia. Nel 1579 Monsignor Antonio Bracci donò l'originale a Ferdinando I de' Medici, dopo averne fatto fare un'altra copia da Alessandro Allori. Come molte opere dell'allora cardinale, venne portata a Roma, dove era ancora nel 1671 e riportata a Firenze all'epoca del gran principe Ferdinando, nel 1706, che la collocò in una villa non meglio precisata, forse Pratolino, Poggio Imperiale o Castello.
A Pitti arrivò entro il 1761. In passato venne ipotizzata la partecipazione della bottega, ma oggi si ritiene il lavoro in massima parte autografo, con datazione al 1523 sulla base di motivi stilistici, quando forte era ancora l'influenza michelangiolesca (Shearman).
Descrizione :L'opera mostra la Sacra Famiglia con san Giovannino, in una composizione ben studiata, inscrivibile in un ovale, che dimostra l'assimilazione di Raffaello del periodo fiorentino. Maria seduta contempla dolcemente il figlio disteso in terra su un lenzuolo rosato, mentre dietro di lei veglia san Giuseppe e a destra sta in piedi san Giovannino, in una posa di vivace plasticità che ricorda l'esempio di Michelangelo.
Anche lo sfondo asseconda la disposizione delle figure, con una quinta rocciosa a sinistra a cui corrisponde, sulla destra dove ci sono i fanciulli, un'apertura paesistica. Particolarmente affascinante è il panneggio della veste di Maria, che si frammenta in una serie di piccole crepe accartocciate dove la luce si accende di riflessi vivaci, derivata dall'esempio delle stampe di Dürer, allora popolarissime anche a Firenze, e che dimostra un dialogo con gli altri artisti della "maniera": Pontormo e Rosso Fiorentino.
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Storia Il dipinto fu eseguito per il mercante Zanobi di Giovambattista Bracci e, quando apparteneva ancora ai suoi discententi, Pier Francesco di Jacopo Foschi ne realizzò una copia. Nel 1579 Monsignor Antonio Bracci donò l'originale a Ferdinando I de' Medici, dopo averne fatto fare un'altra copia da Alessandro Allori. Come molte opere dell'allora cardinale, venne portata a Roma, dove era ancora nel 1671 e riportata a Firenze all'epoca del gran principe Ferdinando, nel 1706, che la collocò in una villa non meglio precisata, forse Pratolino, Poggio Imperiale o Castello.
A Pitti arrivò entro il 1761. In passato venne ipotizzata la partecipazione della bottega, ma oggi si ritiene il lavoro in massima parte autografo, con datazione al 1523 sulla base di motivi stilistici, quando forte era ancora l'influenza michelangiolesca (Shearman).
Descrizione :L'opera mostra la Sacra Famiglia con san Giovannino, in una composizione ben studiata, inscrivibile in un ovale, che dimostra l'assimilazione di Raffaello del periodo fiorentino. Maria seduta contempla dolcemente il figlio disteso in terra su un lenzuolo rosato, mentre dietro di lei veglia san Giuseppe e a destra sta in piedi san Giovannino, in una posa di vivace plasticità che ricorda l'esempio di Michelangelo.
Anche lo sfondo asseconda la disposizione delle figure, con una quinta rocciosa a sinistra a cui corrisponde, sulla destra dove ci sono i fanciulli, un'apertura paesistica. Particolarmente affascinante è il panneggio della veste di Maria, che si frammenta in una serie di piccole crepe accartocciate dove la luce si accende di riflessi vivaci, derivata dall'esempio delle stampe di Dürer, allora popolarissime anche a Firenze, e che dimostra un dialogo con gli altri artisti della "maniera": Pontormo e Rosso Fiorentino.
Andrea del Sarto - Sacra Famiglia Medici
La Sacra Famiglia Medici è un dipinto a olio su tavola (140x104 cm) di Andrea del Sarto, databile al 1529 e conservato.
Storia :Vasari ricorda come l'opera vene commissionata da Ottaviano de' Medici come oggetto di devozione privata, nel 1529. Egli poossedeva già due Madonne dell'artista e desiderava anche un lavoro della sua "ultima maniera". Il dipinto fu apprezzato da Rubens, che vi poté trovare tutti quegli elementi che utilizzò nella sua rivisitazione dell'arte italiana.
Documentata a palazzo Pitti dal 1637, tra il 1716 e il 1723 l'opera stette nella camera da letto granducale, mentre oggi è nella Sala di Apollo.
Descrizione e stile :Nonostante il titolo tradizionale, non si trata di una Sacra Famiglia, essendo assente san Giuseppe, ma di una Madonna col Bambino, sant'Elisabetta e san Giovannino, la cui croce fatta di canne si trova appoggiata nell'angolo inferiore sinistro, illuminata da un fascio di luce.
Maria tiene in grembo il Bambino voltandosi verso sinistra, con Elisabetta che fa lo stesso col proprio figlio proiettato però in avanti e in una posizione rialzata, che dà all'insieme una foirma piramidale asimmetrica. Tali studi com positivi sono un evidente omaggio a Raffaello degli anni fiorentini, così come la nitidezza del disegno e il senso scultoreo richiamano Michelangelo e il particolare sfumato deriva da Leonardo da Vinci, anche se la sua fusione con colori accesi e l'effetto chiazzato sono tipici di Andrea del Sarto, infatti si parla di sfumato "sartesco".
I colori sono accesi dalla luce, soprattutto nella veste di Maria dai toni cangianti e dal panneggio accartocciato, tipico della "maniera", ma le tonalità sono in generale smorzate un po' stridenti, generanti una tensione tipica di quegli anni che l'artista risolse coloristicamente piuttosto che con le forzature anatomiche e compositive dei suoi colleghi Pontormo e Rosso Fiorentino.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Storia :Vasari ricorda come l'opera vene commissionata da Ottaviano de' Medici come oggetto di devozione privata, nel 1529. Egli poossedeva già due Madonne dell'artista e desiderava anche un lavoro della sua "ultima maniera". Il dipinto fu apprezzato da Rubens, che vi poté trovare tutti quegli elementi che utilizzò nella sua rivisitazione dell'arte italiana.
Documentata a palazzo Pitti dal 1637, tra il 1716 e il 1723 l'opera stette nella camera da letto granducale, mentre oggi è nella Sala di Apollo.
Descrizione e stile :Nonostante il titolo tradizionale, non si trata di una Sacra Famiglia, essendo assente san Giuseppe, ma di una Madonna col Bambino, sant'Elisabetta e san Giovannino, la cui croce fatta di canne si trova appoggiata nell'angolo inferiore sinistro, illuminata da un fascio di luce.
Maria tiene in grembo il Bambino voltandosi verso sinistra, con Elisabetta che fa lo stesso col proprio figlio proiettato però in avanti e in una posizione rialzata, che dà all'insieme una foirma piramidale asimmetrica. Tali studi com positivi sono un evidente omaggio a Raffaello degli anni fiorentini, così come la nitidezza del disegno e il senso scultoreo richiamano Michelangelo e il particolare sfumato deriva da Leonardo da Vinci, anche se la sua fusione con colori accesi e l'effetto chiazzato sono tipici di Andrea del Sarto, infatti si parla di sfumato "sartesco".
I colori sono accesi dalla luce, soprattutto nella veste di Maria dai toni cangianti e dal panneggio accartocciato, tipico della "maniera", ma le tonalità sono in generale smorzate un po' stridenti, generanti una tensione tipica di quegli anni che l'artista risolse coloristicamente piuttosto che con le forzature anatomiche e compositive dei suoi colleghi Pontormo e Rosso Fiorentino.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Andrea del Sarto - La Pietà di Luco
La Pietà di Luco è un dipinto a olio su tavola (238x198 cm) di Andrea del Sarto, databile al 1523-1524 e conservato nella Galleria Palatina di Firenze.
I
Storia [modifica]Nel 1523, per sfuggire a una pestilenza, l'artista si rifugiò con la famiglia a Luco di Mugello, grazie all'aiuto dell'amico Antonio Brancacci. Qui lavorò per il monastero femminile di San Pietro, dove la badessa, Caterina di Tedaldo della Casa, gli commissionò una grande pala col tema del Compianto. Nel disegnarla si ispirò abbastanza fedelmente a quella di una decina d'anni prima di Fra Bartolomeo, a sua volta derivata dal Compianto sul Cristo morto diPerugino: tutte e tre le tavole si trovano oggi alla Galleria Palatina. Avviata nell'autunno 1523, la pala dovette essere completa entro l'ottobre 1524, quando è registrato il pagamento di 80 fiorini all'artista. La data dietro l'altare, il 1527, indica probabilmente solo la collocazione della pala, tra festeggiamenti solenni.
Nel 1782 Pietro Leopoldo si offrì di acquistare il dipinto in cambio di per 2400 scudi e una copia fatta eseguire da Sante Pacini, che oggi si trova ancora in loco, nella cornice originale, che contiene pure la predella, della seconda metà del Cinquecento. Inizialmente destinata agli Uffizi, nel 1795 la Pietà di Andrea del Sarto fu scambiata con la Madonna delle Arpie. Trasferita a Parigi durante l'occupazione napoleonica (1799), è tornata a Firenze nel 1815.
Descrizione [modifica]Una roccia che declina da sinistra verso destra fa da sfondo al Compianto sul Cristo morto, o Pietà. Gesù dopo la crocifissione viene adagiato sul sudario e lapietra dell'unzione, prima di essere messo nel sepolcro che si intravede a sinistra, nel dolore generale: Giovanni apostolo gli tiene la schiena, la Madonna un braccio e Maria Maddalena, che ha i gomiti piegati e le mani intrecciate portate al viso, sta vicino ai suoi piedi e lo guarda attonita.
Partecipano alla scena tre santi: san Pietro, titolare del monastero, un santo maschile in rosso (forse Nicodemo o san Paolo) e una santa Caterina d'Alessandria, riconoscibile per la ruota spezzata, nelle cui fattezze si celerebbe un ritratto della badessa committente.
In alto a destra si apre un leggero paesaqggio di colline che sfumano in lontananza e una città turrita azzurina.
In questa prova Andrea del Sarto ammantò le figure di una nuova monumentalità, derivata dall'esempio michelangiolesco, e di colori brillanti alla Raffaello, colpiti però da una luce forte che crea inaspettati bagliori a cangiantismo, tipici della prima "maniera" di Pontormo e Rosso Fiorentino, i due più brillanti allievi del Sarto con cui insturarò un rapporto di confronto/sfida.
Sapiente è la composizione dei personaggi, con rimandi l'un l'altro lungo le due diagonali, che si intersecano dietro la figura di Cristo. Il pathos scaìturisce dall'atmosfera sospesa e le emozioni trattenute, piuttosto che su una vera e propria manifestazione di dolore dei personaggi.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
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Storia [modifica]Nel 1523, per sfuggire a una pestilenza, l'artista si rifugiò con la famiglia a Luco di Mugello, grazie all'aiuto dell'amico Antonio Brancacci. Qui lavorò per il monastero femminile di San Pietro, dove la badessa, Caterina di Tedaldo della Casa, gli commissionò una grande pala col tema del Compianto. Nel disegnarla si ispirò abbastanza fedelmente a quella di una decina d'anni prima di Fra Bartolomeo, a sua volta derivata dal Compianto sul Cristo morto diPerugino: tutte e tre le tavole si trovano oggi alla Galleria Palatina. Avviata nell'autunno 1523, la pala dovette essere completa entro l'ottobre 1524, quando è registrato il pagamento di 80 fiorini all'artista. La data dietro l'altare, il 1527, indica probabilmente solo la collocazione della pala, tra festeggiamenti solenni.
Nel 1782 Pietro Leopoldo si offrì di acquistare il dipinto in cambio di per 2400 scudi e una copia fatta eseguire da Sante Pacini, che oggi si trova ancora in loco, nella cornice originale, che contiene pure la predella, della seconda metà del Cinquecento. Inizialmente destinata agli Uffizi, nel 1795 la Pietà di Andrea del Sarto fu scambiata con la Madonna delle Arpie. Trasferita a Parigi durante l'occupazione napoleonica (1799), è tornata a Firenze nel 1815.
Descrizione [modifica]Una roccia che declina da sinistra verso destra fa da sfondo al Compianto sul Cristo morto, o Pietà. Gesù dopo la crocifissione viene adagiato sul sudario e lapietra dell'unzione, prima di essere messo nel sepolcro che si intravede a sinistra, nel dolore generale: Giovanni apostolo gli tiene la schiena, la Madonna un braccio e Maria Maddalena, che ha i gomiti piegati e le mani intrecciate portate al viso, sta vicino ai suoi piedi e lo guarda attonita.
Partecipano alla scena tre santi: san Pietro, titolare del monastero, un santo maschile in rosso (forse Nicodemo o san Paolo) e una santa Caterina d'Alessandria, riconoscibile per la ruota spezzata, nelle cui fattezze si celerebbe un ritratto della badessa committente.
In alto a destra si apre un leggero paesaqggio di colline che sfumano in lontananza e una città turrita azzurina.
In questa prova Andrea del Sarto ammantò le figure di una nuova monumentalità, derivata dall'esempio michelangiolesco, e di colori brillanti alla Raffaello, colpiti però da una luce forte che crea inaspettati bagliori a cangiantismo, tipici della prima "maniera" di Pontormo e Rosso Fiorentino, i due più brillanti allievi del Sarto con cui insturarò un rapporto di confronto/sfida.
Sapiente è la composizione dei personaggi, con rimandi l'un l'altro lungo le due diagonali, che si intersecano dietro la figura di Cristo. Il pathos scaìturisce dall'atmosfera sospesa e le emozioni trattenute, piuttosto che su una vera e propria manifestazione di dolore dei personaggi.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Andrea del Sarto - Madonna in Gloria con quattro Santi
La Madonna in gloria con quattro santi è un dipinto a olio su tavola (205x309 cm) di Andrea del Sarto e collaboratori, databile al 1530 e conservato nellaGalleria Palatina di Firenze.L'opera era stata dipinta per la badia vallombrosana di Poppi dedicata a san Fedele di Como. Si tratta una delle ultime opere dipinte dall'artista, lasciata incompiuta alla sua morte e completata da Vincenzo Bonilli detto Morgante, il quale appose forse la data sulla ruota di santa Caterina, ritenuta apocrifa. Nel1531 è registrato un pagamento per l'opera alla vedova di Andrea del Sarto.
Ferdinando III di Lorena acquistò la tavola nel 1818, dopo un sopralluogo da parte di Antonio Ramirez di Montalvo e del restauratore Samperi. L'attribuzione dell'opera è stata discordante nella critica, riguardo alla percentuale di autografia di Andrea del Sartro, ma il restauro del 1986 ha confermato che il Bonilli dovette eseguire solo gli ultimi ritocchi.
Ne esistono numerosi studi preparatori.
Descrizione e stile [modifica]Nell'eseguire la tavola Andrea del Sarto attinse, come consuento negli ultimi anni, al proprio repertorio, ridisegnando schemi già usati in opere come l'Assunta Passerini o la Disputa sulla Trinità.
La metà inferiore è occupata da un gruppo di quattro santi legati ai vallombrosani di Poppi, in cui si riconoscono, da sinistra, san Bernardo degli Uberti, vestito da vescovo col saio e col cappello cardinalizio a terra, san Fedele di Como titolare della chiesa, con la spada e l'armatura, santa Caterina da Siena, con la ruota spezzata, e san Giovanni Gualberto, col bastone e il crocifisso. Essi sono disposti in primo piano, con una collocazione che forza il semplice allienamento, creando un insieme più vario, dove i due santi in ginocchio al centro sono ora arretrati ora avanzati, e riguardano verso lo spettatore coinvolgendolo. Il paesaggio roccioso di speroni dirupati ha un che di fantastico e ricorda forse le asperità del Casentino.
La metà superiore mostra la Madonna in gloria, seduta in una nube tra una corona luminosa e di angioletti.
La composizione appare così riccamente articolata, con inedite sottigliezze esecutive fatte di toni ora scintillanti ora traparenti. Gli accostamenti sono intonati su scelte inconsuete, ora smorzate, ora dissonanti, in analogia con le più avanzate ricerche di Pontormo e Rosso Fiorentino.
La caretterizzazione intensa dei santi anticipa le iconografie devozionali della seconda metà del secolo.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Ferdinando III di Lorena acquistò la tavola nel 1818, dopo un sopralluogo da parte di Antonio Ramirez di Montalvo e del restauratore Samperi. L'attribuzione dell'opera è stata discordante nella critica, riguardo alla percentuale di autografia di Andrea del Sartro, ma il restauro del 1986 ha confermato che il Bonilli dovette eseguire solo gli ultimi ritocchi.
Ne esistono numerosi studi preparatori.
Descrizione e stile [modifica]Nell'eseguire la tavola Andrea del Sarto attinse, come consuento negli ultimi anni, al proprio repertorio, ridisegnando schemi già usati in opere come l'Assunta Passerini o la Disputa sulla Trinità.
La metà inferiore è occupata da un gruppo di quattro santi legati ai vallombrosani di Poppi, in cui si riconoscono, da sinistra, san Bernardo degli Uberti, vestito da vescovo col saio e col cappello cardinalizio a terra, san Fedele di Como titolare della chiesa, con la spada e l'armatura, santa Caterina da Siena, con la ruota spezzata, e san Giovanni Gualberto, col bastone e il crocifisso. Essi sono disposti in primo piano, con una collocazione che forza il semplice allienamento, creando un insieme più vario, dove i due santi in ginocchio al centro sono ora arretrati ora avanzati, e riguardano verso lo spettatore coinvolgendolo. Il paesaggio roccioso di speroni dirupati ha un che di fantastico e ricorda forse le asperità del Casentino.
La metà superiore mostra la Madonna in gloria, seduta in una nube tra una corona luminosa e di angioletti.
La composizione appare così riccamente articolata, con inedite sottigliezze esecutive fatte di toni ora scintillanti ora traparenti. Gli accostamenti sono intonati su scelte inconsuete, ora smorzate, ora dissonanti, in analogia con le più avanzate ricerche di Pontormo e Rosso Fiorentino.
La caretterizzazione intensa dei santi anticipa le iconografie devozionali della seconda metà del secolo.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Andrea del Sarto - Pala di Gambassi
La Pala di Gambassi è un dipinto a olio su tavola (215x175 cm) di Andrea del Sarto, databile al 1528 circa.
L'opera, ricordata da Vasari, proviene dall'altare dei Santi Lorenzo e Onofrio nella pieve di Santa Maria Assunta a Chianni, retta da un gruppo di monache benedettine, presso Gambassi, dove era stata eseguita per un amico del pittore, Domenico di Mattio o di Maffio detto Beccuccio "bicchieraio" (cioè vetraio). Nella predella, poi dispersa, Andrea aveva inserita un ritratto dell'amico e di sua moglie, opere che oggi probabilmente sono quelle nell'Art Institute di Chicago.
Eseguita sicuramente dopo il ritorno da Luco del Mugello (1523) e in ringraziamento per la fine della pestilenza del1523-1524, è databile tra il 1525 e il 1528, e in seguito al restauro la critica si è stabilizzata su una datazione al 1528 circa.
Descrizione e stile.Si tratta di una sacra conversazione rispettosa della tradizione ma con alcune novità, che ne aggiornano garbatamente gli schemi, rielaborando motivi già trattati dall'artisti (come nella Disputa sulla Trinità nello stesso museo). La Madonna seduta su un invisibile trono di nubi, che sembra retto da cherubini, tiene il Bambino in piedi sulle ginocchia, che si protende verso lo spettatore con un gesto benedicente. Lo schema piramidale, della tradizione fiorentina, è sviluppato in profondità ed ha alla base due santi inginocchiati, a sinistra Giovanni Battista e a destra Maria Maddalena, il primo rivolto verso lo spettatore e la seconda verso Maria, in un'equilibrata complementarità di posa.
Ai lati stanno poi in piedi quattro santi, disposti simmetricamente: a sinistra Onofrio, che ricorda un uomo selvaggio, e Lorenzo, con la dalmatica e la graticola, i quali alludono all'intitolazione della chiesa e, riguardo a Lorenzo, protettore dei bicchierai; a destra Rocco, col bordone in secondo piano, e Sebastiano, con le frecce in mano, protettori dalle pestilenze. Il Battista ricorda invece la fedeltà a Firenze, di cui è protettore, e la Maddalena era invece una santa a cui le monache erano solitamente devote.
Lo sfondo è fumoso, con un'apertura luminosa al centro, dietro la Vergine. In generale i colori sono smorzati e accordati a tonalità insolite e disarmoniche, tramite le quali l'artista esprimeva le inquietudini di rinnovamento della sua epoca. Perfetta è la definizione anatomica dei santi, con le vive carni di Onofrio, di Sebastiano o della schiena del Battista, ma anche, ad esempio, nel perfetto scorcio delle gambe della Vergine. I panneggi sono illuminati da una luce forte, che crea riflessi cangiati ed evidenzia la pieghettatura "accartocciata", derivata dall'esempio delle stampe di Dürer, allora assai popolari anche a Firenze.
L'opera, ricordata da Vasari, proviene dall'altare dei Santi Lorenzo e Onofrio nella pieve di Santa Maria Assunta a Chianni, retta da un gruppo di monache benedettine, presso Gambassi, dove era stata eseguita per un amico del pittore, Domenico di Mattio o di Maffio detto Beccuccio "bicchieraio" (cioè vetraio). Nella predella, poi dispersa, Andrea aveva inserita un ritratto dell'amico e di sua moglie, opere che oggi probabilmente sono quelle nell'Art Institute di Chicago.
Eseguita sicuramente dopo il ritorno da Luco del Mugello (1523) e in ringraziamento per la fine della pestilenza del1523-1524, è databile tra il 1525 e il 1528, e in seguito al restauro la critica si è stabilizzata su una datazione al 1528 circa.
Descrizione e stile.Si tratta di una sacra conversazione rispettosa della tradizione ma con alcune novità, che ne aggiornano garbatamente gli schemi, rielaborando motivi già trattati dall'artisti (come nella Disputa sulla Trinità nello stesso museo). La Madonna seduta su un invisibile trono di nubi, che sembra retto da cherubini, tiene il Bambino in piedi sulle ginocchia, che si protende verso lo spettatore con un gesto benedicente. Lo schema piramidale, della tradizione fiorentina, è sviluppato in profondità ed ha alla base due santi inginocchiati, a sinistra Giovanni Battista e a destra Maria Maddalena, il primo rivolto verso lo spettatore e la seconda verso Maria, in un'equilibrata complementarità di posa.
Ai lati stanno poi in piedi quattro santi, disposti simmetricamente: a sinistra Onofrio, che ricorda un uomo selvaggio, e Lorenzo, con la dalmatica e la graticola, i quali alludono all'intitolazione della chiesa e, riguardo a Lorenzo, protettore dei bicchierai; a destra Rocco, col bordone in secondo piano, e Sebastiano, con le frecce in mano, protettori dalle pestilenze. Il Battista ricorda invece la fedeltà a Firenze, di cui è protettore, e la Maddalena era invece una santa a cui le monache erano solitamente devote.
Lo sfondo è fumoso, con un'apertura luminosa al centro, dietro la Vergine. In generale i colori sono smorzati e accordati a tonalità insolite e disarmoniche, tramite le quali l'artista esprimeva le inquietudini di rinnovamento della sua epoca. Perfetta è la definizione anatomica dei santi, con le vive carni di Onofrio, di Sebastiano o della schiena del Battista, ma anche, ad esempio, nel perfetto scorcio delle gambe della Vergine. I panneggi sono illuminati da una luce forte, che crea riflessi cangiati ed evidenzia la pieghettatura "accartocciata", derivata dall'esempio delle stampe di Dürer, allora assai popolari anche a Firenze.
Andrea del Sarto - Assunta Panciatichi
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L'Assunta Panciatichi è un dipinto a olio su tavola (362x209 cm) di Andrea del Sarto, databile al 1522-1523 circa e conservato nella Galleria Palatina di Firenze.
Storia [modifica]L'opera venne commissionata da Bartolomeo Panciatichi ("il Vecchio") per un proprio altare nella chiesa di Notre-Dame-du-Confort a Lione, ma una volta completata non partì per la Francia: secondo Vasari un difetto nelle assi che componevano la tavola, sebbene assemblata dall'esperto Baccio d'Agnolo ne interruppe l'esecuzione, ma è più probabile che il cambiamento d'idea fosse dovuto al peggioramento dei rapporti con l'Oltralpe nel 1525-1529.
Venne dunque acquistata dal figlio del committente, quel Bartolomeo "il Giovane" che commissionò poi a Bronzino un suo famoso ritratto e di sua moglie Lucrezia. Nel 1526 Andrea del Sarto ripeté la composizione, per l'Assunta Passerini, che oggi si trova nello stesso museo.
Il Panciatichi regalò la tavola in suo possesso a Jacopo Salviati che lo destinò alla propria Villa di Poggio Imperiale (all'epoca "Villa di Poggio Baroncelli"); il Salviati ebbe poi tutte le sue proprietà confiscate da Cosimo I de' Medici nel 1548, per la sua lotta politica, e nel 1565 il duca fece dono della villa e di tutto quello che conteneva al genero Paolo Giordano Orsini, marito di sua figlia Isabella d'Este. Dopo alcuni passaggi di proprietà, tra cui la famiglia Odescalchi, la villa tornò ai Medici nel 1602 e vi si stabilì Maria Maddalena d'Austria, moglie di Cosimo II. Dal 1687 si decise quindi di trasferire la celebre Assunta, oggetto continuo di attenzioni e lodi, tra gli altri anche del giovane Rubens, a palazzo Pitti, dove entrò nelle collezioni del gran principe Ferdinando.
In quell'epoca la tavola venne ingrandita (se ne vedono i segni lungo il bordo superiore della centinatura), per fare pendant con l'Assunta Passerini, nel frattempo pure trasportata a palazzo, dotandole di due cornici uguali. Tale accoppiata è stata mantenuta nell'allestimento ottocentesco della galleria e anche oggi è apprezzabile nella Sala dell'Iliade.
Un errore di Vasari ha a lungo fatto ritenete questa versione la più antica, ma analisi sugli studi preparatori hanno confermato come questa versione sia la più antica, databile non più tardi del 1525, come poi ha accettato e confermato tutta la critica successiva.
Descrizione e stile [modifica]L'opera rinnovò il tema dell'Assunzione della Vergine, con forme più monumentali e un migliore legamento tra metà inferiore, terrestre, e quella superiore, celeste. In basso si vedono infatti gli apostoli che, assiepati attorno al sepolcro vuoto di Maria, ne guardano sorpresi l'ascesa, in alto, su una nube circondata da putti festosi. L'artista collocò due apostoli inginocchiati l centro, riprendendo il tradizionale schema piramidale delle sacre conversazioni, unita a una disposizione a semicerchio degli apostoli già usata, ad esempio, da Raffaello nella Pala degli Oddi. La presenza della grotta del sepolcro a destra però, inusuale in questo soggetto, crea una quinta che guida lo sguardo dello spettatore verso la metà superiore, che appare così meno slegata e lontana. L'attenzione di chi osserva è così in primo luogo attratta dallo sguardo dell'apostolo girato a sinistra e poi dalla macchia rossa del mantello di quello in piedi al centro, per poi essere direzionato, da gesti e sguardi che creano linee di forza, in alto.
I colori sono forti e volutamente stridenti, con effetti ora cangianti, ora smorti, in alcuni punti accesi di riflessi quasi cromati, come nel Tondo Doni di Michelangelo, in altri dolcemente modulati dallo sfumatoleonardesco, declinato nell'accezione "sartesca", cioè denso di colore.
Maria ha lo sguardo rivolto verso l'alto, verso i bagliori che simboleggiano la luce divina, ed è plasticamente disposta tridimensionalmente, con gambe e braccia liberamente scorciate quasi a sondare lo spazio attorno. Un angioletto lungo l'asse centrale si protende virtuosisticamente verso lo spettatore, indicando agli apostoli la meta dell'ascesa di Maria, mentre ai lati della Vergine si trovano due gruppi simmetrici di giovani angeli tra cui due reggi-tabella alle estremità, dove forse dovevano essere collocate la firma dell'artista e il ricordo del committente e dell'anno di realizzazione, secondo una pratica frequente per opere che venivano inviate altrove, dove la mancata presenza dell'artista non poteva garantire l'"autenticità". Tra questi due putti soprattutto quello di destra mostra un evidente debito con le fisionomie infantili di Pontormo, l'altro artista di spicco nella Firenze dell'epoca.
La forte caratterizzazione delle fisionomie è tipica dell'artista e in anticipo sugli sviluppi dell'arte del XVI secolo. Ciò fa a volte supporre che nei vari personaggi sacri si trovino dei ritratti nascosti: ad esempio l'apostolo inginocchiato che si rivolge verso lo spettatore è stato letto come un possibile autoritratto del pittore.Par
L'Assunta Panciatichi è un dipinto a olio su tavola (362x209 cm) di Andrea del Sarto, databile al 1522-1523 circa e conservato nella Galleria Palatina di Firenze.
Storia [modifica]L'opera venne commissionata da Bartolomeo Panciatichi ("il Vecchio") per un proprio altare nella chiesa di Notre-Dame-du-Confort a Lione, ma una volta completata non partì per la Francia: secondo Vasari un difetto nelle assi che componevano la tavola, sebbene assemblata dall'esperto Baccio d'Agnolo ne interruppe l'esecuzione, ma è più probabile che il cambiamento d'idea fosse dovuto al peggioramento dei rapporti con l'Oltralpe nel 1525-1529.
Venne dunque acquistata dal figlio del committente, quel Bartolomeo "il Giovane" che commissionò poi a Bronzino un suo famoso ritratto e di sua moglie Lucrezia. Nel 1526 Andrea del Sarto ripeté la composizione, per l'Assunta Passerini, che oggi si trova nello stesso museo.
Il Panciatichi regalò la tavola in suo possesso a Jacopo Salviati che lo destinò alla propria Villa di Poggio Imperiale (all'epoca "Villa di Poggio Baroncelli"); il Salviati ebbe poi tutte le sue proprietà confiscate da Cosimo I de' Medici nel 1548, per la sua lotta politica, e nel 1565 il duca fece dono della villa e di tutto quello che conteneva al genero Paolo Giordano Orsini, marito di sua figlia Isabella d'Este. Dopo alcuni passaggi di proprietà, tra cui la famiglia Odescalchi, la villa tornò ai Medici nel 1602 e vi si stabilì Maria Maddalena d'Austria, moglie di Cosimo II. Dal 1687 si decise quindi di trasferire la celebre Assunta, oggetto continuo di attenzioni e lodi, tra gli altri anche del giovane Rubens, a palazzo Pitti, dove entrò nelle collezioni del gran principe Ferdinando.
In quell'epoca la tavola venne ingrandita (se ne vedono i segni lungo il bordo superiore della centinatura), per fare pendant con l'Assunta Passerini, nel frattempo pure trasportata a palazzo, dotandole di due cornici uguali. Tale accoppiata è stata mantenuta nell'allestimento ottocentesco della galleria e anche oggi è apprezzabile nella Sala dell'Iliade.
Un errore di Vasari ha a lungo fatto ritenete questa versione la più antica, ma analisi sugli studi preparatori hanno confermato come questa versione sia la più antica, databile non più tardi del 1525, come poi ha accettato e confermato tutta la critica successiva.
Descrizione e stile [modifica]L'opera rinnovò il tema dell'Assunzione della Vergine, con forme più monumentali e un migliore legamento tra metà inferiore, terrestre, e quella superiore, celeste. In basso si vedono infatti gli apostoli che, assiepati attorno al sepolcro vuoto di Maria, ne guardano sorpresi l'ascesa, in alto, su una nube circondata da putti festosi. L'artista collocò due apostoli inginocchiati l centro, riprendendo il tradizionale schema piramidale delle sacre conversazioni, unita a una disposizione a semicerchio degli apostoli già usata, ad esempio, da Raffaello nella Pala degli Oddi. La presenza della grotta del sepolcro a destra però, inusuale in questo soggetto, crea una quinta che guida lo sguardo dello spettatore verso la metà superiore, che appare così meno slegata e lontana. L'attenzione di chi osserva è così in primo luogo attratta dallo sguardo dell'apostolo girato a sinistra e poi dalla macchia rossa del mantello di quello in piedi al centro, per poi essere direzionato, da gesti e sguardi che creano linee di forza, in alto.
I colori sono forti e volutamente stridenti, con effetti ora cangianti, ora smorti, in alcuni punti accesi di riflessi quasi cromati, come nel Tondo Doni di Michelangelo, in altri dolcemente modulati dallo sfumatoleonardesco, declinato nell'accezione "sartesca", cioè denso di colore.
Maria ha lo sguardo rivolto verso l'alto, verso i bagliori che simboleggiano la luce divina, ed è plasticamente disposta tridimensionalmente, con gambe e braccia liberamente scorciate quasi a sondare lo spazio attorno. Un angioletto lungo l'asse centrale si protende virtuosisticamente verso lo spettatore, indicando agli apostoli la meta dell'ascesa di Maria, mentre ai lati della Vergine si trovano due gruppi simmetrici di giovani angeli tra cui due reggi-tabella alle estremità, dove forse dovevano essere collocate la firma dell'artista e il ricordo del committente e dell'anno di realizzazione, secondo una pratica frequente per opere che venivano inviate altrove, dove la mancata presenza dell'artista non poteva garantire l'"autenticità". Tra questi due putti soprattutto quello di destra mostra un evidente debito con le fisionomie infantili di Pontormo, l'altro artista di spicco nella Firenze dell'epoca.
La forte caratterizzazione delle fisionomie è tipica dell'artista e in anticipo sugli sviluppi dell'arte del XVI secolo. Ciò fa a volte supporre che nei vari personaggi sacri si trovino dei ritratti nascosti: ad esempio l'apostolo inginocchiato che si rivolge verso lo spettatore è stato letto come un possibile autoritratto del pittore.Par
ANdrea del Sarto
L'Assunta Passerini è un dipinto a olio su tavola (362x209 cm) di Andrea del Sarto, databile al 1526 .
Storia [modifica]L'opera venne commissionata da Margherita Passerini per il proprio altare nella chiesa di Santa Maria fuori le mura di Cortona, con un contratto datato 1526 e riportante un prezzo pattuito di 155 fiorini. Nel 1553 i frati si trasferirono coi loro beni nella chiesa di Sant'Antonio dei Servi.
Nel 1639 la pala fu acquistata da granduca Ferdinando II de' Medici e offerta una copia per la chiesa, che oggi si trova nel Museo diocesano di Cortona.
Nel dipingere la pala Andrea del Sarto copiò il modello della sua Assunta Panciatichi che, come hanno chiarito studi recenti, fu il prototipo e non viceversa: se per la versione Passerini esistono solo scarsi disegni preparatori è chiaro che l'artista riutilizzò quelli del primo lavoro, la versione Panciatichi, ipotesi confermata anche dalle analisi riflettografiche. Quando il gran principe Ferdinando de' Medici si procurò anche questa seconda opera, le due tavole formarono da allora un pendant sempre mantenuto negli allestimenti della galleria e sottolineato dalle cornici uguali e dalle medesime dimensioni, ottenute allungando l'arco dell'Assunta Panciatichi di pochi decimetri.
Descrizione e stile [modifica]Rispetto alla prima versione furono poche le varianti, legate soprattutto a un diverso sfondo, scuro anziché paesistico, alla diversa posizione di Maria e degli angeli attorno a lei, alla sostituzione dell'apostolo inginocchiato a destra con la beata Margherita da Cortona (beatificata da Leone X nel 1515) e protettrice della committente; l'apostolo a sinistra venne invece trasformato in un san Nicola, patrono del padre o del figlio morto della committente.
La figura di Maria, protesa verso lo spettatore e in atteggiamento di preghiera, mostra una migliore padronanza dei virtuosismi visivi, con la proiezione della nuvola retta dagli angeli in avanti, anziché in alto come di consueto. A quell'epoca il pittore era già sposato, per cui, come ricorda Vasari, sua moglie si prestò spesso da modella, infatti il suo ritratto appare nel volto di Maria.
Più forti sono i contrasti di colori, coi panneggi che si accendono di tonalità forti e cangianti, e una pieghettatura di sapore nordico, derivata dall'esempio delle stampe di Dürer. Maggiormente complessa è inoltre la componente luminosa: al posto dei mezzi toni dello sfumato l'artista fece qui risplendere una luce incidente sul cerchio dei santi, ponendoli sullo sfondo di una parete rocciosa appena visibile, che si chiude nel buio. Unendo chiarezza e penombra, sostanza e scioglimento, realtà e visione, vengono così suggerite alcune linee che saranno sviluppate dal barocco italiano nel XVII secolo
Storia [modifica]L'opera venne commissionata da Margherita Passerini per il proprio altare nella chiesa di Santa Maria fuori le mura di Cortona, con un contratto datato 1526 e riportante un prezzo pattuito di 155 fiorini. Nel 1553 i frati si trasferirono coi loro beni nella chiesa di Sant'Antonio dei Servi.
Nel 1639 la pala fu acquistata da granduca Ferdinando II de' Medici e offerta una copia per la chiesa, che oggi si trova nel Museo diocesano di Cortona.
Nel dipingere la pala Andrea del Sarto copiò il modello della sua Assunta Panciatichi che, come hanno chiarito studi recenti, fu il prototipo e non viceversa: se per la versione Passerini esistono solo scarsi disegni preparatori è chiaro che l'artista riutilizzò quelli del primo lavoro, la versione Panciatichi, ipotesi confermata anche dalle analisi riflettografiche. Quando il gran principe Ferdinando de' Medici si procurò anche questa seconda opera, le due tavole formarono da allora un pendant sempre mantenuto negli allestimenti della galleria e sottolineato dalle cornici uguali e dalle medesime dimensioni, ottenute allungando l'arco dell'Assunta Panciatichi di pochi decimetri.
Descrizione e stile [modifica]Rispetto alla prima versione furono poche le varianti, legate soprattutto a un diverso sfondo, scuro anziché paesistico, alla diversa posizione di Maria e degli angeli attorno a lei, alla sostituzione dell'apostolo inginocchiato a destra con la beata Margherita da Cortona (beatificata da Leone X nel 1515) e protettrice della committente; l'apostolo a sinistra venne invece trasformato in un san Nicola, patrono del padre o del figlio morto della committente.
La figura di Maria, protesa verso lo spettatore e in atteggiamento di preghiera, mostra una migliore padronanza dei virtuosismi visivi, con la proiezione della nuvola retta dagli angeli in avanti, anziché in alto come di consueto. A quell'epoca il pittore era già sposato, per cui, come ricorda Vasari, sua moglie si prestò spesso da modella, infatti il suo ritratto appare nel volto di Maria.
Più forti sono i contrasti di colori, coi panneggi che si accendono di tonalità forti e cangianti, e una pieghettatura di sapore nordico, derivata dall'esempio delle stampe di Dürer. Maggiormente complessa è inoltre la componente luminosa: al posto dei mezzi toni dello sfumato l'artista fece qui risplendere una luce incidente sul cerchio dei santi, ponendoli sullo sfondo di una parete rocciosa appena visibile, che si chiude nel buio. Unendo chiarezza e penombra, sostanza e scioglimento, realtà e visione, vengono così suggerite alcune linee che saranno sviluppate dal barocco italiano nel XVII secolo
Andrea del Sarto - Annunciazione della Scala.
L'Annunciazione Della Scala è un dipinto a olio su tavola (96x189 cm) di Andrea del Sarto, databile al 1528 circa e conservato nellaGalleria Palatina di Firenze.
Storia [modifica]Vasari ricorda come questa Annunciazione venne dipinta come cimasa per la pala della chiesa di San Domenico a Sarzana, ma che non giunse mai a destinazione, rimanendo presso Giuliano Della Scala per un periodo imprecisato. In tale circostranza lo stesso artista modificò il formato, concepito originariamente come lunetta, in rettangolare, dipingendo le due tende laterali (Cecchi, 1980, però ritenne tale aggiunta più tarda, legata magari a un intervento di Jacopo Zucchi a Roma nel 1584).
La separazione dal contesto originario fu alla fine un vantaggio poiché la pala di Sarzana, dopo varie vicissitudini, finì a Berlino e lì venne distrutta nel 1945 durante l'incendio della Flakturm Friedrichshain.
Quando il Ferdinando I de' Medici, allora ancora cardinale, si interessò alla pala, la richiese ai della Scala, fornendo una copia di Alessandro Allori (1580 circa). Seguito il corso delle collezoni medicee, venne infine destinata a palazzo Pitti.
Descrizione e stile [modifica]Il letto di Maria, scorciato per una visione dal basso, fa da sfondo a questa toccante interpretazione del tema dell'Annunciazione, tutto legato al muto dialogo tra i due protagonisti. L'Angelo, a sinistra, che inginocchiato benedice Maria fissandola, e quest'ultima che soprpresa apre le mani e abbassa lo sguardo in segno di umile accettazione. Pochi sono i riferimenti tradizionali, quali il giglio, retto in basso dall'angelo, un vaso di fiori bianchi, ricordo dell'hortus conclusus, un libro e il letto, appunto, il tutto riferibile alla purezza virginale di Maria e all'avverarsi delle Scritture.
Le figure mostrano una forte plasticità, inondate dalla luce che ne sbalza le forme e accende nei colori riflessi cangianti. La tavolozza è ricca, intonata sulle note vivaci degli abiti (giallo, rosa, blu violaceo intenso) e sugli incarnati ora chiari ora chiazzati di sfumature brune.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Storia [modifica]Vasari ricorda come questa Annunciazione venne dipinta come cimasa per la pala della chiesa di San Domenico a Sarzana, ma che non giunse mai a destinazione, rimanendo presso Giuliano Della Scala per un periodo imprecisato. In tale circostranza lo stesso artista modificò il formato, concepito originariamente come lunetta, in rettangolare, dipingendo le due tende laterali (Cecchi, 1980, però ritenne tale aggiunta più tarda, legata magari a un intervento di Jacopo Zucchi a Roma nel 1584).
La separazione dal contesto originario fu alla fine un vantaggio poiché la pala di Sarzana, dopo varie vicissitudini, finì a Berlino e lì venne distrutta nel 1945 durante l'incendio della Flakturm Friedrichshain.
Quando il Ferdinando I de' Medici, allora ancora cardinale, si interessò alla pala, la richiese ai della Scala, fornendo una copia di Alessandro Allori (1580 circa). Seguito il corso delle collezoni medicee, venne infine destinata a palazzo Pitti.
Descrizione e stile [modifica]Il letto di Maria, scorciato per una visione dal basso, fa da sfondo a questa toccante interpretazione del tema dell'Annunciazione, tutto legato al muto dialogo tra i due protagonisti. L'Angelo, a sinistra, che inginocchiato benedice Maria fissandola, e quest'ultima che soprpresa apre le mani e abbassa lo sguardo in segno di umile accettazione. Pochi sono i riferimenti tradizionali, quali il giglio, retto in basso dall'angelo, un vaso di fiori bianchi, ricordo dell'hortus conclusus, un libro e il letto, appunto, il tutto riferibile alla purezza virginale di Maria e all'avverarsi delle Scritture.
Le figure mostrano una forte plasticità, inondate dalla luce che ne sbalza le forme e accende nei colori riflessi cangianti. La tavolozza è ricca, intonata sulle note vivaci degli abiti (giallo, rosa, blu violaceo intenso) e sugli incarnati ora chiari ora chiazzati di sfumature brune.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Andrea del Sarto - Disputa sulla Trinità
La Disputa sulla Trinità è un dipinto a olio su tavola (215x175 cm) di Andrea del Sarto, databile al 1528 circa e conservato nella Galleria Palatina di Firenze.
Storia [modifica]La tavola era stata dipinta per la chiesa di San Gallo, retta dagli Agostiniani, ed era la terza che l'artista produceva per quella chiesa, dopo l'Annunciazione e il Noli me tangere. Prima dell'assedio di Firenze, nel 1529, tutti i beni del monastero vennero trasferiti in San Jacopo tra' Fossi, che venne di lì a poco distrutto. Alcuni storici hanno rilevato la presenza di santi legati ai nomi della famiglia Peri, che forse ne fu la committente.
Non è datata (la scritta su gradino è apocrifa), ma Vasari ricorda come venne eseguita dopo la Madonna delle Arpie, che è del 1517, ipotesi in genere accettata anche per i confronti stilistici.
Bocchi, scrivendone una descrizione piena d'ammirazione, riportò come la tavola avesse subito danni dall'alluvione del 1557, ma durante il restauro del 1985non ne venne trovata traccia.
È ricordata negli inventari del palazzo dal XVII secolo, con vari passaggi, compreso uno agli Uffizi dal 1697 al 1716 circa, prima di trovare la sua collocazione definitiva nella Sala di Saturno nel 1829.
Descrizione e stile [modifica]Un cielo ceruleo fa da sfondo all'apparizione della Trinità, davanti a una nube plumbea, con Dio Padre, vestito di una sgargiante veste rossa, che rende impossibile trascurarlo, e regge il Cristo in croce.
In basso, in primo piano, la scena è dominata dal consesso di sei santi, quattro in piedi in semicerchio e due inginocchiati davanti ai due lati, coi busti ruotati in maniera complementare, che ricordano le composizioni piramidali della tradizione fiorentina. In basso si vedono san Sebastiano (con le frecce) e Maria Maddalena (con l'ampolla degli unguenti), in piedi da sinistra sant'Agostino (con il bastone pastorale), san Lorenzo (con la graticola), san Pietro martire (col taglio sulla testa, l'abito domenicano e il libro) e san Francesco d'Assisi (col saio e le stimmate sulle mani).
Essi stanno conversando animatamente, libri alla mano, su questioni religiose che, in base all'apparizione in cielo, devono riguardare il dogma della Trinità. Il tema della disputa era allora assai in voga nell'Italia centrale, in tempi di vivo dibattito spirituale, basti pensare alla Disputa del Sacramento dipinta nel 1508 da Raffaello nelle Stanze Vaticane, o l'Estasi di santa Cecilia (1514), dello stesso autore.
Il tema trinitario era particolarmente caro agli Agostiniani, infatti il loro santo fondatore ha una posizione preminente nel dibattito, col il braccio destro disteso in un gesto eloquente. Lorenzo, al centro, ha il ruolo di richiamare l'attenzione dello spettatore, indirizzandogli uno sguardo diretto.
In generale i colori sono smorzati e accordati a tonalità insolite e disarmoniche, tramite le quali l'artista esprimeva le inquietudini di rinnovamento della sua epoca. La luce è forte e produce ombre scure alternate a zone di candidi bagliori, soprattutto nei panneggi dei santi in primo piano, quelli più esposti alla fonte dell'illuminazione, composti con pieghe profonde e "accartocciate" per Sebastiano e con effetti cangianti per Maddalena.
A proposito di Maddalena, Vasari scrisse che: «fecevi ginocchioni due figure, una è Maria Magdalena con bellissimi panni, ritratta la moglie; perciò ch'egli non faceva aria di femmine in nessun luogo, che da lei non la ritraessi, e se pur avveniva che d'altri la togliessi, per l'uso del continuo vederla e dal tanto averla designata le dava quell'aria, non possendo far altro».
Storia [modifica]La tavola era stata dipinta per la chiesa di San Gallo, retta dagli Agostiniani, ed era la terza che l'artista produceva per quella chiesa, dopo l'Annunciazione e il Noli me tangere. Prima dell'assedio di Firenze, nel 1529, tutti i beni del monastero vennero trasferiti in San Jacopo tra' Fossi, che venne di lì a poco distrutto. Alcuni storici hanno rilevato la presenza di santi legati ai nomi della famiglia Peri, che forse ne fu la committente.
Non è datata (la scritta su gradino è apocrifa), ma Vasari ricorda come venne eseguita dopo la Madonna delle Arpie, che è del 1517, ipotesi in genere accettata anche per i confronti stilistici.
Bocchi, scrivendone una descrizione piena d'ammirazione, riportò come la tavola avesse subito danni dall'alluvione del 1557, ma durante il restauro del 1985non ne venne trovata traccia.
È ricordata negli inventari del palazzo dal XVII secolo, con vari passaggi, compreso uno agli Uffizi dal 1697 al 1716 circa, prima di trovare la sua collocazione definitiva nella Sala di Saturno nel 1829.
Descrizione e stile [modifica]Un cielo ceruleo fa da sfondo all'apparizione della Trinità, davanti a una nube plumbea, con Dio Padre, vestito di una sgargiante veste rossa, che rende impossibile trascurarlo, e regge il Cristo in croce.
In basso, in primo piano, la scena è dominata dal consesso di sei santi, quattro in piedi in semicerchio e due inginocchiati davanti ai due lati, coi busti ruotati in maniera complementare, che ricordano le composizioni piramidali della tradizione fiorentina. In basso si vedono san Sebastiano (con le frecce) e Maria Maddalena (con l'ampolla degli unguenti), in piedi da sinistra sant'Agostino (con il bastone pastorale), san Lorenzo (con la graticola), san Pietro martire (col taglio sulla testa, l'abito domenicano e il libro) e san Francesco d'Assisi (col saio e le stimmate sulle mani).
Essi stanno conversando animatamente, libri alla mano, su questioni religiose che, in base all'apparizione in cielo, devono riguardare il dogma della Trinità. Il tema della disputa era allora assai in voga nell'Italia centrale, in tempi di vivo dibattito spirituale, basti pensare alla Disputa del Sacramento dipinta nel 1508 da Raffaello nelle Stanze Vaticane, o l'Estasi di santa Cecilia (1514), dello stesso autore.
Il tema trinitario era particolarmente caro agli Agostiniani, infatti il loro santo fondatore ha una posizione preminente nel dibattito, col il braccio destro disteso in un gesto eloquente. Lorenzo, al centro, ha il ruolo di richiamare l'attenzione dello spettatore, indirizzandogli uno sguardo diretto.
In generale i colori sono smorzati e accordati a tonalità insolite e disarmoniche, tramite le quali l'artista esprimeva le inquietudini di rinnovamento della sua epoca. La luce è forte e produce ombre scure alternate a zone di candidi bagliori, soprattutto nei panneggi dei santi in primo piano, quelli più esposti alla fonte dell'illuminazione, composti con pieghe profonde e "accartocciate" per Sebastiano e con effetti cangianti per Maddalena.
A proposito di Maddalena, Vasari scrisse che: «fecevi ginocchioni due figure, una è Maria Magdalena con bellissimi panni, ritratta la moglie; perciò ch'egli non faceva aria di femmine in nessun luogo, che da lei non la ritraessi, e se pur avveniva che d'altri la togliessi, per l'uso del continuo vederla e dal tanto averla designata le dava quell'aria, non possendo far altro».
Andrea del Sarto- San Giovannino
San Giovannino è un dipinto a olio su tavola (94x68 cm) di Andrea del Sarto, databile al 1523
Storia [
modifica]Vasari citò due opere di Andrea del Sarto raffiguranti san Giovannino a mezza figura. La prima dipinta per Giovan Maria Benintendi, che poi la donò a Cosimo I, è quella nel museo fiorentino; la seconda destinata al Gran Maestro di Francia, ma in seguito venduta a Ottaviano de' Medici, è forse il lavoro giovanile oggi alWorcester Art Museum.
Il San Giovannino della Palatina è infatti ricordato, col nome del donatore, nella Guardaroba Medicea nel 1553. Citata negli inventari medicei dal 1589, è esposta nella Sala di Giove della galleria almeno dal 1828.
La scelta del soggetto doveva essere legata al suo ruolo centrale nel tema del Battesimo di Cristo, che ispirava la decorazione dell'anticamera del Benintendi, assieme a una Betsabea al bagno del Franciabigio (Dresda, Gemäldegalerie), la "Leggenda del figlio del re morto" del Bachiacca (ibidem), il Battesimo di Cristodel Bachiacca (Berlino, Gemäldegalerie).
Descrizione e stile [modifica]Su uno sfondo scuro il Battista si staglia a mezza figura come un adolescente in posa eroica, modellato sull'esempio delle sculture classiche. Il volto, caratterizzato come un ritratto, invia un intenso sguardo verso un punto a sinistra, bloccando l'attimo come nel David di Michelangelo, e segnando un'incredibile anticipazione sulle figurazioni di Caravaggio. La mascella è squadrata e robusta, le labbra carnose, il naso dritto, gli occhi espressivi, i capelli capricciosamente irsuti.
Il santo ha la pelle di cammello del suo eremitaggio legata in spalla, che ricade all'altezza della vita lasciando scoperto il petto e le braccia. In mano regge la bacinella con cui impartiva il battesimo e un cartiglio arrotolato (allusione al suo tipico messaggio "Ecce Agnus Dei"), mentre la semplice croce fatta di canne legate è appoggiata in primo piano, in basso a destra. Un drappo rosso ravviva intensamente la cromia.
Notevole appare la fusione tra la plasticità scultorea michelangiolesca, lo sfumato leonardesco e la grazie classica derivata dalla lezione di Raffaello.
Storia [
modifica]Vasari citò due opere di Andrea del Sarto raffiguranti san Giovannino a mezza figura. La prima dipinta per Giovan Maria Benintendi, che poi la donò a Cosimo I, è quella nel museo fiorentino; la seconda destinata al Gran Maestro di Francia, ma in seguito venduta a Ottaviano de' Medici, è forse il lavoro giovanile oggi alWorcester Art Museum.
Il San Giovannino della Palatina è infatti ricordato, col nome del donatore, nella Guardaroba Medicea nel 1553. Citata negli inventari medicei dal 1589, è esposta nella Sala di Giove della galleria almeno dal 1828.
La scelta del soggetto doveva essere legata al suo ruolo centrale nel tema del Battesimo di Cristo, che ispirava la decorazione dell'anticamera del Benintendi, assieme a una Betsabea al bagno del Franciabigio (Dresda, Gemäldegalerie), la "Leggenda del figlio del re morto" del Bachiacca (ibidem), il Battesimo di Cristodel Bachiacca (Berlino, Gemäldegalerie).
Descrizione e stile [modifica]Su uno sfondo scuro il Battista si staglia a mezza figura come un adolescente in posa eroica, modellato sull'esempio delle sculture classiche. Il volto, caratterizzato come un ritratto, invia un intenso sguardo verso un punto a sinistra, bloccando l'attimo come nel David di Michelangelo, e segnando un'incredibile anticipazione sulle figurazioni di Caravaggio. La mascella è squadrata e robusta, le labbra carnose, il naso dritto, gli occhi espressivi, i capelli capricciosamente irsuti.
Il santo ha la pelle di cammello del suo eremitaggio legata in spalla, che ricade all'altezza della vita lasciando scoperto il petto e le braccia. In mano regge la bacinella con cui impartiva il battesimo e un cartiglio arrotolato (allusione al suo tipico messaggio "Ecce Agnus Dei"), mentre la semplice croce fatta di canne legate è appoggiata in primo piano, in basso a destra. Un drappo rosso ravviva intensamente la cromia.
Notevole appare la fusione tra la plasticità scultorea michelangiolesca, lo sfumato leonardesco e la grazie classica derivata dalla lezione di Raffaello.
Andrea del Sarto - Annunciazione di San Gallo
L'Annunciazione di San Gallo è un dipinto a olio su tavola (185x174,5 cm) di Andrea del Sarto, databile al 1513-1514 circa.
IStoria [modifica]L'opera fu la seconda eseguita da Andrea del Sarto per la chiesa di San Gallo a Firenze da Andrea del Sarto, come ricordano l'Anonimo Magliabechiano e il Vasari: dopo il Noli me tangere e prima della Disputa sulla Trinità.
Con l'assedio di Firenze le opere del monastero, retto dagli Agostiniani, vennero trasferite entro le mura, per la precisione in San Jacopo tra i Fossi, infatti nel 1531 esso fu raso al suolo dalle truppe di Carlo V. Nella nuova sede vennero ricostruite tutte le capelle come erano nell'altra.
Nel 1557 venne sommersa circa un terzo durante l’alluvione, andando perduta la predella. Non è chiaro se essa fosse quella divisa oggi tra la National Gallery of Ireland e il Warwick Castle (ipotesi respinta da Padovani nel 1986). Vasari dopotutto riporta che ne avesse una dipinta da Pontormo e Rosso Fiorentino.
Descrizione e stile [modifica]La secna si svolge all'aperto, sullo sfondo di un edificio in prosettiva, con Maria a sinistra in piedi che, sorpresa dall'annuncio durante la lettura, si volta dinamicamente verso l'angelo, inginocchiato a destra e proteso veso di lei, nonché seguito, fatto assai raro, da altri due colleghi che sorridono e indicano la scena. Vicino a Maria si trova un leggio, dove alcune rose, bianche e rosa, ricordano la purezza di Maria e il futuro sacrificio di Cristo, oltre che la firma del pittore. Sopra gli angeli la colomba dello Spirito Santo sta planando dal cielo, non in profilo come al solito ma ruotata di tre quarti verso lo spettatore, in modo da sfruttare tutte la profondità spaziale della pala.
Lo sfondo presenta una scena di incerta interpretazione. Su un alto zoccolo si trova un edificio classico, dorato di una terrazza retta da archi dove tre personaggi stanno indicando una figura seminuda alla base dell'edificio, sui gradini d'accesso. La Petrioli Tofani nel 1985 parlò di una rappresentazione di Susanna e i vecchioni, anche se la figura in basso sembra più maschile che femminile; Conti nel 1968 come David e Betsabea; Natali nel 1989 pensò invece ad Adamo che, assieme ai due angeli, si riferirebbe all'esegesi agostiniana.
Stilisticamente la pala mostra figure monumentali solenni, in cui si coglie un'influenza di Fra Bartolomeo e della scuola di San Marco, viva nella prima parte della carriera dell'artista. Il colore ha modulazioni dolci, legate all'influenza di Leonardo da Vinci, mentre una certa libertà compositiva appare derivata dal primo maestro di Andrea, Piero di CosimoParagraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
IStoria [modifica]L'opera fu la seconda eseguita da Andrea del Sarto per la chiesa di San Gallo a Firenze da Andrea del Sarto, come ricordano l'Anonimo Magliabechiano e il Vasari: dopo il Noli me tangere e prima della Disputa sulla Trinità.
Con l'assedio di Firenze le opere del monastero, retto dagli Agostiniani, vennero trasferite entro le mura, per la precisione in San Jacopo tra i Fossi, infatti nel 1531 esso fu raso al suolo dalle truppe di Carlo V. Nella nuova sede vennero ricostruite tutte le capelle come erano nell'altra.
Nel 1557 venne sommersa circa un terzo durante l’alluvione, andando perduta la predella. Non è chiaro se essa fosse quella divisa oggi tra la National Gallery of Ireland e il Warwick Castle (ipotesi respinta da Padovani nel 1986). Vasari dopotutto riporta che ne avesse una dipinta da Pontormo e Rosso Fiorentino.
Descrizione e stile [modifica]La secna si svolge all'aperto, sullo sfondo di un edificio in prosettiva, con Maria a sinistra in piedi che, sorpresa dall'annuncio durante la lettura, si volta dinamicamente verso l'angelo, inginocchiato a destra e proteso veso di lei, nonché seguito, fatto assai raro, da altri due colleghi che sorridono e indicano la scena. Vicino a Maria si trova un leggio, dove alcune rose, bianche e rosa, ricordano la purezza di Maria e il futuro sacrificio di Cristo, oltre che la firma del pittore. Sopra gli angeli la colomba dello Spirito Santo sta planando dal cielo, non in profilo come al solito ma ruotata di tre quarti verso lo spettatore, in modo da sfruttare tutte la profondità spaziale della pala.
Lo sfondo presenta una scena di incerta interpretazione. Su un alto zoccolo si trova un edificio classico, dorato di una terrazza retta da archi dove tre personaggi stanno indicando una figura seminuda alla base dell'edificio, sui gradini d'accesso. La Petrioli Tofani nel 1985 parlò di una rappresentazione di Susanna e i vecchioni, anche se la figura in basso sembra più maschile che femminile; Conti nel 1968 come David e Betsabea; Natali nel 1989 pensò invece ad Adamo che, assieme ai due angeli, si riferirebbe all'esegesi agostiniana.
Stilisticamente la pala mostra figure monumentali solenni, in cui si coglie un'influenza di Fra Bartolomeo e della scuola di San Marco, viva nella prima parte della carriera dell'artista. Il colore ha modulazioni dolci, legate all'influenza di Leonardo da Vinci, mentre una certa libertà compositiva appare derivata dal primo maestro di Andrea, Piero di CosimoParagraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Andrea del Sarto - Giuseppe interpreta il sogno del Faraone
Giuseppe interpreta i sogni del faraone è un dipinto a olio su tavola (98x135 cm) .
Storia [modifica]A partire dal 1515 circa Salvi Borgherini fece decorare la camera nuziale di suo figlio Pierfrancesco e della consorte Margherita Acciaiuoli con una boiserie e mobilio intagliato da Baccio d'Agnolo, progettista anche del palazzo dove abitavano, il tutto decorato da una serie di pannelli figurati di Pontormo, Francesco Granacci e, in una fase immediatamente successiva, Andrea del Sarto e il Bacchiacca.
Il tema era quello delle Storie di Giuseppe ebreo, eroe virtuoso e casto spesso raffigurato come esempio per le giovani coppie.
Il Sarto dipinse due pannelli, le Storie dell'infanzia di Giuseppe, primo della serie, e Giuseppe interpreta i sogni del faraone, che secondo al ricostruzione di Braham dovevano decorare spalliere dei due cassoni ai lati del letto.
La camera, nonostante le gelose cure e i rifiuti a venderla della coppia, fu infine ceduta dai loro discendenti, tramite l'intermediazione di Niccolò Gaddi, a Francesco I de' Medici, nel 1584. La compravendita riguardò i pannelli del Granacci e di Andrea del Sarto, che oggi si trovano rispettivamente agli Uffizi e alla Galleria Palatina. I pannelli di Pontormo e del Bacchiaccha presero altre strade ed oggi si trovano divisi tra la National Gallery di Londra e la Galleria Borghese di Roma.
Descrizione e stile [modifica]L'Egitto in cui sono ambientate le storie venne immaginato come un luogo ideale popolato di costruzionmi rinascimentali, immerse in un verdeggiante paesaggio. Più gruppi di figure, disposti in diversi punti del dipinto, ora in primo piano, ora in lontananza, svolgono il tema biblico, dimostrando un pieno superamento dei modi quattrocenteschi, da cui ad esempio Francesco Granacci, altro artista attivo nella serie, non seppe mai allontanarsi.
Da sinistra si vede la tenda del faraone, vicino al quale si vedono le sette spighe piene e le sette spighe vuote (che spuntano nell'acqua, vicino a un putto) e le vacche grasse e magre, accalcate in riva a un fiume; sullo sfondo Giuseppe viene liberato di prigione, su suggerimento dei suoi ex-compagni di cella, e condotto dal faraone, a destra al quale interpreta correttamente i sogni e al centro riceve, come segno di gratitudine per la spiegazione, un collare d'oro, tra la sorpresa degli indovini di corte.
La complessa articolazione delle storie è risolta con originalità nei vari gruppi, unificati dal medesimo spazio, una visione cittadina in cui dimostrò una piena padronanza della prospettiva, con alcune piacevoli aperture paesistiche a sinistra e a destra, sotto l'arco della scalinata. Alcuni elementi si distinguono come pure decorazioni di sapore manierista, ispirate probabilmente dall'ex allievo Pontormo: ne sono esempio l'uomo nudo sdraiato a sinistra, una personificazione fluviale che non ha un ruolo nella storia, ma appare piuttosto come sfoggio di bravura anatomica, e i due putti che reggono con nastri il baldacchino del faraone, un elemento puramente decorativo.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Storia [modifica]A partire dal 1515 circa Salvi Borgherini fece decorare la camera nuziale di suo figlio Pierfrancesco e della consorte Margherita Acciaiuoli con una boiserie e mobilio intagliato da Baccio d'Agnolo, progettista anche del palazzo dove abitavano, il tutto decorato da una serie di pannelli figurati di Pontormo, Francesco Granacci e, in una fase immediatamente successiva, Andrea del Sarto e il Bacchiacca.
Il tema era quello delle Storie di Giuseppe ebreo, eroe virtuoso e casto spesso raffigurato come esempio per le giovani coppie.
Il Sarto dipinse due pannelli, le Storie dell'infanzia di Giuseppe, primo della serie, e Giuseppe interpreta i sogni del faraone, che secondo al ricostruzione di Braham dovevano decorare spalliere dei due cassoni ai lati del letto.
La camera, nonostante le gelose cure e i rifiuti a venderla della coppia, fu infine ceduta dai loro discendenti, tramite l'intermediazione di Niccolò Gaddi, a Francesco I de' Medici, nel 1584. La compravendita riguardò i pannelli del Granacci e di Andrea del Sarto, che oggi si trovano rispettivamente agli Uffizi e alla Galleria Palatina. I pannelli di Pontormo e del Bacchiaccha presero altre strade ed oggi si trovano divisi tra la National Gallery di Londra e la Galleria Borghese di Roma.
Descrizione e stile [modifica]L'Egitto in cui sono ambientate le storie venne immaginato come un luogo ideale popolato di costruzionmi rinascimentali, immerse in un verdeggiante paesaggio. Più gruppi di figure, disposti in diversi punti del dipinto, ora in primo piano, ora in lontananza, svolgono il tema biblico, dimostrando un pieno superamento dei modi quattrocenteschi, da cui ad esempio Francesco Granacci, altro artista attivo nella serie, non seppe mai allontanarsi.
Da sinistra si vede la tenda del faraone, vicino al quale si vedono le sette spighe piene e le sette spighe vuote (che spuntano nell'acqua, vicino a un putto) e le vacche grasse e magre, accalcate in riva a un fiume; sullo sfondo Giuseppe viene liberato di prigione, su suggerimento dei suoi ex-compagni di cella, e condotto dal faraone, a destra al quale interpreta correttamente i sogni e al centro riceve, come segno di gratitudine per la spiegazione, un collare d'oro, tra la sorpresa degli indovini di corte.
La complessa articolazione delle storie è risolta con originalità nei vari gruppi, unificati dal medesimo spazio, una visione cittadina in cui dimostrò una piena padronanza della prospettiva, con alcune piacevoli aperture paesistiche a sinistra e a destra, sotto l'arco della scalinata. Alcuni elementi si distinguono come pure decorazioni di sapore manierista, ispirate probabilmente dall'ex allievo Pontormo: ne sono esempio l'uomo nudo sdraiato a sinistra, una personificazione fluviale che non ha un ruolo nella storia, ma appare piuttosto come sfoggio di bravura anatomica, e i due putti che reggono con nastri il baldacchino del faraone, un elemento puramente decorativo.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Andrea del Sarto - Storie dell'infanzia di Giuseppe
Storie dell'infanzia di Giuseppe è un dipinto a olio su tavola (98x135 cm) di Andrea del Sarto, databile al 1515-1516
Storia [modifica]A partire dal 1515 circa Salvi Borgherini fece decorare la camera nuziale di suo figlio Pierfrancesco e della consorte Margherita Acciaiuoli con una boiserie e mobilio intagliato da Baccio d'Agnolo, progettista anche del palazzo dove abitavano, il tutto decorato da una serie di pannelli figurati di Pontormo, Francesco Granacci e, in una fase immediatamente successiva, Andrea del Sarto e il Bacchiacca.
Il tema era quello delle Storie di Giuseppe ebreo, eroe virtuoso e casto spesso raffigurato come esempio per le giovani coppie.
Il Sarto dipinse due pannelli, le Storie dell'infanzia di Giuseppe, primo della serie, e Giuseppe interpreta i sogni del faraone, che secondo la ricostruzione di Braham dovevano decorare spalliere dei due cassoni ai lati del letto.
La camera, nonostante le gelose cure e i rifiuti a venderla della coppia, fu infine ceduta dai loro discendenti, tramite l'intermediazione di Niccolò Gaddi, a Francesco I de' Medici, nel 1584. La compravendita riguardò i pannelli del Granacci e di Andrea del Sarto, che oggi si trovano rispettivamente agli Uffizi e alla Galleria Palatina. I pannelli di Pontormo e del Bacchiaccha presero altre strade ed oggi si trovano divisi tra la National Gallery di Londra e la Galleria Borghese di Roma.
Descrizione e stile [modifica]Una grossa rupe e alcuni edifici fanno da sfondo alle storie di Giuseppe, trattate in più gruppi di figure e disposti in diversi punti del dipinto, ora in primo piano, ora in lontananza. Lo schema ricorda Piero di Cosimo, primo maestro del Sarto, ma la sciolta articolazione delle storie, sebbene non raggiunga la frenesia di quelle di Pontormo, dimostra un pieno superamento dei modi quattrocenteschi, da cui ad esempio Francesco Granacci, altro artista attivo nella serie, non seppe mai allontanarsi.
Da sinistra si svolgono gli episodi di Giuseppe, sempre riconoscibile per l'abito giallo. Egli dopo aver interpretato i sogni del padre Giacobbe (a sinistra), in cui dimostra la predilezione del genitore rispetto ai suoi fratelli (a cui alludono il sole e la luna in cielo, in cui si vedono le facce dei genitori), viene inviato al centro, da Giacobbe e Rachele, a unirsi ai suoi fratelli pastori, recandovisi subito lungo un tragitto che si sviluppa in profondità. Al centro però, verso destra, essi lo fermano e lo gettano in un pozzo per via della gelosia che egli suscita loro. Essi se ne tornano dunque a casa e uno di loro mostra, in primo piano a destra, la tunica del fanciullo imbrattata di sangue al padre disperato, che lo crede morto sbranato dai lupi. Lo stesso malvagio fratello si vede al centro mentre scende dalla rupe, con la veste del fratellino sottobraccio. Giuseppe però si è salvato e, come si vede a destra con un nuovo vestito rosso, viene raccolto da dei mercanti che decidono di portarlo in Egitto dove lo venderanno come schiavo.
La complessa articolazione delle storie è risolta con originalità nei vari gruppi, unificati dal medesimo spazio, una cristallina veduta naturale, con squarci di ampio respiro ai lati, dove il paesaggio si fa più profondo, velato da una lontana foschia.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Storia [modifica]A partire dal 1515 circa Salvi Borgherini fece decorare la camera nuziale di suo figlio Pierfrancesco e della consorte Margherita Acciaiuoli con una boiserie e mobilio intagliato da Baccio d'Agnolo, progettista anche del palazzo dove abitavano, il tutto decorato da una serie di pannelli figurati di Pontormo, Francesco Granacci e, in una fase immediatamente successiva, Andrea del Sarto e il Bacchiacca.
Il tema era quello delle Storie di Giuseppe ebreo, eroe virtuoso e casto spesso raffigurato come esempio per le giovani coppie.
Il Sarto dipinse due pannelli, le Storie dell'infanzia di Giuseppe, primo della serie, e Giuseppe interpreta i sogni del faraone, che secondo la ricostruzione di Braham dovevano decorare spalliere dei due cassoni ai lati del letto.
La camera, nonostante le gelose cure e i rifiuti a venderla della coppia, fu infine ceduta dai loro discendenti, tramite l'intermediazione di Niccolò Gaddi, a Francesco I de' Medici, nel 1584. La compravendita riguardò i pannelli del Granacci e di Andrea del Sarto, che oggi si trovano rispettivamente agli Uffizi e alla Galleria Palatina. I pannelli di Pontormo e del Bacchiaccha presero altre strade ed oggi si trovano divisi tra la National Gallery di Londra e la Galleria Borghese di Roma.
Descrizione e stile [modifica]Una grossa rupe e alcuni edifici fanno da sfondo alle storie di Giuseppe, trattate in più gruppi di figure e disposti in diversi punti del dipinto, ora in primo piano, ora in lontananza. Lo schema ricorda Piero di Cosimo, primo maestro del Sarto, ma la sciolta articolazione delle storie, sebbene non raggiunga la frenesia di quelle di Pontormo, dimostra un pieno superamento dei modi quattrocenteschi, da cui ad esempio Francesco Granacci, altro artista attivo nella serie, non seppe mai allontanarsi.
Da sinistra si svolgono gli episodi di Giuseppe, sempre riconoscibile per l'abito giallo. Egli dopo aver interpretato i sogni del padre Giacobbe (a sinistra), in cui dimostra la predilezione del genitore rispetto ai suoi fratelli (a cui alludono il sole e la luna in cielo, in cui si vedono le facce dei genitori), viene inviato al centro, da Giacobbe e Rachele, a unirsi ai suoi fratelli pastori, recandovisi subito lungo un tragitto che si sviluppa in profondità. Al centro però, verso destra, essi lo fermano e lo gettano in un pozzo per via della gelosia che egli suscita loro. Essi se ne tornano dunque a casa e uno di loro mostra, in primo piano a destra, la tunica del fanciullo imbrattata di sangue al padre disperato, che lo crede morto sbranato dai lupi. Lo stesso malvagio fratello si vede al centro mentre scende dalla rupe, con la veste del fratellino sottobraccio. Giuseppe però si è salvato e, come si vede a destra con un nuovo vestito rosso, viene raccolto da dei mercanti che decidono di portarlo in Egitto dove lo venderanno come schiavo.
La complessa articolazione delle storie è risolta con originalità nei vari gruppi, unificati dal medesimo spazio, una cristallina veduta naturale, con squarci di ampio respiro ai lati, dove il paesaggio si fa più profondo, velato da una lontana foschia.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Artemisia Gentileschi - Giuditta e l'Ancella
Giuditta con la sua ancella è un dipinto a olio su tela (114x93,5 cm) di Artemisia Gentileschi, databile al 1618-1619 circa ..
Storia [modifica]La critica è incerta sulla datazione del quadro, da collocarsi verosimilmente verso l'inizio del soggiorno di Artemisia a Firenze. L'impaginazione della scena presenta una stretta somiglianza con la Giuditta con la sua ancella conservata alla Galleria nazionale di Oslo, che alcuni storici dell'arte attribuiscono alla mano di Artemisia, altri a quella di suo padre Orazio.
La prima citazione certa risale all'inventario della Guardaroba di palazzo Pitti del 1637, come "un quadro su tela entro Juditvi con la sua compagna con la testa di Oloferne in una paniera di mano dell'Artemisia" (ASF, Guardaroba 525, c. 45).
Esistono copie antiche del dipinto nella Galleria Corsini di Firenze, a Palazzo Rosso a Genova e nella galleria Carpentier di Parigi.
Descrizione e stile [modifica]In questa tela, dai toni marcatamente caravaggeschi, le due figure femminili di Giuditta e di Abra, la sua ancella, sono raffigurate da vicino, con una inquadratura stretta, in una posizione quasi speculare; stanno immerse nell’ombra, illuminate da una luce, come di candela, che viene dalla loro sinistra.
Dopo aver dipinto la cruenta Giuditta che decapita Oloferne, oggi al museo di Capodimonte a Napoli, Artemisia ritornò sulla storia dell'eroina biblica che uccide il generale dell'esercito nemico, con un'opera di forte intensità drammatica e di grande sapienza narrativa.
La tela mostra l'istante in cui le due donne si apprestano a lasciare la tenda di Oloferne, con la paura di essere scoperte dai soldati assiri. Abra sostiene, come se fosse il bucato, la cesta in cui è stata deposta la testa mozzata del tiranno e Giuditta impugna ancora, appoggiandola sulla spalla, la spada con la quale ha compiuto da poco la sua vendetta; con l'altra mano, posata con un gesto complice sulla spalla dell'ancella, sembra volerla trattenere, come turbata da un rumore esterno.
Il dipinto, che si colloca tra le opere migliori di Artemisia, mostra una superba è la tensione del volto di Giuditta, segnata da uno sguardo preoccupato rivolto all'uscita della tenda e da una ciocca di capelli che è sfuggita dalla raffinata acconciatura.
Una minuziosa cura – come si riscontra in tutti i suoi numerosi dipinti dedicati alla storia di Giuditta – è posta nella raffigurazione dell'elsa della spada e dei gioielli che adornano l'eroina biblica. L'ampio turbante ed il vestito dell'ancella, giocati sulle varie tonalità del bianco e del giallo, mostrano inconfondibilmente i segni .
Storia [modifica]La critica è incerta sulla datazione del quadro, da collocarsi verosimilmente verso l'inizio del soggiorno di Artemisia a Firenze. L'impaginazione della scena presenta una stretta somiglianza con la Giuditta con la sua ancella conservata alla Galleria nazionale di Oslo, che alcuni storici dell'arte attribuiscono alla mano di Artemisia, altri a quella di suo padre Orazio.
La prima citazione certa risale all'inventario della Guardaroba di palazzo Pitti del 1637, come "un quadro su tela entro Juditvi con la sua compagna con la testa di Oloferne in una paniera di mano dell'Artemisia" (ASF, Guardaroba 525, c. 45).
Esistono copie antiche del dipinto nella Galleria Corsini di Firenze, a Palazzo Rosso a Genova e nella galleria Carpentier di Parigi.
Descrizione e stile [modifica]In questa tela, dai toni marcatamente caravaggeschi, le due figure femminili di Giuditta e di Abra, la sua ancella, sono raffigurate da vicino, con una inquadratura stretta, in una posizione quasi speculare; stanno immerse nell’ombra, illuminate da una luce, come di candela, che viene dalla loro sinistra.
Dopo aver dipinto la cruenta Giuditta che decapita Oloferne, oggi al museo di Capodimonte a Napoli, Artemisia ritornò sulla storia dell'eroina biblica che uccide il generale dell'esercito nemico, con un'opera di forte intensità drammatica e di grande sapienza narrativa.
La tela mostra l'istante in cui le due donne si apprestano a lasciare la tenda di Oloferne, con la paura di essere scoperte dai soldati assiri. Abra sostiene, come se fosse il bucato, la cesta in cui è stata deposta la testa mozzata del tiranno e Giuditta impugna ancora, appoggiandola sulla spalla, la spada con la quale ha compiuto da poco la sua vendetta; con l'altra mano, posata con un gesto complice sulla spalla dell'ancella, sembra volerla trattenere, come turbata da un rumore esterno.
Il dipinto, che si colloca tra le opere migliori di Artemisia, mostra una superba è la tensione del volto di Giuditta, segnata da uno sguardo preoccupato rivolto all'uscita della tenda e da una ciocca di capelli che è sfuggita dalla raffinata acconciatura.
Una minuziosa cura – come si riscontra in tutti i suoi numerosi dipinti dedicati alla storia di Giuditta – è posta nella raffigurazione dell'elsa della spada e dei gioielli che adornano l'eroina biblica. L'ampio turbante ed il vestito dell'ancella, giocati sulle varie tonalità del bianco e del giallo, mostrano inconfondibilmente i segni .
Artemisia Gentileschi - Conversione della Maddalena
La conversione della Maddalena è un dipinto ad olio su tela di cm 146,5 x 108 realizzato tra il 1615 e il 1616 dalla pittrice italiana Artemisia Gentileschi.
L'opera [modifica]La rappresentazione pittorica della Maddalena penitente e quella della conversione della Maddalena coprono uno spettro iconografico molto vasto, potendo l'artista cercare in molti modi diversi il necessario equilibrio tra la sensualità della peccatrice e la sua ascesi spirituale nel pentimento. Tiziano, nella famosa tela conservata anch'essa a Palazzo Pitti, aveva dipinto una Maddalena decisamente sensuale, con un procace seno scoperto, solo in piccola parte celato dai lunghissimi capelli biondi, che reclamava la verità del suo pentimento con gli occhi pieni di lacrime rivolti al cielo.
In questa Maddalena di Artemisia Gentileschi, il contrasto tra sensualità e fede è risolto in modo assai meno provocatorio. Vero è che la santa ha l'aspetto di una donna avvenente, elegante come poteva essere una dama di alto rango, con un suntuoso abito di seta gialla (opera inconfondibile di quello che Roberto Longhichiamava il "guardaroba dei Gentileschi"!); un abito dagli amplissimi panneggi, con una generosa scollatura che, con noncuranza, mostra appena la nudità di una spalla e la piega del seno. Non c'è nulla di specialmente provocatorio, tanto più che dalla veste lussuosa spunta un piede nudo, simbolo di un proposito di rinuncia; proposito che viene confermato dalla postura delle mani, l'una sul petto, come in atto di riconoscere i suoi peccati, e l'altra protesa a schivare qualcosa che a mala pena si intravede nell'ombra. Si tratta di uno specchio, simbolo per antonomasia della vanitas. Sulla sua cornice si leggono le parole del Vangelo secondo Luca "OPTIMAM PARTEM ELEGIT", ha scelto la parte migliore, quella della ricerca del Signore.
Il viso, incorniciato dai boccoli un po' disordinati dei capelli, appare più mesto che affranto, e lo sguardo sembra ancora esitare prima di rivolgersi verso l'alto. La impaginazione del quadro, con la figura che esce dal buio dello sfondo di una stanza, è decisamente caravaggesca. Ma se Caravaggio, con la sua Maddalena conservata nella Galleria Doria Pamphilj, aveva messo in scena una prostituta, col viso abbassato, le mani in grembo, assisa su una sedia modesta ed i gioielli abbandonati sul nudo pavimento, il verismo di Artemisia non arriva qui a tanto. A conferire un'aria aristocratica alla figura contribuisce anche la poltrona finemente lavorata sulla quale la santa sta assisa. Proprio su un lato dello schienale la pittrice ha posto la sua firma, "ARTIMISIA LOMI".
La tela appartiene – secondo l'opinione pressoché concorde dei critici – al periodo fiorentino ed è verisimile che l'aspetto elegante ed aristocratico della santa risenta dei gusti artistici di una Firenze che, in quegli anni, apprezzava particolarmente i modi pittorici di Cristofano Allori.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
L'opera [modifica]La rappresentazione pittorica della Maddalena penitente e quella della conversione della Maddalena coprono uno spettro iconografico molto vasto, potendo l'artista cercare in molti modi diversi il necessario equilibrio tra la sensualità della peccatrice e la sua ascesi spirituale nel pentimento. Tiziano, nella famosa tela conservata anch'essa a Palazzo Pitti, aveva dipinto una Maddalena decisamente sensuale, con un procace seno scoperto, solo in piccola parte celato dai lunghissimi capelli biondi, che reclamava la verità del suo pentimento con gli occhi pieni di lacrime rivolti al cielo.
In questa Maddalena di Artemisia Gentileschi, il contrasto tra sensualità e fede è risolto in modo assai meno provocatorio. Vero è che la santa ha l'aspetto di una donna avvenente, elegante come poteva essere una dama di alto rango, con un suntuoso abito di seta gialla (opera inconfondibile di quello che Roberto Longhichiamava il "guardaroba dei Gentileschi"!); un abito dagli amplissimi panneggi, con una generosa scollatura che, con noncuranza, mostra appena la nudità di una spalla e la piega del seno. Non c'è nulla di specialmente provocatorio, tanto più che dalla veste lussuosa spunta un piede nudo, simbolo di un proposito di rinuncia; proposito che viene confermato dalla postura delle mani, l'una sul petto, come in atto di riconoscere i suoi peccati, e l'altra protesa a schivare qualcosa che a mala pena si intravede nell'ombra. Si tratta di uno specchio, simbolo per antonomasia della vanitas. Sulla sua cornice si leggono le parole del Vangelo secondo Luca "OPTIMAM PARTEM ELEGIT", ha scelto la parte migliore, quella della ricerca del Signore.
Il viso, incorniciato dai boccoli un po' disordinati dei capelli, appare più mesto che affranto, e lo sguardo sembra ancora esitare prima di rivolgersi verso l'alto. La impaginazione del quadro, con la figura che esce dal buio dello sfondo di una stanza, è decisamente caravaggesca. Ma se Caravaggio, con la sua Maddalena conservata nella Galleria Doria Pamphilj, aveva messo in scena una prostituta, col viso abbassato, le mani in grembo, assisa su una sedia modesta ed i gioielli abbandonati sul nudo pavimento, il verismo di Artemisia non arriva qui a tanto. A conferire un'aria aristocratica alla figura contribuisce anche la poltrona finemente lavorata sulla quale la santa sta assisa. Proprio su un lato dello schienale la pittrice ha posto la sua firma, "ARTIMISIA LOMI".
La tela appartiene – secondo l'opinione pressoché concorde dei critici – al periodo fiorentino ed è verisimile che l'aspetto elegante ed aristocratico della santa risenta dei gusti artistici di una Firenze che, in quegli anni, apprezzava particolarmente i modi pittorici di Cristofano Allori.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
BOTTICELLI
Il Ritratto di giovane è un dipinto a tempera su tavola (51x33,7 cm) di Sandro Botticelli, databile al 1470. c
Si ignora la collocazione originaria del dipinto e l'identità del giovane effigiato. L'opera, presente negli inventari antichi come opera di Andrea del Castagno, è testimoniato a palazzo Pitti dal 1829. Fu Adolfo Venturi a indicare per primo il nome di Botticelli, collocandolo alla fase giovanile della sua produzione, come confermato poi da Mandel, Bohm, Pons, Caneva, Luchs e Padovani.
Descrizione e stile:Questo dipinto è uno dei primi in cui il soggetto viene ritratto non di profilo, come era consuetudine, ma di tre quarti, secondo una consuetudine derivata dalla pittura fiamminga che in Italia iniziò a sostituire il ritratto di profilo, di stampo umanistico, nella seconda metà del XV secolo.
Il giovane ragazzo è ritratto fino al busto, voltato verso sinistra, con indosso una mantella rossa da ricco borghese e un chaperon con il tipico drappo ricadente sulle spalle. L'effigie è al tempo stesso sintetica e celebrativa, con una sottile tensione psicologica, data dallo sguardo diretto che il giovane rivolge allo spettatore. La leggera visione dal basso dà al personaggio un tono aristocratico di superiorità.
Lo sfondo è un cielo azzurrino che schiarisce verso l'orizzonte.
Il ritratto è dominato dal linearismo formale che non esita a sacrificare la terza dimensione.
Si ignora la collocazione originaria del dipinto e l'identità del giovane effigiato. L'opera, presente negli inventari antichi come opera di Andrea del Castagno, è testimoniato a palazzo Pitti dal 1829. Fu Adolfo Venturi a indicare per primo il nome di Botticelli, collocandolo alla fase giovanile della sua produzione, come confermato poi da Mandel, Bohm, Pons, Caneva, Luchs e Padovani.
Descrizione e stile:Questo dipinto è uno dei primi in cui il soggetto viene ritratto non di profilo, come era consuetudine, ma di tre quarti, secondo una consuetudine derivata dalla pittura fiamminga che in Italia iniziò a sostituire il ritratto di profilo, di stampo umanistico, nella seconda metà del XV secolo.
Il giovane ragazzo è ritratto fino al busto, voltato verso sinistra, con indosso una mantella rossa da ricco borghese e un chaperon con il tipico drappo ricadente sulle spalle. L'effigie è al tempo stesso sintetica e celebrativa, con una sottile tensione psicologica, data dallo sguardo diretto che il giovane rivolge allo spettatore. La leggera visione dal basso dà al personaggio un tono aristocratico di superiorità.
Lo sfondo è un cielo azzurrino che schiarisce verso l'orizzonte.
Il ritratto è dominato dal linearismo formale che non esita a sacrificare la terza dimensione.
Madonna col Bambino e san Giovannino
è un dipinto a tempera su tela (134x92 cm) attribuito a Sandro Botticelli, databile al 1495 circa e conservato nellaGalleria Palatina di Palazzo Pitti a Firenze.
Descrizione e stile [modifica]La critica non è concorde circa l'autografia o meno dell'opera. Maria stante tiene in braccio il Bambino e lo porge verso san Giovannino, per far abbracciare i due fanciulli. Dietro Maria si trova un roseto, fiore tipico della Vergine, con fiori di colore rosso, che rimandano al colore del sangue della Passione di Gesù. Anche la posa quasi orizzontale del Bambino e i suoi occhi chiusi riecheggiano la morte, dando un senso malinconico a tutta la rappresentazione.
I colori squillanti rimandano all'ultima fase artistica dell'artista, a ridosso ormai del XVI secolo, confrontabile con opere come il Compianto sul Cristo morto di Milanoo quello di Monaco di Baviera. La linea del panneggio è antinaturalistica, come nei personaggi della Natività mistica e non fa che confermare la possibile datazione tarda.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Descrizione e stile [modifica]La critica non è concorde circa l'autografia o meno dell'opera. Maria stante tiene in braccio il Bambino e lo porge verso san Giovannino, per far abbracciare i due fanciulli. Dietro Maria si trova un roseto, fiore tipico della Vergine, con fiori di colore rosso, che rimandano al colore del sangue della Passione di Gesù. Anche la posa quasi orizzontale del Bambino e i suoi occhi chiusi riecheggiano la morte, dando un senso malinconico a tutta la rappresentazione.
I colori squillanti rimandano all'ultima fase artistica dell'artista, a ridosso ormai del XVI secolo, confrontabile con opere come il Compianto sul Cristo morto di Milanoo quello di Monaco di Baviera. La linea del panneggio è antinaturalistica, come nei personaggi della Natività mistica e non fa che confermare la possibile datazione tarda.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Botticelli - Ritratto di giovane Donna
è un dipinto a tempera su tavola (61x40 cm) di Sandro Botticelli, databile al 1475 .
Storia [modifica]La critica ottocentesca ha chiamato questo ritratto come Simonetta, intendendo Simonetta Vespucci, la donna amata da Giuliano de' Medici e morta prematuramente in una Firenze che l'aveva definita come l'ideale vivente "senza paragoni" di bellezza femminile. In realtà confrontando la donna ritratta con le altri immagini presunte di Simonetta (come la Nascita di Venere o il ritratto di Piero di Cosimo) la fisionomia è molto diversa.
L'autografia della tavola, che è tagliata su tutti e quattro i lati, è stata anche messa in discussione, come hanno avanzato i curatori dell'Opificio delle Pietre Dure che ne curarono il restauro nel 1988. Più recentemente è stata riaffermata come opera del maestro, soprattutto dagli scritti di Serena Padovani, che nell'ultimo catalogo della Galleria Palatina riportò anche le opinioni orali di Bellosi, Boskovits, Pope-Hennessy.
Descrizione e stile [modifica]La donna è ritratta di profilo verso sinistra, sullo sfondo di una finestra (o una porta?) con cornice in pietra aperta su un cielo azzurrino. Il disegno è molto fine e si basa sull'uso della linea di contorno, che definisce un'effige elegante e molto idealizzata. Il volto, con i capelli raccolti da un velo annodato in testa, tradisce una certa malinconia tipica delle opere del pittore. Il lungo collo è innestato su un busto leggermente rimpicciolito e con un andamento un po' curvo. Il vestito scollato, elegante ma non sfarzoso, rimanda a una donna della borghesia fiorentina, con analogie con altri ritratti dell'epoca, come il celebre Ritratto di giovane dama diAntonio del Pollaiolo (1470-1472).Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Storia [modifica]La critica ottocentesca ha chiamato questo ritratto come Simonetta, intendendo Simonetta Vespucci, la donna amata da Giuliano de' Medici e morta prematuramente in una Firenze che l'aveva definita come l'ideale vivente "senza paragoni" di bellezza femminile. In realtà confrontando la donna ritratta con le altri immagini presunte di Simonetta (come la Nascita di Venere o il ritratto di Piero di Cosimo) la fisionomia è molto diversa.
L'autografia della tavola, che è tagliata su tutti e quattro i lati, è stata anche messa in discussione, come hanno avanzato i curatori dell'Opificio delle Pietre Dure che ne curarono il restauro nel 1988. Più recentemente è stata riaffermata come opera del maestro, soprattutto dagli scritti di Serena Padovani, che nell'ultimo catalogo della Galleria Palatina riportò anche le opinioni orali di Bellosi, Boskovits, Pope-Hennessy.
Descrizione e stile [modifica]La donna è ritratta di profilo verso sinistra, sullo sfondo di una finestra (o una porta?) con cornice in pietra aperta su un cielo azzurrino. Il disegno è molto fine e si basa sull'uso della linea di contorno, che definisce un'effige elegante e molto idealizzata. Il volto, con i capelli raccolti da un velo annodato in testa, tradisce una certa malinconia tipica delle opere del pittore. Il lungo collo è innestato su un busto leggermente rimpicciolito e con un andamento un po' curvo. Il vestito scollato, elegante ma non sfarzoso, rimanda a una donna della borghesia fiorentina, con analogie con altri ritratti dell'epoca, come il celebre Ritratto di giovane dama diAntonio del Pollaiolo (1470-1472).Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Botticelli - Tondo Bartolini
ll Tondo Bartolini (Madonna col Bambino con la nascita della Vergine e l'incontro di Gioacchino e Anna) è un'opera, tempera su tavola (diametro 135 cm) diFilippo Lippi, databile al 1465-1470 e conservato nella Galleria Palatina a Firenze.
Storia [modifica]Secondo la tradizione l'opera venne commissionata dal fiorentino Leonardo Bartolini, interpretando alcune menzioni in documenti del 1452-1453, all'epoca dell'inizio del soggiorno pratese del pittore. Studi più recenti (Jeffrey Ruda) hanno invece tenuto maggiormente in considerazione lo stemma sul retro della tavola, che appartiene a un membro della famiglia Martelli, e spostato la datazione, su base di riscontri stilistici, avvicinandola agli ultimi affreschi dellacappella Maggiore del Duomo di Prato, ovvero alla seconda metà degli anni sessanta del Quattrocento.
L'opera è citata negli inventari di Palazzo Pitti a Firenze nel 1761, che la indicano come conservata nelle "soffitte". Con l'allestimento della Galleria Palatinaandò a comporre uno dei pezzi più pregiati della sala sul Quattrocento fiorentino della galleria.
Descrizione e stile]Il formato tondo, di grandi dimensioni, fu uno dei primi del Rinascimento, e fece da ispirazione sicuramente a Sandro Botticelli e altri artisti del secondo Quattrocento.
Il Bambino è nel grembo della madre, a sua volta seduta su una sedia di cui si intravedono alcune curiose volute lignee che farebbero quasi pensare a un gusto "barocco". L'acconciatura della Vergine è quella in voga tra gli anni sessanta e settanta del secolo, con finissimi veli intrecciati, ornati di sottili fili perle. Anche l'abito è ricco ed elegante, come dimostrano i gioielli applicati o la bordatura dorata. la Vergine e il bambino tengono in mano una melagrana, simbolo di fertilità e di regalità, dalla quale il Bambino ha estratto un chicco che mostra alla madre con l'altra manina.
Sullo sfondo, in una complessa partitura architettonica unificata dalla prospettiva lineare, si svolgono tre scene legate alla nascita di Maria: l'Incontro alla Porta d'Oro di Giovacchino e Anna (a destra), la Nascita della Vergine (a sinistra), con la vista di alcune donne al centro. La scelta delle scene richiama un tema allora molto discusso nel Quattrocento, cioè la concezione "macolata" o "immacolata" di Maria da parte di sant'Anna: evidenziando il miracoloso concepimento di Maria durante l'incontro alla Porta d'Oro, senza atto sessuale quindi, si prendeva una precisa posizione verso l'intrepretazione "immacolata". Le forme nitide dell'architettura fanno risaltare il dinamismo di alcune figure, dall'elegante disegno.
Tra i modelli della composizione ci sono opere scultoree, come la Porta del Paradiso di Ghiberti. Le vesti setose che si increspano col movimento, già sperimentate da Donatello nel San Giorgio e la principessa(1416-1417), sono qui usate in pittura per la prima volta e divennero uno dei temi più cari all'arte fiorentina. Vi si ispirarono molti artisti, come Sandro Botticelli nel Ritorno di Giuditta a Betulia (1472 circa) eDomenico Ghirlandaio nella scena della Nascita della Vergine (1485-1490) del nella Cappella Tornabuoni in Santa Maria Novella, dove dipinse un'analoga figura di donna vestita di seta che accorre con una cesta in testa.
Storia [modifica]Secondo la tradizione l'opera venne commissionata dal fiorentino Leonardo Bartolini, interpretando alcune menzioni in documenti del 1452-1453, all'epoca dell'inizio del soggiorno pratese del pittore. Studi più recenti (Jeffrey Ruda) hanno invece tenuto maggiormente in considerazione lo stemma sul retro della tavola, che appartiene a un membro della famiglia Martelli, e spostato la datazione, su base di riscontri stilistici, avvicinandola agli ultimi affreschi dellacappella Maggiore del Duomo di Prato, ovvero alla seconda metà degli anni sessanta del Quattrocento.
L'opera è citata negli inventari di Palazzo Pitti a Firenze nel 1761, che la indicano come conservata nelle "soffitte". Con l'allestimento della Galleria Palatinaandò a comporre uno dei pezzi più pregiati della sala sul Quattrocento fiorentino della galleria.
Descrizione e stile]Il formato tondo, di grandi dimensioni, fu uno dei primi del Rinascimento, e fece da ispirazione sicuramente a Sandro Botticelli e altri artisti del secondo Quattrocento.
Il Bambino è nel grembo della madre, a sua volta seduta su una sedia di cui si intravedono alcune curiose volute lignee che farebbero quasi pensare a un gusto "barocco". L'acconciatura della Vergine è quella in voga tra gli anni sessanta e settanta del secolo, con finissimi veli intrecciati, ornati di sottili fili perle. Anche l'abito è ricco ed elegante, come dimostrano i gioielli applicati o la bordatura dorata. la Vergine e il bambino tengono in mano una melagrana, simbolo di fertilità e di regalità, dalla quale il Bambino ha estratto un chicco che mostra alla madre con l'altra manina.
Sullo sfondo, in una complessa partitura architettonica unificata dalla prospettiva lineare, si svolgono tre scene legate alla nascita di Maria: l'Incontro alla Porta d'Oro di Giovacchino e Anna (a destra), la Nascita della Vergine (a sinistra), con la vista di alcune donne al centro. La scelta delle scene richiama un tema allora molto discusso nel Quattrocento, cioè la concezione "macolata" o "immacolata" di Maria da parte di sant'Anna: evidenziando il miracoloso concepimento di Maria durante l'incontro alla Porta d'Oro, senza atto sessuale quindi, si prendeva una precisa posizione verso l'intrepretazione "immacolata". Le forme nitide dell'architettura fanno risaltare il dinamismo di alcune figure, dall'elegante disegno.
Tra i modelli della composizione ci sono opere scultoree, come la Porta del Paradiso di Ghiberti. Le vesti setose che si increspano col movimento, già sperimentate da Donatello nel San Giorgio e la principessa(1416-1417), sono qui usate in pittura per la prima volta e divennero uno dei temi più cari all'arte fiorentina. Vi si ispirarono molti artisti, come Sandro Botticelli nel Ritorno di Giuditta a Betulia (1472 circa) eDomenico Ghirlandaio nella scena della Nascita della Vergine (1485-1490) del nella Cappella Tornabuoni in Santa Maria Novella, dove dipinse un'analoga figura di donna vestita di seta che accorre con una cesta in testa.
Bronzino: Ritratto di Maria de Medici.
Bronzino - Ritratto di Guidobaldo della Rovere
Caravaggio -Ritratto di Antonio Martelli
Ritratto di Antonio Martelli, Cavaliere di Malta è un dipinto ad olio su tela di cm 118,5 x 95 realizzato tra il 1608 ed il 1609 dal pittore italiano Caravaggio.
Il soggetto della tela è Antonio (o Marcantonio) Martelli, cavaliere di Malta, ritratto all'età di circa settanta anni. Il pittore fu molto legato a lui, tanto da far pensare che la fuga del Caravaggio da Malta, avvenuta poco dopo, sia stata possibile grazie all'intervento del Martelli. D'altro canto, l'opera appare incompiuta nello sfondo e nei particolari in basso della figura: ipotesi, questa, che farebbe pensare a quest'opera come l'ultima dipinta a Malta.
Nonostante l'apparente incompiutezza, il virtuosismo pittorico con cui è dipinta la tunica nera con la croce di seta bianca rende questo ritratto uno dei più belli del Merisi.
Fino a poco tempo fa, data la somiglianza, si pensava che l'effigiato fosse il Gran Maestro Alof de Wignacourt.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Il soggetto della tela è Antonio (o Marcantonio) Martelli, cavaliere di Malta, ritratto all'età di circa settanta anni. Il pittore fu molto legato a lui, tanto da far pensare che la fuga del Caravaggio da Malta, avvenuta poco dopo, sia stata possibile grazie all'intervento del Martelli. D'altro canto, l'opera appare incompiuta nello sfondo e nei particolari in basso della figura: ipotesi, questa, che farebbe pensare a quest'opera come l'ultima dipinta a Malta.
Nonostante l'apparente incompiutezza, il virtuosismo pittorico con cui è dipinta la tunica nera con la croce di seta bianca rende questo ritratto uno dei più belli del Merisi.
Fino a poco tempo fa, data la somiglianza, si pensava che l'effigiato fosse il Gran Maestro Alof de Wignacourt.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Caravaggio - Amore Dormiente
Amorino dormiente è un dipinto realizzato dal pittore Michelangelo Merisi da Caravaggio tra il 1608 e il 1609. La tela è firmata e datata sul retro: «M.M. di Caravaggio, Malta, 1608».
L'opera fu iniziata e completata a Malta, come conferma l'iscrizione, su commissione di Fra' Francesco dell'Antella, amministratore fiorentino di Alof de Wignacourt, Gran Cavaliere dell'Ordine di San Giovanni. Il dipinto fu probabilmente prelevato da Malta dall'artista ed è ricordato a Firenze sin dal 1618.
Il fanciullo nudo giace addormentato impugnando ancora una freccia, lasciando inoltre la faretra abbandonata al suolo.
L'opera fu iniziata e completata a Malta, come conferma l'iscrizione, su commissione di Fra' Francesco dell'Antella, amministratore fiorentino di Alof de Wignacourt, Gran Cavaliere dell'Ordine di San Giovanni. Il dipinto fu probabilmente prelevato da Malta dall'artista ed è ricordato a Firenze sin dal 1618.
Il fanciullo nudo giace addormentato impugnando ancora una freccia, lasciando inoltre la faretra abbandonata al suolo.
Filippino Lippi - Morte di Lucrezia.
La Morte di Lucrezia è un dipinto a tempera su tavola (42x126 cm) di Filippino Lippi, databile al 1478-1480 circa .
Storia [modifica]L'opera, attribuita alla prima fase giovanile dell'artista, fa coppia con una tavoletta analoga per dimensioni e tema con le Storie di Virginia al Louvre, con la quale doveva decorare il lato frontale e posteriore di un cassone, o forse due cassoni gemelli.
Tale tipo di produzione era molto in voga nella Firenze dell'epoca e se ne conoscono vari esempi sia di mano di Filippino (comeEster scelta da Assuero al Museo Condé di Chantilly), sia del suo maestro Botticelli (Storie di Lucrezia all'Isabella Stewart Gardner Museum di Boston, Storie di Virginia all'Accademia Carrara di Bergamo), infatti la tavoletta fiorentina e la sua omologa parigina hanno spesso oscillato tra l'uno e l'altro pittore, che in quel periodo collaboravano. In particolare le Storie di Lucrezia di Firenze secondo Mesnil erano da riferire al Botticelli e le Storie di Virginia del Louvre a Filippino, sebbene da Cavalcaselle in poi si è consolidata l'attribuzione di entrambe a Filippino.
Descrizione e stile [modifica]Lucrezia romana è un personaggio semileggendario della storia di Roma. Moglie fedelissima e casta di Collatino, venne violentata da Tarquinio il Superbo, causandone il suicidio per la vergogna; in seguito a tale episodio i Romani si ribellarono al tiranno e lo cacciarono instaurando la Repubblica. La figura di Lucrezia godette di una straordinaria fama durante il Rinascimento, come modello di castità e continenza alle giovani spose, per cui è frequente trovarla su arredi nuziali, come i cassoni, o su piccole opere destinate alla decorazione di camere e altri ambienti privati.
Filippino rappresentà qui solo le vicende legate al ritrovamento del cadavere di Lucrezia, dopo il suicidio (scena a sinistra), e alle sue esequie (al centro). Ispirate allo stile di Botticelli, sono ambientate in una rigorosa architettura classica, dalle forme nitide, che scandiscono con vuoti e pieni tre zone, in cui si svolgono le scene. I personaggi sono particolarmente vivaci, ma l'unità narrativa è garantita dal raccordo dello sfondo, composto da due edifici pressoché cubici ai lati e una piazza con un porticato aperto sul paesaggio, decorata da un pilastro con una statua dorata sulla sommità. I medaglioni coi cavalieri, che riecheggiano la figura a destra, sono forse da leggere come un riferimento alla rivolta dei Romani.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Storia [modifica]L'opera, attribuita alla prima fase giovanile dell'artista, fa coppia con una tavoletta analoga per dimensioni e tema con le Storie di Virginia al Louvre, con la quale doveva decorare il lato frontale e posteriore di un cassone, o forse due cassoni gemelli.
Tale tipo di produzione era molto in voga nella Firenze dell'epoca e se ne conoscono vari esempi sia di mano di Filippino (comeEster scelta da Assuero al Museo Condé di Chantilly), sia del suo maestro Botticelli (Storie di Lucrezia all'Isabella Stewart Gardner Museum di Boston, Storie di Virginia all'Accademia Carrara di Bergamo), infatti la tavoletta fiorentina e la sua omologa parigina hanno spesso oscillato tra l'uno e l'altro pittore, che in quel periodo collaboravano. In particolare le Storie di Lucrezia di Firenze secondo Mesnil erano da riferire al Botticelli e le Storie di Virginia del Louvre a Filippino, sebbene da Cavalcaselle in poi si è consolidata l'attribuzione di entrambe a Filippino.
Descrizione e stile [modifica]Lucrezia romana è un personaggio semileggendario della storia di Roma. Moglie fedelissima e casta di Collatino, venne violentata da Tarquinio il Superbo, causandone il suicidio per la vergogna; in seguito a tale episodio i Romani si ribellarono al tiranno e lo cacciarono instaurando la Repubblica. La figura di Lucrezia godette di una straordinaria fama durante il Rinascimento, come modello di castità e continenza alle giovani spose, per cui è frequente trovarla su arredi nuziali, come i cassoni, o su piccole opere destinate alla decorazione di camere e altri ambienti privati.
Filippino rappresentà qui solo le vicende legate al ritrovamento del cadavere di Lucrezia, dopo il suicidio (scena a sinistra), e alle sue esequie (al centro). Ispirate allo stile di Botticelli, sono ambientate in una rigorosa architettura classica, dalle forme nitide, che scandiscono con vuoti e pieni tre zone, in cui si svolgono le scene. I personaggi sono particolarmente vivaci, ma l'unità narrativa è garantita dal raccordo dello sfondo, composto da due edifici pressoché cubici ai lati e una piazza con un porticato aperto sul paesaggio, decorata da un pilastro con una statua dorata sulla sommità. I medaglioni coi cavalieri, che riecheggiano la figura a destra, sono forse da leggere come un riferimento alla rivolta dei Romani.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Fra Bartolomeo - San Marco
San Marco è un dipinto a olio su tavola trasportata su tela (352x212 cm) di Fra Bartolomeo, databile al 1514-1516.
Storia e descrizione [modifica]L'opera proviene dalla chiesa di San Marco, dove decorava una delle due cappelle del coro, in pendant con un San Sebastiano, perduto, forse recentemnete individuato nella collezione Alaffre a Bézenac, in Francia. Se San Marco rimase nella sua collocazione fino al 1690, il San Sebastiano veniva invece trasferito in sagrestia nel 1529, sostituendolo con l'Apparizione della Vergine a san Giacinto di Jacopo Ligozzi, e di lì a poco venduto al re di Francia, dove se ne persero le tracce.
Spostato col rifacimento barocco della chiesa, il San Marco fu richiesto dal gran principe Ferdinando de' Medici per la sua collezione, consegnandolo nel 1690, appunto. In chiesa venne lasciata una copia Antonio Franchi detto il Lucchese. Nel 1799 fu portato a Parigi dagli occupanti francesi e, dopo essere stato restaurato e trasportato su tela, aggiustando la forma del dipinto da centinata a rettangolare, tornò a Firenze nel 1816. Nell'allestimento della galleria da allora si trova in pendant ideale con la Pala di Poppi di Andrea del Sarto.
Col restauro del 1994 sono state asportate numerose ridipinture che creavano un effetto spento sui colori, quasi tendente al monocromo, riscoprendo l'originale brillantezza dei toni.
Ne esistono disegni preparatori allo Städel di Francoforte, al Courtauld Institute, al British Museum e al Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi.
È riferibile, in base ai dati stilistici, al 1515, dopo il ritorno del pittore da Roma, data confermata anche da alcune tracce archivistiche. Le dimensioni straordinarie dell'evangelista appaiono dopotutto come il tentativo di emulare i Profeti della volta della cappella Sistina di Michelangelo o l'Isaia di Raffaello, un compito oltre le possibilità dell'artista, che risolse la figura accentuando la monumentalità scultorea del personaggio, come si vede bene nel panneggio, e impostando una rotazione della testa e del busto, che appaiono tuttavia mortificate da un certo impaccio, dalla collocazione alta originaria (rispettata nell'allestimento della Galleria) non adattata per una visione da sott'in su e dall'ambientazione architettonica, entro una nicchia ombrosa troppo piccola, dalle forme tradizionali. Il nome dell'evangelista Marco si trova sul gradino ai suoi piedi.
L'opera, gigantesca, ha comunque un che di solenne ed epico, sostanzialmente nuovo per Firenze, di straordinaria evidenza plastica. La luce appare protagonista, con gli effetti di levigata brillantezza sulla braccia e sul ginocchio, e con l'ombra proiettata dall'evangeslita nella nicchia, che ne accentua il rilievo.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Storia e descrizione [modifica]L'opera proviene dalla chiesa di San Marco, dove decorava una delle due cappelle del coro, in pendant con un San Sebastiano, perduto, forse recentemnete individuato nella collezione Alaffre a Bézenac, in Francia. Se San Marco rimase nella sua collocazione fino al 1690, il San Sebastiano veniva invece trasferito in sagrestia nel 1529, sostituendolo con l'Apparizione della Vergine a san Giacinto di Jacopo Ligozzi, e di lì a poco venduto al re di Francia, dove se ne persero le tracce.
Spostato col rifacimento barocco della chiesa, il San Marco fu richiesto dal gran principe Ferdinando de' Medici per la sua collezione, consegnandolo nel 1690, appunto. In chiesa venne lasciata una copia Antonio Franchi detto il Lucchese. Nel 1799 fu portato a Parigi dagli occupanti francesi e, dopo essere stato restaurato e trasportato su tela, aggiustando la forma del dipinto da centinata a rettangolare, tornò a Firenze nel 1816. Nell'allestimento della galleria da allora si trova in pendant ideale con la Pala di Poppi di Andrea del Sarto.
Col restauro del 1994 sono state asportate numerose ridipinture che creavano un effetto spento sui colori, quasi tendente al monocromo, riscoprendo l'originale brillantezza dei toni.
Ne esistono disegni preparatori allo Städel di Francoforte, al Courtauld Institute, al British Museum e al Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi.
È riferibile, in base ai dati stilistici, al 1515, dopo il ritorno del pittore da Roma, data confermata anche da alcune tracce archivistiche. Le dimensioni straordinarie dell'evangelista appaiono dopotutto come il tentativo di emulare i Profeti della volta della cappella Sistina di Michelangelo o l'Isaia di Raffaello, un compito oltre le possibilità dell'artista, che risolse la figura accentuando la monumentalità scultorea del personaggio, come si vede bene nel panneggio, e impostando una rotazione della testa e del busto, che appaiono tuttavia mortificate da un certo impaccio, dalla collocazione alta originaria (rispettata nell'allestimento della Galleria) non adattata per una visione da sott'in su e dall'ambientazione architettonica, entro una nicchia ombrosa troppo piccola, dalle forme tradizionali. Il nome dell'evangelista Marco si trova sul gradino ai suoi piedi.
L'opera, gigantesca, ha comunque un che di solenne ed epico, sostanzialmente nuovo per Firenze, di straordinaria evidenza plastica. La luce appare protagonista, con gli effetti di levigata brillantezza sulla braccia e sul ginocchio, e con l'ombra proiettata dall'evangeslita nella nicchia, che ne accentua il rilievo.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Fra Bartolomeo - Compianto sul Cristo Morto
Il Compianto sul Cristo morto (o Pietà di Pitti) è un dipinto a olio su tavola (158x199 cm) di Fra Bartolomeo, databile al 1511-1512 circa.
Storia [modifica]L'opera proviene dalla distrutta chiesa di San Gallo a Firenze, dove decorava l'altare maggiore. Con l'ultimo restauro si rimosse un fondo scuro attorno alle figure in primo piano, riscoprendo le figure mutile dei due apostoli e confermando la pesante riduzione di grandezza della pala. Le misure riportate nell'inventario del 1667 dimostrano come a tale date la decurtazione fosse già stata effettuata. Prima della distruzione del monastero per l'Assedio di Firenze (1530), la pala finì nella chiesa di San Jacopo tra i Fossi, dove subì un'alluvione che ha lasciato tracce sulla superficie pittorica nel 1557.
Vasari ne attribuì il completamento a Giuliano Bugiardini, sbagliandosi però probabilmente con la Pietà destinata alla Certosa di Pavia ma ivi mai giunta, che era stata iniziata da Filippino Lippi e poi completata probabilmente da Fra Bartolomeo e dal Bugiardini. In occasione del restauro si è infatti appurato l'omogeneità della mano che ha dipinto la pala e se ne anticipata la datazione al 1511-1512, contro l'ipotesi tradizionale che la voleva del 1513-1514, dopo il viaggio a Roma.
Descrizione [modifica]L'opera mostra un'evidente influenza del Compianto sul Cristo morto di Perugino, all'epoca in un'altra chiesa fiorentina e oggi nello stesso museo. Analoga è infatti la disposizione delle figure di Gesù, Maria e di colui che regge il corpo di Cristo, anche se Fra Bartolomeo ne accentuò la drammaticità. Ciò si evince soprattutto nella figura di Maria Maddalena, che abbraccia il piedi di Cristo piegandosi. Anche il paesaggio rimanda alla scuola umbra, con in lontananza il Golgota. Le forme solenni e classiche si dovettero ispirare all'esempio di Raffaello, mentre la ricchezza cromatica deriva da quanto ammirato durante un soggiorno a Venezia del 1508. Il disegno è al contempo sottile e plastico, cioè finissimo e capace lo stesso di restituire il senso del volume delle figure. La luce intensa fa stagliare infatti i personaggi, soprattutto la Maddalena, la cui manica bianca si accende di riflessi perlacei.
Gli apostoli che affiorano dietro sono san Pietro e forse Giacomo il maggiore.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Storia [modifica]L'opera proviene dalla distrutta chiesa di San Gallo a Firenze, dove decorava l'altare maggiore. Con l'ultimo restauro si rimosse un fondo scuro attorno alle figure in primo piano, riscoprendo le figure mutile dei due apostoli e confermando la pesante riduzione di grandezza della pala. Le misure riportate nell'inventario del 1667 dimostrano come a tale date la decurtazione fosse già stata effettuata. Prima della distruzione del monastero per l'Assedio di Firenze (1530), la pala finì nella chiesa di San Jacopo tra i Fossi, dove subì un'alluvione che ha lasciato tracce sulla superficie pittorica nel 1557.
Vasari ne attribuì il completamento a Giuliano Bugiardini, sbagliandosi però probabilmente con la Pietà destinata alla Certosa di Pavia ma ivi mai giunta, che era stata iniziata da Filippino Lippi e poi completata probabilmente da Fra Bartolomeo e dal Bugiardini. In occasione del restauro si è infatti appurato l'omogeneità della mano che ha dipinto la pala e se ne anticipata la datazione al 1511-1512, contro l'ipotesi tradizionale che la voleva del 1513-1514, dopo il viaggio a Roma.
Descrizione [modifica]L'opera mostra un'evidente influenza del Compianto sul Cristo morto di Perugino, all'epoca in un'altra chiesa fiorentina e oggi nello stesso museo. Analoga è infatti la disposizione delle figure di Gesù, Maria e di colui che regge il corpo di Cristo, anche se Fra Bartolomeo ne accentuò la drammaticità. Ciò si evince soprattutto nella figura di Maria Maddalena, che abbraccia il piedi di Cristo piegandosi. Anche il paesaggio rimanda alla scuola umbra, con in lontananza il Golgota. Le forme solenni e classiche si dovettero ispirare all'esempio di Raffaello, mentre la ricchezza cromatica deriva da quanto ammirato durante un soggiorno a Venezia del 1508. Il disegno è al contempo sottile e plastico, cioè finissimo e capace lo stesso di restituire il senso del volume delle figure. La luce intensa fa stagliare infatti i personaggi, soprattutto la Maddalena, la cui manica bianca si accende di riflessi perlacei.
Gli apostoli che affiorano dietro sono san Pietro e forse Giacomo il maggiore.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Fra Bartolomeo - Matrimonio mistico di Santa Caterina
Il Matrimonio mistico di santa Caterina da Siena e santi (o Pala Pitti) è un dipinto a olio su tavola (356x270 cm) di Fra Bartolomeo, firmato e datato 1512.
Storia [modifica]L'opera venne realizzata in sostituzione di un'altra pala (oggi al Louvre) dipinta due anni prima e regalata all'ambasciatore del re di Francia nel 1512. Fra Bartolomeo mise di nuovo mano al soggetto, destinato all'altare di santa Caterina nella chiesa di San Marco, aggiornando lo schema iniziale e rendendolo ancora più monumentale, facendone un vero e proprio capolavoro. Un documento del 5 gennaio 1513 (che secondo il sistema ab incarnatione era ancora il 1512) riporta come a quella data la pala dovesse ancora essere installata in chiesa.
Probabilmente Fra Bartolomeo vi lavorò da solo, poco prima o appena dopo lo scioglimento del sodalizio con Mariotto Albertinelli.
Vasari vide l'opera e si soffermò a lungo sulla sua descrizione, lodando lo schema prospettico, il colorito degli angeli, lo sfumato leonardesco "negli scuri, dove adoprò fumo da stampatori, e nero di avorio abruciato".
Descrizione [modifica]L'opera mostra l'insolita iconografia del matrimonio mistico di santa Caterina da Siena, ricalcato sull'episodio riguardante l'omonima santa Caterina d'Alessandria, in uso come soggetto dal medioevo.
La scena è ambientata entro la nicchia di una chiesa e sotto una tenda retta da angeli, imitante la Madonna del Baldacchino di Raffaello. A Raffaello si rifà anche la disposizione semicircolare dei santi attorno al trono di Maria, ben tredici, che esplorano la spazialità disponibile. Evidenti sone ampie campiture di colore che sono tra le caratteristiche più tipiche dello stile di Fra Bartolomeo, unite alla monumentalità dei personaggi e all'atmosfera solenne e pacata, dove i movimenti appaiono rallentati.
Spiccano ai lati due santi dalle figure solenni e maestose, ispirate a Michelangelo: san Giorgio e san Bartolomeo. Gli angioletti musicanti, col liuto e con la lira alla base del trono, sono un omaggio all'arte veneziana di Giovanni Bellini, in particolare la Pala di San Zaccaria, vista in occasione del viaggio in Laguna del 1508.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Storia [modifica]L'opera venne realizzata in sostituzione di un'altra pala (oggi al Louvre) dipinta due anni prima e regalata all'ambasciatore del re di Francia nel 1512. Fra Bartolomeo mise di nuovo mano al soggetto, destinato all'altare di santa Caterina nella chiesa di San Marco, aggiornando lo schema iniziale e rendendolo ancora più monumentale, facendone un vero e proprio capolavoro. Un documento del 5 gennaio 1513 (che secondo il sistema ab incarnatione era ancora il 1512) riporta come a quella data la pala dovesse ancora essere installata in chiesa.
Probabilmente Fra Bartolomeo vi lavorò da solo, poco prima o appena dopo lo scioglimento del sodalizio con Mariotto Albertinelli.
Vasari vide l'opera e si soffermò a lungo sulla sua descrizione, lodando lo schema prospettico, il colorito degli angeli, lo sfumato leonardesco "negli scuri, dove adoprò fumo da stampatori, e nero di avorio abruciato".
Descrizione [modifica]L'opera mostra l'insolita iconografia del matrimonio mistico di santa Caterina da Siena, ricalcato sull'episodio riguardante l'omonima santa Caterina d'Alessandria, in uso come soggetto dal medioevo.
La scena è ambientata entro la nicchia di una chiesa e sotto una tenda retta da angeli, imitante la Madonna del Baldacchino di Raffaello. A Raffaello si rifà anche la disposizione semicircolare dei santi attorno al trono di Maria, ben tredici, che esplorano la spazialità disponibile. Evidenti sone ampie campiture di colore che sono tra le caratteristiche più tipiche dello stile di Fra Bartolomeo, unite alla monumentalità dei personaggi e all'atmosfera solenne e pacata, dove i movimenti appaiono rallentati.
Spiccano ai lati due santi dalle figure solenni e maestose, ispirate a Michelangelo: san Giorgio e san Bartolomeo. Gli angioletti musicanti, col liuto e con la lira alla base del trono, sono un omaggio all'arte veneziana di Giovanni Bellini, in particolare la Pala di San Zaccaria, vista in occasione del viaggio in Laguna del 1508.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Fra Bartolomeo - Il Salvator Mundi
l Salvator Mundi con i quattro evangelisti è un dipinto a olio su tavola trasportata su tela (203,5x282 cm) di Fra Bartolomeo, databile al 1514-1516 circa e conservato nella Galleria Palatina a Firenze.
Storia [modifica]Come ricorda Vasari, il mercante fiorentino Salvatore Billi commissionò a Fra Bartolomeo la tavola del Salvatore (riferimento al nome del committente) con altri personaggi e due Profeti in tavole separate per la sua cappella collocata sotto l'organo della Santissima Annunziata a Firenze. La cappella era stata concessa il 17 luglio 1486 e verso il 1516 era stata trasformata con un impianto marmoreo disegnato da Piero di Jacopo Rosselli, ispirandosi a Baccio d'Agnolo e Michelangelo.
Verso il 1631 i Soldani, divenuti nel frattempo proprietari della cappella, cedettero al cardinale Carlo de' Medici le tre tavole, collocando nella cappella un San Roccodi Veit Stoss e una copia del Salvatore opera forse dell'Empoli, tavola oggi in cattivo stato di conservazione conservata nei depositi di Palazzo Pitti.
I tre dipinti originali vennero portati nel Casino di San Marco, ed entro il 1728 la tavola centrale era nell'appartamento del Gran Principe Ferdinando de' Medici, comependant alla Madonna del Baldacchino di Raffaello. L'opera del Sanzio era arrivata nel 1687 e in una data vicina dovette arrivare anche il Salvatore. Nel 1799 la tavola fu rastrellata dai francesi e portata a Parigi dove, dopo un primo restauro nel 1801, fu trasferita su tela causando vari danni alla superficie pittorica (1806-1807); in quell'occasione se ne trasformò anche la forma, aggiungendo le due ali superiori che diedero alla pala la forma quadrata anziché centinata. Tornò nel 1816 con la Restaurazione.
I due profeti invece rimasero da un'epoca imprecisabile nella Tribuna degli Uffizi e nel secondo dopoguerra, con la ristrutturazione delle collezioni fiorentine, vennero destinati alla Galleria dell'Accademia.
Descrizione e stile [modifica]La cappella marmorea all'Annunziata è tutt'ora esistente, e mostra una nicchia profonda con volta a botte affiancata da due semicolonne tuscaniche, due nicchiette e altre due semicolonne. Esse reggono una trabeazione su grosse mensole, su cui si trova l'organo della navata destra della basilica. Il tutto simula un arco di trionfo, con varie decorazioni a bassorilievo.
Isaia, profeta dell'annunciazione, occupava il riquadro sulla sinistra, il Salvatore la nicchia centrale e Giobbe, profeta della resurrezione, il lato destro. I cartigli dei due profeti si riferiscono strettamente alla visione del Salvatore: "Ecce Deus Salvator Meus" (Isaia 12:3) e "Ipse Erit Salvator Meus" (Giobbe 3:16). Nella sua cornice architettonica originale il Salvatore guadagnava in profondità e con gli elementi bloccati nello spazio, all'insegna di una solenne monumentalità.
Iconograficamente l'immagine manifesta la resurrezione di Cristo trionfante e la salvezza che egli offre, attraverso l'eucarestia, a cui si riferiscono l'iscrizione "Salvator Mu[n]D[i]", il calice, la patera e l'immagine circolare del mondo retto dai due putti, tutti sull'asse centrale. In esso, simbolo del potere di Gesù sulla Terra e del suo ruolo creatore, sono rappresentati i tre elementi dell'armonia universale: acqua, terra e cielo, illuminati dal sole nascente della nuova era cristiana.
I quattro evangelisti, attorno alla nicchia, formano un moto circolare attorno al Cristo, e simboleggiano i quattro punti cardinali e non hanno i tradizionali riferimenti al tetramorfo.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Storia [modifica]Come ricorda Vasari, il mercante fiorentino Salvatore Billi commissionò a Fra Bartolomeo la tavola del Salvatore (riferimento al nome del committente) con altri personaggi e due Profeti in tavole separate per la sua cappella collocata sotto l'organo della Santissima Annunziata a Firenze. La cappella era stata concessa il 17 luglio 1486 e verso il 1516 era stata trasformata con un impianto marmoreo disegnato da Piero di Jacopo Rosselli, ispirandosi a Baccio d'Agnolo e Michelangelo.
Verso il 1631 i Soldani, divenuti nel frattempo proprietari della cappella, cedettero al cardinale Carlo de' Medici le tre tavole, collocando nella cappella un San Roccodi Veit Stoss e una copia del Salvatore opera forse dell'Empoli, tavola oggi in cattivo stato di conservazione conservata nei depositi di Palazzo Pitti.
I tre dipinti originali vennero portati nel Casino di San Marco, ed entro il 1728 la tavola centrale era nell'appartamento del Gran Principe Ferdinando de' Medici, comependant alla Madonna del Baldacchino di Raffaello. L'opera del Sanzio era arrivata nel 1687 e in una data vicina dovette arrivare anche il Salvatore. Nel 1799 la tavola fu rastrellata dai francesi e portata a Parigi dove, dopo un primo restauro nel 1801, fu trasferita su tela causando vari danni alla superficie pittorica (1806-1807); in quell'occasione se ne trasformò anche la forma, aggiungendo le due ali superiori che diedero alla pala la forma quadrata anziché centinata. Tornò nel 1816 con la Restaurazione.
I due profeti invece rimasero da un'epoca imprecisabile nella Tribuna degli Uffizi e nel secondo dopoguerra, con la ristrutturazione delle collezioni fiorentine, vennero destinati alla Galleria dell'Accademia.
Descrizione e stile [modifica]La cappella marmorea all'Annunziata è tutt'ora esistente, e mostra una nicchia profonda con volta a botte affiancata da due semicolonne tuscaniche, due nicchiette e altre due semicolonne. Esse reggono una trabeazione su grosse mensole, su cui si trova l'organo della navata destra della basilica. Il tutto simula un arco di trionfo, con varie decorazioni a bassorilievo.
Isaia, profeta dell'annunciazione, occupava il riquadro sulla sinistra, il Salvatore la nicchia centrale e Giobbe, profeta della resurrezione, il lato destro. I cartigli dei due profeti si riferiscono strettamente alla visione del Salvatore: "Ecce Deus Salvator Meus" (Isaia 12:3) e "Ipse Erit Salvator Meus" (Giobbe 3:16). Nella sua cornice architettonica originale il Salvatore guadagnava in profondità e con gli elementi bloccati nello spazio, all'insegna di una solenne monumentalità.
Iconograficamente l'immagine manifesta la resurrezione di Cristo trionfante e la salvezza che egli offre, attraverso l'eucarestia, a cui si riferiscono l'iscrizione "Salvator Mu[n]D[i]", il calice, la patera e l'immagine circolare del mondo retto dai due putti, tutti sull'asse centrale. In esso, simbolo del potere di Gesù sulla Terra e del suo ruolo creatore, sono rappresentati i tre elementi dell'armonia universale: acqua, terra e cielo, illuminati dal sole nascente della nuova era cristiana.
I quattro evangelisti, attorno alla nicchia, formano un moto circolare attorno al Cristo, e simboleggiano i quattro punti cardinali e non hanno i tradizionali riferimenti al tetramorfo.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Giorgione - Le tre Età
Le Tre età dell'uomo (conosciuto anche come la Lezione di canto) è un dipinto a olio su tela (62x77 cm) di Giorgione, databile al 1500-1501 circa e custodito nella Galleria Palatina a Firenze.
I
Storia [modifica]L'opera viene identificata con quella descritta da Marcantonio Michiel nel Camerino delle anticaglie di Gabriele Vendramin, citata anche in inventario del 1569. Nel 1657 passò nelle collezioni del pittore Niccolò Regnier, in parte poi acquistate dai Medici tra il 1666 e il 1675, entrando nelle collezioni del gran principe Ferdinando de' Medici. La tavola col triplice ritratto venne inizialmente attribuita a Palma il Vecchio, poi riferita alla "maniera lombarda". Nel 1880 Morelli fu il primo a riattribuirla a Giorgione, ipotesi per lo più condivisa dalla critica.
Descrizione e stile [modifica]Il soggetto del dipinto è tutt'altro che chiaro. Il titolo con cui oggi è più noto è seicentesco, ma altre ipotesi di individuazione del soggetto hanno parlato di una Lezione di canto o dell'Educazione del giovane Marco Aurelio. Talvolta il giovane sulla destra viene identificato con il ritratto del musicista Philippe Verdelot (Salmen, 1982).
Nella scena sono presenti tre personaggi, di età differenti, su fondo scuro: il giovane al centro legge un foglio su cui sono vergate due righe di un pentagramma, l'adulto alla sua sinistra indica lo stesso spartito ed un vecchio guarda l'osservatore[1]. Presumibilmente si tratta dello stesso uomo, rappresentato in tre momenti della sua vita[2].
Il fondo scuro fa risaltare l'incisiva scelta cromatica applicata ai personaggi; le vesti e gli incarnati emergono dallo sfondo gradualmente, con il procedimento dello "sfumato" tipicamente Leonardesco[1]. Anche la stesura pittorica con sottili velature deriva da Leonardo, con 'attenzione meticolosa nei dettagli, come le capigliature dipinte spesso con sottilissime pennellate[3].
L'elemento allegorico trainante, spesso presente nei quadri di Giorgione, è in questo caso la musica, espressione dell'animo stesso dell'uomo e dell'armonia che lega l'esistenza[1].Paragrap
Perugino - Madonna del Sacco.
La Madonna del Sacco (Madonna, un angelo e san Giovannino in adorazione del Bambino) è un dipinto a olio su tavola (88x66 cm) di Pietro Perugino, databile al 1495-1500 circa.
IStoria [modifica]Il dipinto viene in genere considerato una replica autografa della Madonna della Pala della Certosa di Pavia (Cavalcaselle e la critica recente).
Descrizione e stile [modifica]La Madonna campeggia al centro di una vasto paesaggio di dolci colline digradanti in lontananza, lumeggiate d'oro. Il suo manto copre un grosso sacco bianco da viaggio, sul quale sta seduto il Bambino, retto da un angelo. Dietro la Vergine, leggermente discosto, bilancia simmetricamente la scena san Giovannino, a sua volta inginocchiato in preghiera.
La scena è impostata secondo uno schema pacato e piacevole, ordinato dalle regole della simmetria e delle rispondenze ritmiche, come si nota nelle inclinazioni alternate delle teste. La Madonna è tipica della produzione matura del pittore, che lasciò il posto all'elegante e raffinata giovinetta in favore di una donna più matura, semplice e severa, in linea con il clima spirituale savonaroliano. La ricchezza cromatica, la salda plasticità e la monumentalità delle forme sembrano ormai preannunciare l'attività di Raffaello, il più grande degli allievi del pittore.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
IStoria [modifica]Il dipinto viene in genere considerato una replica autografa della Madonna della Pala della Certosa di Pavia (Cavalcaselle e la critica recente).
Descrizione e stile [modifica]La Madonna campeggia al centro di una vasto paesaggio di dolci colline digradanti in lontananza, lumeggiate d'oro. Il suo manto copre un grosso sacco bianco da viaggio, sul quale sta seduto il Bambino, retto da un angelo. Dietro la Vergine, leggermente discosto, bilancia simmetricamente la scena san Giovannino, a sua volta inginocchiato in preghiera.
La scena è impostata secondo uno schema pacato e piacevole, ordinato dalle regole della simmetria e delle rispondenze ritmiche, come si nota nelle inclinazioni alternate delle teste. La Madonna è tipica della produzione matura del pittore, che lasciò il posto all'elegante e raffinata giovinetta in favore di una donna più matura, semplice e severa, in linea con il clima spirituale savonaroliano. La ricchezza cromatica, la salda plasticità e la monumentalità delle forme sembrano ormai preannunciare l'attività di Raffaello, il più grande degli allievi del pittore.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Perugino: Madonna col Bambino
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La Maria Maddalena è un dipinto a olio su tavola (47x34 cm) di Pietro Perugino, databile al 1500 circa.
Storia [modifica]Il dipinto è elencato nell'inventario di palazzo Pitti del 1641, con attribuzione al Perugino, ma già in quello del 1691 è assegnato a Raffaello. Dal 1695 poi è sempre ricordato come pendant al Ritratto di Francesco Maria della Rovere agli Uffizi, generalmente assegnato oggi al Sanzio.
Dal 1797 al 1803 venne inviato a Palermo, con attribuzione al Franciabigio, ma in quel periodo viene avanzata anche l'ipotesi di un'opera di Leonardo da Vinci(ripresa da Luigi Lanzi). In seguito venne assegnata a Jacopo Francia (inventari del 1810, 1815 e 1829).
L'attribuzione al Perugino oggi è comunemente accettata dalla critica moderna.
Descrizione e stile [modifica]Maria Maddalena è ritratta di tre quarti, rivolta a sinistra con lo sguardo trasognato in una silenziosa contemplazione guardando in basso verso destra. L'effigie della santa è ripresa dall'inconfondibile fisionomia di Chiara Fancelli, moglie di Perugino e modella di tante Madonne, sia del marito che del giovane Raffaello. Lo stile del dipinto è dolce e accattivante, paradigamtico di quelle caratteristiche che determinarono il successo dell'artista.
La figura emerge da uno sfondo scuro con toni morbidi e modulati, debitori dello sfumato leonardesco, mentre la posa, con le mani appoggiate su un immaginario parapetto, riprende l'esempio della scuola fiamminga, in particolare di opere come quelle di Hans Memling. Finissima è la cura del dettaglio, come la veste bordata di pelliccia, resa con sottilissimi tratti in punta di pennello. L'opera è confrontabile con una Madonna al Louvre, pure con sfondo scuro, attribuita a quegli stessi anni.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Storia [modifica]Il dipinto è elencato nell'inventario di palazzo Pitti del 1641, con attribuzione al Perugino, ma già in quello del 1691 è assegnato a Raffaello. Dal 1695 poi è sempre ricordato come pendant al Ritratto di Francesco Maria della Rovere agli Uffizi, generalmente assegnato oggi al Sanzio.
Dal 1797 al 1803 venne inviato a Palermo, con attribuzione al Franciabigio, ma in quel periodo viene avanzata anche l'ipotesi di un'opera di Leonardo da Vinci(ripresa da Luigi Lanzi). In seguito venne assegnata a Jacopo Francia (inventari del 1810, 1815 e 1829).
L'attribuzione al Perugino oggi è comunemente accettata dalla critica moderna.
Descrizione e stile [modifica]Maria Maddalena è ritratta di tre quarti, rivolta a sinistra con lo sguardo trasognato in una silenziosa contemplazione guardando in basso verso destra. L'effigie della santa è ripresa dall'inconfondibile fisionomia di Chiara Fancelli, moglie di Perugino e modella di tante Madonne, sia del marito che del giovane Raffaello. Lo stile del dipinto è dolce e accattivante, paradigamtico di quelle caratteristiche che determinarono il successo dell'artista.
La figura emerge da uno sfondo scuro con toni morbidi e modulati, debitori dello sfumato leonardesco, mentre la posa, con le mani appoggiate su un immaginario parapetto, riprende l'esempio della scuola fiamminga, in particolare di opere come quelle di Hans Memling. Finissima è la cura del dettaglio, come la veste bordata di pelliccia, resa con sottilissimi tratti in punta di pennello. L'opera è confrontabile con una Madonna al Louvre, pure con sfondo scuro, attribuita a quegli stessi anni.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Raffaello - Ritratto di Fedra Inghirani
Note [modifica]Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.Dell'opera esistono due versioni sulle quali la critica è divisa nell'individuare il prototipo. Una nella Galleria Palatina di Firenze (90x62 cm) e una nell'Isabella Stewart Gardner Museum di Boston (89,7x62,2 cm).
I
Storia [modifica]Tommaso Inghirami, detto "Fedra", raffigurato al suo scrittoio, era un dotto umanista nato a Volterra nel 1470, al servizio di Papa Leone X.
Il ritratto di Boston proviene da Casa Inghirami a Volterra, dove restò fino agli inizi del Novecento, prima di essere acquistato dalla sede odierna. Il dipinto fiorentino faceva invece parte della collezione del cardinale Leopoldo de' Medici, e dopo la sua morte entrò a far parte della quadreria di Palazzo Pitti; dal 1799 al 1815 fu aParigi per le spoliazioni napoleoniche[1].
Accurati esami scientifici sembrano oggi far prevalere la versione fiorentina, per la migliore qualità pittorica, introspezione psicologica e forza espressiva[2]. L'opera di Boston potrebbe quindi essere una copia del dipinto eseguita per la famiglia.
Descrizione e stile [modifica]Su uno sfondo scuro, il protagonista è rappresentato seduto a una scrivania con il volto di tre quarti, girato a sinistra e rivolto leggermente al cielo: si tratta di una posa derivata dall'iconografia degli evangelisti[2].
Dominano i colori rossi della veste, della berretta e della copertina del grosso libro appoggiato su un cofanetto. Sulla scrivania si trovano inoltre un blocco di fogli e un calamaio, dove l'Inghirami sembra aver appena intinto la penna, mentre attende l'ispirazione per cominciare a scrivere. La posa, nonostante una certa ufficialità, non appare rigida o schematica, anzi il letterato sembra colto in un momento della sua normale attività quotidiana, con una notevole attenzione alla rappresentazione somatica, compreso il dettaglio dello strabismo sull'occhio destro[2].
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Il Ritratto di Agnolo Doni è un dipinto a olio su tavola (65x45 cm) di Raffaello Sanzio, databile al 1506 circa.
IStoria [modifica]Il ritratto venne commissionato dallo stesso Agnolo Doni, ricco mercante e mecenate fiorentino, assieme a un ritratto della moglie Maddalena Strozzi, dopo il matrimonio nel 1503. Lo Stesso Doni aveva fatto dipingere a Michelangelo il famoso Tondo Doni, oggi agli Uffizi.
I due ritratti, grazie alla straordinaria introspezione che fece scuola, ebbero un duraturo successo: tra i numerosi che Raffaello dovette eseguire a Firenze sono gli unici di cui si sia tramandato il nome, fin dai tempi di Vasari.
L'opera rimase in possesso dei discendenti fino al 1826, quando fu ceduta al granduca Leopoldo II di Toscana. Rispetto al ritratto della moglie, il ritratto di Agnolo è lievemente anteriore.
Descrizione e stile [modifica]Il soggetto è ritratto a mezza figura, seduto su un balcone che rivela, oltre il parapetto, un magnifico panorama. Il taglio è estremamente monumentale e il personaggio, ritratto col busto di tre quarti verso destra e la testa girata verso lo spettatore, è caratterizzato da una sciolta naturalezza. Acuta è la rappresentazione dello sguardo, che dimostra l'interesse verso la psicologia.
La sua condizione di ricco borghese è infatti testimoniata, oltre che dalla ricercatezza dell'abito dagli anelli alle mani, dallo sguardo sicuro e diretto. La berretta scura e i capelli lunghi, di colore castano, incorniciano il volto, in cui il dato fisico è trattato con estrema fedeltà e cura, secondo i modelli nordici filtrati daPerugino e da altri artisti italiani. Il segno minuto del pennello si manifesta ad esempio nei sottilissimi capelli crespi. Le maniche rosse della veste, ampie e di pesante stoffa, escono da una casacca scura, tenuta in vita da una cintura, mentre ai polsi e al collo sporge la camicia bianca. I dettagli tuttavia non rubano mai la scena al fulcro del dipinto, che è il volto del protagonista e il suo stato d'animo, grazie anche alle impercettibili linee di forza e al gioco di contrasti tra chiaro e scuro, che esaltano il viso. Le colline ad esempio degradano da sinistra verso destra, assecondando la linea di forza che va dal collo di Agnolo Doni all'avambraccio sinistro. Due nuvolette in cielo bilanciano ad arte gli angoli vuoti del dipinto.
I colori, sia nella figura che nello sfondo, sono esemplari delle ricerche di Raffaello in quegli anni, intonandosi a gradazioni sempre più corpose e d'effetto.
Sul retro dei due ritratti si trova una rappresentazione a monocromo del mito di Deucalione e Pirra, in particolare il diluvio inviato dagli dei, attribuito a un tardo seguace del Sanzio
IStoria [modifica]Il ritratto venne commissionato dallo stesso Agnolo Doni, ricco mercante e mecenate fiorentino, assieme a un ritratto della moglie Maddalena Strozzi, dopo il matrimonio nel 1503. Lo Stesso Doni aveva fatto dipingere a Michelangelo il famoso Tondo Doni, oggi agli Uffizi.
I due ritratti, grazie alla straordinaria introspezione che fece scuola, ebbero un duraturo successo: tra i numerosi che Raffaello dovette eseguire a Firenze sono gli unici di cui si sia tramandato il nome, fin dai tempi di Vasari.
L'opera rimase in possesso dei discendenti fino al 1826, quando fu ceduta al granduca Leopoldo II di Toscana. Rispetto al ritratto della moglie, il ritratto di Agnolo è lievemente anteriore.
Descrizione e stile [modifica]Il soggetto è ritratto a mezza figura, seduto su un balcone che rivela, oltre il parapetto, un magnifico panorama. Il taglio è estremamente monumentale e il personaggio, ritratto col busto di tre quarti verso destra e la testa girata verso lo spettatore, è caratterizzato da una sciolta naturalezza. Acuta è la rappresentazione dello sguardo, che dimostra l'interesse verso la psicologia.
La sua condizione di ricco borghese è infatti testimoniata, oltre che dalla ricercatezza dell'abito dagli anelli alle mani, dallo sguardo sicuro e diretto. La berretta scura e i capelli lunghi, di colore castano, incorniciano il volto, in cui il dato fisico è trattato con estrema fedeltà e cura, secondo i modelli nordici filtrati daPerugino e da altri artisti italiani. Il segno minuto del pennello si manifesta ad esempio nei sottilissimi capelli crespi. Le maniche rosse della veste, ampie e di pesante stoffa, escono da una casacca scura, tenuta in vita da una cintura, mentre ai polsi e al collo sporge la camicia bianca. I dettagli tuttavia non rubano mai la scena al fulcro del dipinto, che è il volto del protagonista e il suo stato d'animo, grazie anche alle impercettibili linee di forza e al gioco di contrasti tra chiaro e scuro, che esaltano il viso. Le colline ad esempio degradano da sinistra verso destra, assecondando la linea di forza che va dal collo di Agnolo Doni all'avambraccio sinistro. Due nuvolette in cielo bilanciano ad arte gli angoli vuoti del dipinto.
I colori, sia nella figura che nello sfondo, sono esemplari delle ricerche di Raffaello in quegli anni, intonandosi a gradazioni sempre più corpose e d'effetto.
Sul retro dei due ritratti si trova una rappresentazione a monocromo del mito di Deucalione e Pirra, in particolare il diluvio inviato dagli dei, attribuito a un tardo seguace del Sanzio
Raffaello - Ritratto di Maddalena Strozzi
Il Ritratto di Maddalena Strozzi è un dipinto a olio su tavola (63x45 cm) di Raffaello Sanzio, databile al 1506 circa e conservato nella Galleria Palatina aFirenze.
IRitratto di Maddalena Strozzi è un dipinto a olio su tavola (63x45 cm) di Raffaello Sanzio, databile al 1506 circa e conservato nella Galleria Palatina aFirenze.
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Storia [modifica]Il ritratto venne commissionato dal marito della donna, Agnolo Doni, ricco mercante e mecenate fiorentino, assieme a un proprio ritratto, dopo il matrimonio nel1503. Lo stesso Doni aveva fatto dipingere a Michelangelo il famoso Tondo Doni, oggi agli Uffizi.
I due ritratti, grazie alla straordinaria introspezione che fece scuola, ebbero un duraturo successo: tra i numerosi che Raffaello dovette eseguire a Firenze, sono gli unici di cui si sia tramandato il nome, fin dai tempi di Vasari.
L'opera rimase in possesso dei discendenti fino al 1826, quando fu ceduta al granduca Leopoldo II di Toscana. Rispetto al ritratto del marito, il ritratto di Maddalena è lievemente posteriore. Radiografie dell'opera hanno mostrato come essa fosse inizialmente ambientata in una stanza con finestra, e altri studi hanno dimostrato come le dimensioni della tavola vennero accorciate per adattarsi in dittico al ritratto del marito.
Descrizione e stile [modifica]Il ritratto raffigura la donna seduta a un balcone che rivela, oltre il parapetto, un magnifico panorama, che nel progetto originario era invece un interno. Il taglio è estremamente monumentale e il personaggio, ritratto col busto di tre quarti verso sinistra e la testa girata verso lo spettatore, è caratterizzato da una sciolta naturalezza.
L'opera, nell'impostazione generale, è palesemente ispirata alla Gioconda (che Raffaello ebbe forse la possibilità di vedere in quegli anni) ma sicuramente manca di ogni evocazione allusiva o misteriosa tipica della ritrattistica di Leonardo da Vinci, prediligendo la rappresentazione fedele delle caratteristiche umane: infatti la figura si impone come presenza fisica, col viso pieno, con lo sguardo rivolto all'esterno, ben consapevole del prestigio del suo rango sociale.
Raffigurata in sontuose vesti, indossa preziosi gioielli che attestano le sue virtù. La collana portata con fierezza è un gioiello in cui incastonate tre pietre differenti, ognuna con un suo preciso significato: lo smeraldo indica la castità, il rubino indica la forza, lo zaffiro indica la purezza; la grossa perla della collana, a forma di goccia, è infine simbolo di fedeltà matrimoniale. Il vestito è tipico della moda dell'epoca, con ampie maniche estraibili, di colore azzurro e con damascature visibili in controluce: esempi pressoché identici si trovano anche nei ritrati raffaelleschi della Gravida e della Dama col liocorno. Quest'ultima è stata identificata da qualche storico come la vera Maddalena Strozzi, ipotesi per lo più scartata. Sulle spalle indossa un sottile velo trasparente.
Il dipinto, pur inserendosi nel preciso contesto della ritrattistica rinascimentale, rinuncia a raffigurare i "moti dell'animo", le caratteristiche spirituali e della personalità della donna raffigurata, per dare spazio a una figura più idealizzata e meno realistica rispetto a quella del ritratto del marito Agnolo Doni, come si conveniva ai ritratti femminili, evidenziando l'elevato status sociale.
Il paesaggio collinare è tipico della scuola umbra, con dolci colline che sfumano in lontananza, punteggiate da segni della presenza umana e da alberelli fronzuti.
I colori, sia nella figura che nello sfondo, sono esemplari delle ricerche di Raffaelo in quegli anni, intonandosi a gradazioni sempre più corpose e d'effetto.
Sul retro dei due ritratti si trova una rappresentazione a monocromo del mito di Deucalione e Pirra, attribuito a un tardo seguace del Sanzio; in particolare in questa tavola si vede il salvataggio dei due dal diluvio inviato dagli dei.
IRitratto di Maddalena Strozzi è un dipinto a olio su tavola (63x45 cm) di Raffaello Sanzio, databile al 1506 circa e conservato nella Galleria Palatina aFirenze.
I
Storia [modifica]Il ritratto venne commissionato dal marito della donna, Agnolo Doni, ricco mercante e mecenate fiorentino, assieme a un proprio ritratto, dopo il matrimonio nel1503. Lo stesso Doni aveva fatto dipingere a Michelangelo il famoso Tondo Doni, oggi agli Uffizi.
I due ritratti, grazie alla straordinaria introspezione che fece scuola, ebbero un duraturo successo: tra i numerosi che Raffaello dovette eseguire a Firenze, sono gli unici di cui si sia tramandato il nome, fin dai tempi di Vasari.
L'opera rimase in possesso dei discendenti fino al 1826, quando fu ceduta al granduca Leopoldo II di Toscana. Rispetto al ritratto del marito, il ritratto di Maddalena è lievemente posteriore. Radiografie dell'opera hanno mostrato come essa fosse inizialmente ambientata in una stanza con finestra, e altri studi hanno dimostrato come le dimensioni della tavola vennero accorciate per adattarsi in dittico al ritratto del marito.
Descrizione e stile [modifica]Il ritratto raffigura la donna seduta a un balcone che rivela, oltre il parapetto, un magnifico panorama, che nel progetto originario era invece un interno. Il taglio è estremamente monumentale e il personaggio, ritratto col busto di tre quarti verso sinistra e la testa girata verso lo spettatore, è caratterizzato da una sciolta naturalezza.
L'opera, nell'impostazione generale, è palesemente ispirata alla Gioconda (che Raffaello ebbe forse la possibilità di vedere in quegli anni) ma sicuramente manca di ogni evocazione allusiva o misteriosa tipica della ritrattistica di Leonardo da Vinci, prediligendo la rappresentazione fedele delle caratteristiche umane: infatti la figura si impone come presenza fisica, col viso pieno, con lo sguardo rivolto all'esterno, ben consapevole del prestigio del suo rango sociale.
Raffigurata in sontuose vesti, indossa preziosi gioielli che attestano le sue virtù. La collana portata con fierezza è un gioiello in cui incastonate tre pietre differenti, ognuna con un suo preciso significato: lo smeraldo indica la castità, il rubino indica la forza, lo zaffiro indica la purezza; la grossa perla della collana, a forma di goccia, è infine simbolo di fedeltà matrimoniale. Il vestito è tipico della moda dell'epoca, con ampie maniche estraibili, di colore azzurro e con damascature visibili in controluce: esempi pressoché identici si trovano anche nei ritrati raffaelleschi della Gravida e della Dama col liocorno. Quest'ultima è stata identificata da qualche storico come la vera Maddalena Strozzi, ipotesi per lo più scartata. Sulle spalle indossa un sottile velo trasparente.
Il dipinto, pur inserendosi nel preciso contesto della ritrattistica rinascimentale, rinuncia a raffigurare i "moti dell'animo", le caratteristiche spirituali e della personalità della donna raffigurata, per dare spazio a una figura più idealizzata e meno realistica rispetto a quella del ritratto del marito Agnolo Doni, come si conveniva ai ritratti femminili, evidenziando l'elevato status sociale.
Il paesaggio collinare è tipico della scuola umbra, con dolci colline che sfumano in lontananza, punteggiate da segni della presenza umana e da alberelli fronzuti.
I colori, sia nella figura che nello sfondo, sono esemplari delle ricerche di Raffaelo in quegli anni, intonandosi a gradazioni sempre più corpose e d'effetto.
Sul retro dei due ritratti si trova una rappresentazione a monocromo del mito di Deucalione e Pirra, attribuito a un tardo seguace del Sanzio; in particolare in questa tavola si vede il salvataggio dei due dal diluvio inviato dagli dei.
Raffaello - Madonna del Granduca
La Madonna del Granduca è un dipinto a olio su tavola (84,4x55,9 cm) di Raffaello, databile al 1504 circa.
La Madonna del Granduca è un dipinto a olio su tavola (84,4x55,9 cm) di Raffaello, databile al 1504 circa.
Storia [modifica]Non è nota la provenienza originaria del dipinto, eseguito probabilmente per una destinazione privata dal giovane Raffaello, giunto da poco a Firenze, verso il 1504. Fu acquistata alla fine del Settecento da Ferdinando III di Lorena, granduca di Toscana, su segnalazione del direttore delle Gallerie Fiorentine Tommaso Puccini. Nel 1799 è ricordata per la prima volta con certezza, quando Ferdinando, che era attaccatissimo all'opera tanto da portarla con sé anche in viaggio, se la fece spedire a Vienna, dove era riparato durante l'invasione napoleonica. L'opera ha assunto il suo nome proprio dalla predilezione che Ferdinando III aveva per essa.
Nel 1800 è ricordato un restauro di Vittorio Sampieri e dal 1815 fu sistemata a Palazzo Pitti nell'appartamento granducale, nella camera da letto, e poi in una delle sale affrescate da Pietro da Cortona, dove oggi si trova la Galleria. Nel 1821 fu trasferita temporaneamente agli Uffizi, dove Luisa Seedler ebbe l'autorizzazione di copiarla. Nel 1830 è di nuovo a Pitti, prima nella camera dell'arciduchessa Maria Luisa, poi in quella della granduchessa Maria Antonia. Negli inventari successivi è ricordata nella Sala di Apollo, nella Sala dell'Educazione di Giove (dal 1829 al 1859) e infine nella Sala di Saturno dalla fine del XIX secolo, dove si trova tutt'oggi.
L'attribuzione a Raffaello non è mai stata messa in dubbio, anzi è una delle più famose Madonne dipinte dal pittore. Si è dibattuto però sull'autografia dello sfondo scuro, che gli studi più recenti sembrano attribuire a un ripensamento dell'artista, assieme ad alcune pennellate scure che modellano il velo e i capelli. Una radiografia ha infatti svelato un diverso fondale originario, con una finestra ad arco sul lato destro e, poco sotto, un gradino o un sedile che attraversava orizzontalmente tutto il dipinto.
Descrizione e stile [modifica]La Madonna è raffigurata in piedi, con la tradizionale veste rossa e il manto azzurro e sembra avanzare verso lo spettatore emergendo dal fondo scuro, con decisa ma dolce monumentalità. Tiene in braccio il Bambin Gesù come a mostrarlo allo spettatore, con un'intima e misurata interazione di gesti tra i due. Perfettamente bilanciati sono i rapporti tra i volumi e la disposizione dei protagonisti, con una lieve rotazione di Maria verso destra a cui corrisponde un gesto analogo e in senso opposto di Gesù. Lo sguardo del Bambino accentua i risvolti sentimentali e devozionali dell'opera, rivolgendosi intensamente verso lo spettatore, invitato così a compartecipare alla sublime corrispondenza amorosa tra madre e figlio.
Il dilatarsi dei pieno di luce e d'ombra, con effetti di avvolgimento atmosferico, dimostra l'influenza dello sfumato di Leonardo da Vinci, che Raffaello ebbe modo di apprezzare nei primissimi anni a Firenze. Altri riferimenti rimandano alle Madonne dei Della Robbia.
L'estrema dolcezza della scena compone un raro equilibrio tra il senso di manifestazione divina e la forte umanizzazione del soggetto.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
La Madonna del Granduca è un dipinto a olio su tavola (84,4x55,9 cm) di Raffaello, databile al 1504 circa.
Storia [modifica]Non è nota la provenienza originaria del dipinto, eseguito probabilmente per una destinazione privata dal giovane Raffaello, giunto da poco a Firenze, verso il 1504. Fu acquistata alla fine del Settecento da Ferdinando III di Lorena, granduca di Toscana, su segnalazione del direttore delle Gallerie Fiorentine Tommaso Puccini. Nel 1799 è ricordata per la prima volta con certezza, quando Ferdinando, che era attaccatissimo all'opera tanto da portarla con sé anche in viaggio, se la fece spedire a Vienna, dove era riparato durante l'invasione napoleonica. L'opera ha assunto il suo nome proprio dalla predilezione che Ferdinando III aveva per essa.
Nel 1800 è ricordato un restauro di Vittorio Sampieri e dal 1815 fu sistemata a Palazzo Pitti nell'appartamento granducale, nella camera da letto, e poi in una delle sale affrescate da Pietro da Cortona, dove oggi si trova la Galleria. Nel 1821 fu trasferita temporaneamente agli Uffizi, dove Luisa Seedler ebbe l'autorizzazione di copiarla. Nel 1830 è di nuovo a Pitti, prima nella camera dell'arciduchessa Maria Luisa, poi in quella della granduchessa Maria Antonia. Negli inventari successivi è ricordata nella Sala di Apollo, nella Sala dell'Educazione di Giove (dal 1829 al 1859) e infine nella Sala di Saturno dalla fine del XIX secolo, dove si trova tutt'oggi.
L'attribuzione a Raffaello non è mai stata messa in dubbio, anzi è una delle più famose Madonne dipinte dal pittore. Si è dibattuto però sull'autografia dello sfondo scuro, che gli studi più recenti sembrano attribuire a un ripensamento dell'artista, assieme ad alcune pennellate scure che modellano il velo e i capelli. Una radiografia ha infatti svelato un diverso fondale originario, con una finestra ad arco sul lato destro e, poco sotto, un gradino o un sedile che attraversava orizzontalmente tutto il dipinto.
Descrizione e stile [modifica]La Madonna è raffigurata in piedi, con la tradizionale veste rossa e il manto azzurro e sembra avanzare verso lo spettatore emergendo dal fondo scuro, con decisa ma dolce monumentalità. Tiene in braccio il Bambin Gesù come a mostrarlo allo spettatore, con un'intima e misurata interazione di gesti tra i due. Perfettamente bilanciati sono i rapporti tra i volumi e la disposizione dei protagonisti, con una lieve rotazione di Maria verso destra a cui corrisponde un gesto analogo e in senso opposto di Gesù. Lo sguardo del Bambino accentua i risvolti sentimentali e devozionali dell'opera, rivolgendosi intensamente verso lo spettatore, invitato così a compartecipare alla sublime corrispondenza amorosa tra madre e figlio.
Il dilatarsi dei pieno di luce e d'ombra, con effetti di avvolgimento atmosferico, dimostra l'influenza dello sfumato di Leonardo da Vinci, che Raffaello ebbe modo di apprezzare nei primissimi anni a Firenze. Altri riferimenti rimandano alle Madonne dei Della Robbia.
L'estrema dolcezza della scena compone un raro equilibrio tra il senso di manifestazione divina e la forte umanizzazione del soggetto.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Raffaello - Visione di Ezechiele
La Visione di Ezechiele è un dipinto a olio su tavola (40,7x29,5 cm) di Raffaello Sanzio, databile al 1518 circa e conservato nella Galleria Palatina di Firenze.
Storia [modifica]L'opera è ricordata da Vasari in casa del conte Vincenzo Ercolani a Bologna: "un Cristo a uso di Giove in cielo e d’attorno i quattro Evangelisti, come gli descrive Ezechiel; uno a guisa di uomo e l’altro di leone e quello d’aquila e di bue, con un paesino sotto figurato per la terra, non meno raro e bello nella sua piccolezza che sieno l’altre cose sue nelle grandezze loro".
Esiste una traccia documentaria di un pagamento di 8 ducati d'oro dall'Ercolani al Sanzio nel maggio 1510, ma tutta la critica, dal Passavant in poi, ritiene che si trattasse di una semplice caparra, visto che i caratteri stilistici, così legati all'esempio delle Storie della Genesi di Michelangelo, impediscono di prendere in considerazione una datazione anteriore al 1516.
A Firenze almeno dal 1589, venne forse ceduta dal fratello minore dell'Ercolani a Francesco I de' Medici. Fu collocata agli Uffizi e nel 1697 è ricordata a Pitti, nell'appartamento del Gran Principe Ferdinando. Nel 1799 fu spogliata dai francesi, che la portarono a Parigi, fino al 1816.
Già attribuita a Giulio Romano, su disegno del maestro, è stata riassegnata alla piena autografia del maestro da recenti indagini, con una datazione che può oscillare entro il 1516 e il 1518. Riferita prevalentemente al 1518, sarebbe una delle ultime opere interamente autografe del Sanzio, assieme al Ritratto di Leone X tra i cardinali, che a quell'epoca era preso da mille impegni, tra cui i progetti architettonici per San Pietro in Vaticano, le Stanze e gli arazzi per la Sistina; può darsi però che il formato ridotto non richiedesse il consueto appoggio sugli aiuti.
Descrizione e stile [modifica]Nel Libro di Ezechiele è narrata la visione del tetramorfo da cui derivano i simboli dei quattro Evangelisti. Raffaello, accennando appena un riferimento a Ezechiele nella figuretta in basso investita da un raggio di luce, rappresentò la sfolgorante apparizione nel cielo di Dio contornato da due putti che gli reggono le braccia distese e poi l'angelo di san Matteo, il leone di san Marco, il bue (alato) di san Luca, e l'aquila di san Giovanni. Pare che la scena sia ispirata, nella composizione, da un rilievo su un sarcofago romano con il Giudizio di Paride a villa Medici, in cui una divinità levita seduta sopra un altro soggetto, in quel caso uno scudo[1]. Stupiscono soprattutto i bagliori luminosi che invadono la tavola, in cui si riconoscono, della stessa materia delle nubi, una moltitudine di cherubini.
Originalissima è l'impostazione che travalica le consuete leggi di prospettiva, impostando piuttosto un paesaggio a volo d'uccello, fatto di una riva marina o lacustre, con un albero lontano che che offre un metro di misurazione spaziale. Questa sottile lingua è popolata da due figurette, una illuminata in controluce in una radura, e una che incede verso di lui, forse con aureola, che sono state identificate forse come Ezechiele e come san Giovanni Evangelista che ricevette una visione a Patmos.
L'alta qualità dell'opera, il respiro grandioso della composizione, lo scorcio ardito delle gambe del Padre Eterno e la rispondenza perfetta tra stesura e disegno sottostante, rivelata in occasione dell'esame riflettografico del 1984, ne fanno un sicuro autografo raffaellesco[2].
Storia [modifica]L'opera è ricordata da Vasari in casa del conte Vincenzo Ercolani a Bologna: "un Cristo a uso di Giove in cielo e d’attorno i quattro Evangelisti, come gli descrive Ezechiel; uno a guisa di uomo e l’altro di leone e quello d’aquila e di bue, con un paesino sotto figurato per la terra, non meno raro e bello nella sua piccolezza che sieno l’altre cose sue nelle grandezze loro".
Esiste una traccia documentaria di un pagamento di 8 ducati d'oro dall'Ercolani al Sanzio nel maggio 1510, ma tutta la critica, dal Passavant in poi, ritiene che si trattasse di una semplice caparra, visto che i caratteri stilistici, così legati all'esempio delle Storie della Genesi di Michelangelo, impediscono di prendere in considerazione una datazione anteriore al 1516.
A Firenze almeno dal 1589, venne forse ceduta dal fratello minore dell'Ercolani a Francesco I de' Medici. Fu collocata agli Uffizi e nel 1697 è ricordata a Pitti, nell'appartamento del Gran Principe Ferdinando. Nel 1799 fu spogliata dai francesi, che la portarono a Parigi, fino al 1816.
Già attribuita a Giulio Romano, su disegno del maestro, è stata riassegnata alla piena autografia del maestro da recenti indagini, con una datazione che può oscillare entro il 1516 e il 1518. Riferita prevalentemente al 1518, sarebbe una delle ultime opere interamente autografe del Sanzio, assieme al Ritratto di Leone X tra i cardinali, che a quell'epoca era preso da mille impegni, tra cui i progetti architettonici per San Pietro in Vaticano, le Stanze e gli arazzi per la Sistina; può darsi però che il formato ridotto non richiedesse il consueto appoggio sugli aiuti.
Descrizione e stile [modifica]Nel Libro di Ezechiele è narrata la visione del tetramorfo da cui derivano i simboli dei quattro Evangelisti. Raffaello, accennando appena un riferimento a Ezechiele nella figuretta in basso investita da un raggio di luce, rappresentò la sfolgorante apparizione nel cielo di Dio contornato da due putti che gli reggono le braccia distese e poi l'angelo di san Matteo, il leone di san Marco, il bue (alato) di san Luca, e l'aquila di san Giovanni. Pare che la scena sia ispirata, nella composizione, da un rilievo su un sarcofago romano con il Giudizio di Paride a villa Medici, in cui una divinità levita seduta sopra un altro soggetto, in quel caso uno scudo[1]. Stupiscono soprattutto i bagliori luminosi che invadono la tavola, in cui si riconoscono, della stessa materia delle nubi, una moltitudine di cherubini.
Originalissima è l'impostazione che travalica le consuete leggi di prospettiva, impostando piuttosto un paesaggio a volo d'uccello, fatto di una riva marina o lacustre, con un albero lontano che che offre un metro di misurazione spaziale. Questa sottile lingua è popolata da due figurette, una illuminata in controluce in una radura, e una che incede verso di lui, forse con aureola, che sono state identificate forse come Ezechiele e come san Giovanni Evangelista che ricevette una visione a Patmos.
L'alta qualità dell'opera, il respiro grandioso della composizione, lo scorcio ardito delle gambe del Padre Eterno e la rispondenza perfetta tra stesura e disegno sottostante, rivelata in occasione dell'esame riflettografico del 1984, ne fanno un sicuro autografo raffaellesco[2].
Raffaello - Madonna della Seggiola
La Madonna della Seggiola è un dipinto a olio su tavola (diametro 71 cm) di Raffaello Sanzio, databile al 1513-1514 circa.
IStoria [modifica]L'opera si trova nelle collezioni medicee fin dalla prima metà del Cinquecento, ed era sicuramente nata per una collocazione privata, a giudicare dal formato della tavola. La presenza della "sedia camerale", la complessità compositive e altri dettagli hanno fatto ipotizzare che l'opera fosse nata su commissione dipapa Leone X, e da lui inviata ai suoi parenti a Firenze. Già agli Uffizi, venne destinata al palazzo reale dall'inizio Settecento. Negli inventari del 1723 e del1761 è infatti ricordata nella camera da letto del Gran Principe Ferdinando, mentre in seguito fu collocata nella Sala di Pietro da Cortona e, dopo il riordino leopoldino della quadreria, Sala di Giove (1771) e poi in quella di Marte (1793). Rastrellata durante le spoliazioni napoleoniche, fu a Parigi dal 1799 al 1815[1]. Tornata a Firenze, dal 1882 è nella Sala di Saturno[2].
La datazione si basa su elementi stilistici, e viene in genere riferita a dopo gli affreschi della Stanza di Eliodoro, verso il 1514: evidenti sono le citazioni michelangiolesche, nella plasticità prorompente e muscolare di alcuni dettagli, come il gomito del Bambino, tuttavia stemperati dal dolce stile raffaellesco. Vicina da un punto di vista stilistico e formale è la Madonna della Tenda[1].
Una tradizione popolare vuole che l'ispirazione per quest'opera venne all'artista mentre transitava per Velletri, dove vide una contadina del luogo che cullava il proprio figlio in grembo.
Descrizione [modifica]L'opera mostra Maria seduta su una sedia, da cui il nome, di tipo camerale. Essa si volta, col Bambino stretto in un tenero abbraccio, verso lo spettatore. Assiste san Giovannino, a destra, che rivolge un gesto di preghiera a Maria, affiorando dallo sfondo scuro.
La Madonna solleva una delle due gambe, coperte da un drappo azzurro, scivolando quasi in avanti, in modo da creare un ritmo circolare che sembra voler suggerire il dondolio del cullare[3]. Essa china il capo verso il figlio, facendo toccare le due teste, e creando una situazione di intima dolcezza familiare. Dietro la bellezza formale vi è uno schema compositivo geometrico, basato su curve e controcurve.
Estremamente curati sono i dettagli, che ne fanno un'opera di grande ricercatezza formale. Dal brillare delle frange dorate sullo schienale della sedia, ai ricami sullo scialle della Vergine, fino allo studiato accostamento di colori caldi e freddi (blu, verde, rosso, giallo), che fanno dell'opera "indubbiamente uno dei maggiori capolavori dell'arte rinascimentale"[3].
IStoria [modifica]L'opera si trova nelle collezioni medicee fin dalla prima metà del Cinquecento, ed era sicuramente nata per una collocazione privata, a giudicare dal formato della tavola. La presenza della "sedia camerale", la complessità compositive e altri dettagli hanno fatto ipotizzare che l'opera fosse nata su commissione dipapa Leone X, e da lui inviata ai suoi parenti a Firenze. Già agli Uffizi, venne destinata al palazzo reale dall'inizio Settecento. Negli inventari del 1723 e del1761 è infatti ricordata nella camera da letto del Gran Principe Ferdinando, mentre in seguito fu collocata nella Sala di Pietro da Cortona e, dopo il riordino leopoldino della quadreria, Sala di Giove (1771) e poi in quella di Marte (1793). Rastrellata durante le spoliazioni napoleoniche, fu a Parigi dal 1799 al 1815[1]. Tornata a Firenze, dal 1882 è nella Sala di Saturno[2].
La datazione si basa su elementi stilistici, e viene in genere riferita a dopo gli affreschi della Stanza di Eliodoro, verso il 1514: evidenti sono le citazioni michelangiolesche, nella plasticità prorompente e muscolare di alcuni dettagli, come il gomito del Bambino, tuttavia stemperati dal dolce stile raffaellesco. Vicina da un punto di vista stilistico e formale è la Madonna della Tenda[1].
Una tradizione popolare vuole che l'ispirazione per quest'opera venne all'artista mentre transitava per Velletri, dove vide una contadina del luogo che cullava il proprio figlio in grembo.
Descrizione [modifica]L'opera mostra Maria seduta su una sedia, da cui il nome, di tipo camerale. Essa si volta, col Bambino stretto in un tenero abbraccio, verso lo spettatore. Assiste san Giovannino, a destra, che rivolge un gesto di preghiera a Maria, affiorando dallo sfondo scuro.
La Madonna solleva una delle due gambe, coperte da un drappo azzurro, scivolando quasi in avanti, in modo da creare un ritmo circolare che sembra voler suggerire il dondolio del cullare[3]. Essa china il capo verso il figlio, facendo toccare le due teste, e creando una situazione di intima dolcezza familiare. Dietro la bellezza formale vi è uno schema compositivo geometrico, basato su curve e controcurve.
Estremamente curati sono i dettagli, che ne fanno un'opera di grande ricercatezza formale. Dal brillare delle frange dorate sullo schienale della sedia, ai ricami sullo scialle della Vergine, fino allo studiato accostamento di colori caldi e freddi (blu, verde, rosso, giallo), che fanno dell'opera "indubbiamente uno dei maggiori capolavori dell'arte rinascimentale"[3].
Raffaello - Ritratto del Cardinal Bibbiena.
Il Ritratto del cardinal Bibbiena è un dipinto a olio su tela (76x107 cm) di Raffaello e aiuti, databile al 1516 circa.
Storia [modifica]L'opera, sebbene in passato ricordata come proveniente da Urbino, è oggi solitamente identificata come quella vista da Vasari in casa Dovizi a Bibbiena. Nel 1753 è ricordato a Pitti e tra il 1799 e il 1815 fu a Parigi, a causa delle spoliazioni napoleoniche. Già ritenuto copia del Cardinale al Prado, è in realtà un'opera ben diversa, anche se non pienamente autografa di Raffaello: forse il Sanzio intervenne solo nella testa, come sembra confermare la riflettografia. Il cattivo stato di conservazione non permette di farsi un'idea esatta; la striscia inferiore di tela, con parte della manica e le dita della mano, è un'aggiunta successiva.
Descrizione e stile [modifica]Su uno sfondo scuro il cardinale è ritratto a mezza figura, seduto di tre quarti e girato a sinistra. Indossa la berretta e la mantella cardinalizia, rosse e ravvivate da riflessi setosi. Le due masse di colore fanno stagliare la testa, leggermente rimpicciolita per una visione ottimizzata dal basso, che dà maggiore monumentalità all'insieme. Le braccia coperte dall'ampia tunica bianca sono piegate; nella mano destra regge una lettera, che porta al petto. Il volto è intenso ed espressivo, rivolto direttamente verso lo spettatore con il quale sembra instaurare un intenso confronto psicologico.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Raffaello - Madonna del Baldacchino
La .Madonna del Baldacchino è un dipinto a olio su tela (276x224 cm) di Raffaello Sanzio, databile al 1507-1508 circa .
Storia [modifica]L'opera era la prima grande commissione religiosa di Raffaello a Firenze, avviata verso il 1507 per la cappella Dei in Santo Spirito. Lasciata incompleta per la repentina partenza dell'artista per Roma nel 1508, chiamato da Giulio II, subì varie vicende. Tale opera fu un imprescindibile modello nel decennio seguente, per artisti quali Andrea del Sarto, Fra' Bartolomeo e Lorenzo Lotto[1]. I Dei, per il loro altare, si rivolsero poi a Rosso Fiorentino: anche la sua Pala Dei è oggi nello stesso museo.
La Madonna del Baldacchino, finita a metà del Cinquecento nella pieve di Pescia, venne acquistata nel 1697 dal principe Ferdinando de' Medici, che la fece restaurare e completare, in alcune parti, dai fratelli Niccolò e Agostino Cassana: la striscia superiore venne aggiunta in quel periodo per eguagliare le dimensioni di un altro dipinto con cui doveva fare pendant. Nel complesso comunque gli interventi successivi appaiono limitati e individuabili.
Dal 1799 al 1813 la tela fu portata a Parigi.
Descrizione e stile [modifica]Si tratta di una sacra conversazione organizzata attorno al fulcro del trono della Vergine coperto da baldacchino retto da angeli, con un fondale architettonico composto da un'abside semicircolare, grandioso ma tagliato ai margini, in modo da amplificarne la monumentalità. Da sinistra si vedono i santi Pietro,Bernardo di Chiaravalle, Giacomo maggiore e Agostino. Due angioletti si trovano alla base del trono e leggono l'iscrizione su un cartiglio.
Lo schema è simmetrico, raggruppato attorno all'alto trono, ma ogni staticità appare annullata dall'intenso movimento circolare di gesti e sguardi, esasperato poi negli angeli in turbolento volo, accuratamente scorciati. Sant'Agostino ad esempio allunga un braccio verso sinistra invitando lo spettatore a percorrere con lo sguardo lo spazio semicircolare della nicchia, legando i personaggi uno per uno, caratteristica che a breve si ritroverà anche negli affreschi delle Stanze vaticane[2].
La luce che proviene da sinistra esalta la plasticità delle figure, rispetto alla "mandorla" d'ombra creata dai drappi rigonfi del baldacchino. Dolce è il gesto del Bambino, che gioca col proprio piedino.
Storia [modifica]L'opera era la prima grande commissione religiosa di Raffaello a Firenze, avviata verso il 1507 per la cappella Dei in Santo Spirito. Lasciata incompleta per la repentina partenza dell'artista per Roma nel 1508, chiamato da Giulio II, subì varie vicende. Tale opera fu un imprescindibile modello nel decennio seguente, per artisti quali Andrea del Sarto, Fra' Bartolomeo e Lorenzo Lotto[1]. I Dei, per il loro altare, si rivolsero poi a Rosso Fiorentino: anche la sua Pala Dei è oggi nello stesso museo.
La Madonna del Baldacchino, finita a metà del Cinquecento nella pieve di Pescia, venne acquistata nel 1697 dal principe Ferdinando de' Medici, che la fece restaurare e completare, in alcune parti, dai fratelli Niccolò e Agostino Cassana: la striscia superiore venne aggiunta in quel periodo per eguagliare le dimensioni di un altro dipinto con cui doveva fare pendant. Nel complesso comunque gli interventi successivi appaiono limitati e individuabili.
Dal 1799 al 1813 la tela fu portata a Parigi.
Descrizione e stile [modifica]Si tratta di una sacra conversazione organizzata attorno al fulcro del trono della Vergine coperto da baldacchino retto da angeli, con un fondale architettonico composto da un'abside semicircolare, grandioso ma tagliato ai margini, in modo da amplificarne la monumentalità. Da sinistra si vedono i santi Pietro,Bernardo di Chiaravalle, Giacomo maggiore e Agostino. Due angioletti si trovano alla base del trono e leggono l'iscrizione su un cartiglio.
Lo schema è simmetrico, raggruppato attorno all'alto trono, ma ogni staticità appare annullata dall'intenso movimento circolare di gesti e sguardi, esasperato poi negli angeli in turbolento volo, accuratamente scorciati. Sant'Agostino ad esempio allunga un braccio verso sinistra invitando lo spettatore a percorrere con lo sguardo lo spazio semicircolare della nicchia, legando i personaggi uno per uno, caratteristica che a breve si ritroverà anche negli affreschi delle Stanze vaticane[2].
La luce che proviene da sinistra esalta la plasticità delle figure, rispetto alla "mandorla" d'ombra creata dai drappi rigonfi del baldacchino. Dolce è il gesto del Bambino, che gioca col proprio piedino.
Raffaello - La Gravida
La Gravida è un dipinto a olio su tavola (66x52 cm) di Raffaello Sanzio, databile al 1505-1506 circa .
Storia [modifica]L'opera è citata per la prima volta in un inventario del primo Settecento di palazzo Pitti, come opera di autore ignoto. Nel 1813 il dipinto venne trasferito nella Guardaroba granducale degli Uffizi, per tornare a Pitti (Sala dell'Iliade) successivamente, per tappare i buchi lasciati di dipinti trafugati dai francesi. Nell'inventario del 1815 è riferita a Innocenzo da Imola, mentre nel 1829 tornò ad essere opera di anonimo. Il primo a riferirla a Raffaello fu Masselli (1839) su suggerimento del Passavant, la cui ipotesi fu quasi unanimemente accolta con l'eccezione di Cavalcaselle, che parlò invece di Ridolfo del Ghirlandaio. Oggi la critica è però unanimemente assestata sul nome del Sanzio.
Per quanto riguarda l'identificazione della donna ritratta, si sono avute due ipotesi, entrambe però scarsamente documentabili: secondo Virzì potrebbe essere una dama di casa Bufalini di Città di Castello; secondo Filippini Emilia Pia da Montefeltro, per le analogie fisiognomiche con il ritratto a Baltimora.
Descrizione e stile [modifica]La donna è ritratta a mezza figura su sfondo scuro, seduta e con una mano sul ventre gonfio, da cui il soprannome ottocentesco, e l'altra sul bordo dove si troverebbe un invisibile parapetto. Ha il busto rotato di tre quarti verso destra, così come il volto, mentre gli occhi sono girati direttamente verso lo spettatore, a stabilire un contatto psicologico. La luce la colpisce dall'alto a sinistra, schiarendone il volto e accentuando, con gli effetti chiaroscurali, i lineamenti un po' tondeggianti.
Indossa un vestito scollato con bordature in velluti e ampie maniche staccabili rosse, pressoché identico a quello della Dama col liocorno alla Galleria Borghese. L'acconciatura è finemente raccolta da una retina, con bordo prezioso. Al collo pende un'elaborata catena d'oro, che si infila nello scollo, senza mostrare il pendente. Le mani sono adornate da anelli e la sinistra, che sta appoggiata in primo piano, regge un fazzoletto e tocca forse un libretto con coperta in cuoio. Notevole è il realismo della mano destra che, con tono semplice e quotidiano, tocca il grembo e smuove leggermente la stoffa, gettandovi ombra.
Che la donna ritratta sia effettivamente incinta non è detto. Forse la curva del grembiule increspato è dovuta alle forme opulente del corpo seduto e la posizione della mano vuole forse più evidenziare lo status sociale, con la presenza degli anelli, piuttosto che alludere a una prossima maternità.
La complessità formale e la padronanza del colore anticipano già le opere romane: il corsetto giallo-arancio e le maniche rosse sono accostati al bianco brillante e il nero della veste, creando ricchi contrasti. Ciò deriverebbe dall'assimilazione della lezione di Domenico Ghirlandaio e di Fra Bartolomeo, che aveva recentemente visitato Venezia.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Storia [modifica]L'opera è citata per la prima volta in un inventario del primo Settecento di palazzo Pitti, come opera di autore ignoto. Nel 1813 il dipinto venne trasferito nella Guardaroba granducale degli Uffizi, per tornare a Pitti (Sala dell'Iliade) successivamente, per tappare i buchi lasciati di dipinti trafugati dai francesi. Nell'inventario del 1815 è riferita a Innocenzo da Imola, mentre nel 1829 tornò ad essere opera di anonimo. Il primo a riferirla a Raffaello fu Masselli (1839) su suggerimento del Passavant, la cui ipotesi fu quasi unanimemente accolta con l'eccezione di Cavalcaselle, che parlò invece di Ridolfo del Ghirlandaio. Oggi la critica è però unanimemente assestata sul nome del Sanzio.
Per quanto riguarda l'identificazione della donna ritratta, si sono avute due ipotesi, entrambe però scarsamente documentabili: secondo Virzì potrebbe essere una dama di casa Bufalini di Città di Castello; secondo Filippini Emilia Pia da Montefeltro, per le analogie fisiognomiche con il ritratto a Baltimora.
Descrizione e stile [modifica]La donna è ritratta a mezza figura su sfondo scuro, seduta e con una mano sul ventre gonfio, da cui il soprannome ottocentesco, e l'altra sul bordo dove si troverebbe un invisibile parapetto. Ha il busto rotato di tre quarti verso destra, così come il volto, mentre gli occhi sono girati direttamente verso lo spettatore, a stabilire un contatto psicologico. La luce la colpisce dall'alto a sinistra, schiarendone il volto e accentuando, con gli effetti chiaroscurali, i lineamenti un po' tondeggianti.
Indossa un vestito scollato con bordature in velluti e ampie maniche staccabili rosse, pressoché identico a quello della Dama col liocorno alla Galleria Borghese. L'acconciatura è finemente raccolta da una retina, con bordo prezioso. Al collo pende un'elaborata catena d'oro, che si infila nello scollo, senza mostrare il pendente. Le mani sono adornate da anelli e la sinistra, che sta appoggiata in primo piano, regge un fazzoletto e tocca forse un libretto con coperta in cuoio. Notevole è il realismo della mano destra che, con tono semplice e quotidiano, tocca il grembo e smuove leggermente la stoffa, gettandovi ombra.
Che la donna ritratta sia effettivamente incinta non è detto. Forse la curva del grembiule increspato è dovuta alle forme opulente del corpo seduto e la posizione della mano vuole forse più evidenziare lo status sociale, con la presenza degli anelli, piuttosto che alludere a una prossima maternità.
La complessità formale e la padronanza del colore anticipano già le opere romane: il corsetto giallo-arancio e le maniche rosse sono accostati al bianco brillante e il nero della veste, creando ricchi contrasti. Ciò deriverebbe dall'assimilazione della lezione di Domenico Ghirlandaio e di Fra Bartolomeo, che aveva recentemente visitato Venezia.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Raffaello - La Velata
La Velata è un dipinto a olio su tavola (85x64 cm) di Raffaello, databile al 1516 circa.
Storia [modifica]L'opera si trovava a Firenze in casa del mercante Matteo Botti, dove lo videro Giorgio Vasari (Le Vite), Vincenzo Borghini (Il Riposo, 1584) e il Bocchi (Bellezze di Firenze, 1591). Nel 1619 fu acquistato dai Medici.
notando la somiglianza della protagonista con la Vergine della Madonna Sistina e con una delle Sibille di Santa Maria della Pace, ipotizzò che fosse un ritratto della Fornarina, l'amante di Raffaello. Dello stesso parere furono Morelli, Cavalcaselle, Gruyer e Ridolfi, mentre di parere contrario furono Springer, e Filippini (che fece il nome invece di Lucrezia della Rovere). Gli studiosi ottocenteschi assegnarono l'opera alla bottega del Sanzio, per le molte ridipinture che impedivano una valutazione precisa, ma dopo il restauro la smagliante brillantezza dell'opera ha fatto ritenere l'opera pienamente autografa, ipotesi oggi pressoché indiscussa.
Descrizione e stile [modifica]Su uno sfondo scuro una giovane donna è ritratta a mezza figura, voltata di tre quarti verso sinistra. Il titolo tradizionale deriva dal capo velato. Il braccio sinistro è appoggiato su un ipotetico parapetto appena sotto il bordo inferiore del dipinto, mettendo ben in evidenza la manica rigonfia, dove la seta crea profonde pieghe e riflessi lucidi di straordinaria qualità, con preziose variazioni di bianco su bianco. Grande cura è riposta anche nella rappresentazione della camicia increspata sul petto, evitando qualsiasi schematismo. Il volto, dalle linee purissime, è incorniciato dalla massa scura dei capelli e dall'ombra del velo, evidenziandosi, con effetti di sfumato derivati dall'esempio di Leonardo. La mano destra è portata al petto, un gesto teatrale che di solito indicava la devozione religiosa.
I ricami dorati, la collana con smalti figurati, il diadema con pendente di pietre preziose e con una perla ricordano l'alto status sociale della donna.
Da un punto di vista stilistico, con questo ritratto Raffaello segnò il superamento delle esperienze fiorentine, dove si poteva ancora cogliere l'influenza di Leonardo e una marcata plasticità. Nella Velata infatti la luminosità è più diffusa e maggiore è la libertà tecnica, verso un traguardo di perfezione formale assoluta. L'idea del volto incorniciato, come nelle Annunciate, evidenzia l'intensità dello sguardo e la bellezza del volto della modella, per poi spostare l'attenzione, tramite giochi di linee di forza, verso l'incomparabile brano della manica.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.a
Storia [modifica]L'opera si trovava a Firenze in casa del mercante Matteo Botti, dove lo videro Giorgio Vasari (Le Vite), Vincenzo Borghini (Il Riposo, 1584) e il Bocchi (Bellezze di Firenze, 1591). Nel 1619 fu acquistato dai Medici.
notando la somiglianza della protagonista con la Vergine della Madonna Sistina e con una delle Sibille di Santa Maria della Pace, ipotizzò che fosse un ritratto della Fornarina, l'amante di Raffaello. Dello stesso parere furono Morelli, Cavalcaselle, Gruyer e Ridolfi, mentre di parere contrario furono Springer, e Filippini (che fece il nome invece di Lucrezia della Rovere). Gli studiosi ottocenteschi assegnarono l'opera alla bottega del Sanzio, per le molte ridipinture che impedivano una valutazione precisa, ma dopo il restauro la smagliante brillantezza dell'opera ha fatto ritenere l'opera pienamente autografa, ipotesi oggi pressoché indiscussa.
Descrizione e stile [modifica]Su uno sfondo scuro una giovane donna è ritratta a mezza figura, voltata di tre quarti verso sinistra. Il titolo tradizionale deriva dal capo velato. Il braccio sinistro è appoggiato su un ipotetico parapetto appena sotto il bordo inferiore del dipinto, mettendo ben in evidenza la manica rigonfia, dove la seta crea profonde pieghe e riflessi lucidi di straordinaria qualità, con preziose variazioni di bianco su bianco. Grande cura è riposta anche nella rappresentazione della camicia increspata sul petto, evitando qualsiasi schematismo. Il volto, dalle linee purissime, è incorniciato dalla massa scura dei capelli e dall'ombra del velo, evidenziandosi, con effetti di sfumato derivati dall'esempio di Leonardo. La mano destra è portata al petto, un gesto teatrale che di solito indicava la devozione religiosa.
I ricami dorati, la collana con smalti figurati, il diadema con pendente di pietre preziose e con una perla ricordano l'alto status sociale della donna.
Da un punto di vista stilistico, con questo ritratto Raffaello segnò il superamento delle esperienze fiorentine, dove si poteva ancora cogliere l'influenza di Leonardo e una marcata plasticità. Nella Velata infatti la luminosità è più diffusa e maggiore è la libertà tecnica, verso un traguardo di perfezione formale assoluta. L'idea del volto incorniciato, come nelle Annunciate, evidenzia l'intensità dello sguardo e la bellezza del volto della modella, per poi spostare l'attenzione, tramite giochi di linee di forza, verso l'incomparabile brano della manica.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.a
Raffaello - Madonna dell'Impannata
La Madonna dell'Impannata è un dipinto a olio su tavola (158x125 cm) di Raffaello Sanzio con aiuti, databile al 1513-1514 circa .
Storia [modifica]Vasari riportò come l'opera fosse stata dipinta per Bindo Altoviti, sequestrata poi da Cosimo I de' Medici. Durante l'occupazione napoleonica fu portata a Parigi nel1799 e restituita nel 1815.
Sebbene il complesso schema sia sicuramente frutto di un'idea di Raffaello, la stesura è quasi interamente attribuita agli allievi: forse il Sanzio dipinse solo la figura di Gesù e la testa di Elisabetta.
Descrizione e stile [modifica]DettaglioL'opera prende il nome dalla particolare finestra "impannata" che si vede sullo sfondo. In una stanza appena rischiarata ha luogo una complessa sacra conversazione, con la Madonna col Bambino che porge il figlio a sant'Elisabetta inginocchiata, dietro la quale si trova, colta in un gesto affettuoso, santa Caterina d'Alessandria; a sinistra infine, seduto quasi sul bordo del dipinto, san Giovannino. Quest'ultimo richiama l'attenzione dello spettatore fissandolo e proiettandosi verso di esso con il piede sinistro, illusionisticamente sporgente, e indica verso Gesù, come al suo solito. Il centro della scena è poi occupato da una carambola di sguardi e gesti, che generano un moto circolare di raro equilibrio e intensa commozione partecipativa dei protagonisti.
Di vivo realismo è la grinzosa testa dell'anziana Elisabetta, girata a profil perdu. Radiografie hanno dimostrato che sotto Giovanni Battista si trova il disegno di un san Giuseppe e di un Battista in un'altra posa. la semplificazione della composizione venne decisa per chiudere il cerchio ideale compstro dalle figure, attorno al fulcro del Bambino.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Storia [modifica]Vasari riportò come l'opera fosse stata dipinta per Bindo Altoviti, sequestrata poi da Cosimo I de' Medici. Durante l'occupazione napoleonica fu portata a Parigi nel1799 e restituita nel 1815.
Sebbene il complesso schema sia sicuramente frutto di un'idea di Raffaello, la stesura è quasi interamente attribuita agli allievi: forse il Sanzio dipinse solo la figura di Gesù e la testa di Elisabetta.
Descrizione e stile [modifica]DettaglioL'opera prende il nome dalla particolare finestra "impannata" che si vede sullo sfondo. In una stanza appena rischiarata ha luogo una complessa sacra conversazione, con la Madonna col Bambino che porge il figlio a sant'Elisabetta inginocchiata, dietro la quale si trova, colta in un gesto affettuoso, santa Caterina d'Alessandria; a sinistra infine, seduto quasi sul bordo del dipinto, san Giovannino. Quest'ultimo richiama l'attenzione dello spettatore fissandolo e proiettandosi verso di esso con il piede sinistro, illusionisticamente sporgente, e indica verso Gesù, come al suo solito. Il centro della scena è poi occupato da una carambola di sguardi e gesti, che generano un moto circolare di raro equilibrio e intensa commozione partecipativa dei protagonisti.
Di vivo realismo è la grinzosa testa dell'anziana Elisabetta, girata a profil perdu. Radiografie hanno dimostrato che sotto Giovanni Battista si trova il disegno di un san Giuseppe e di un Battista in un'altra posa. la semplificazione della composizione venne decisa per chiudere il cerchio ideale compstro dalle figure, attorno al fulcro del Bambino.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Rosso Fiorentino - Pala Dei
La Pala Dei è un dipinto a olio su tavola (250x299 cm) di Rosso Fiorentino, databile al 1522.
Storia [modifica]Can la repentina partenza di Raffaello da Firenze nel 1508, la famiglia Dei, che gli aveva commissionato una pala d'altare per la sua cappella in Santo Spirito, si dovette accontentare dell'incompiuta Madonna del Baldacchino. Anni dopo si rivolsero a Rosso per una nuova pala, che venne completata nel 1522.
Verso la fine del Seicento se ne interessò il gran principe Ferdinando de' Medici che, offrendo una copia agli Agostiniani, se la fece portare a palazzo Pitti, dove è citata negli inventari a partire dall'inizio del nuovo secolo, con le misure originarie. Per esigenze di arredamento, la pala venne ingrandita su tutti e quattro i lati di circa 50 cm, come si vede bene ancora oggi, e dotata di una cornice dorata e intagliata in stile barocco. Il Richa la vide nel 1761.
Descrizione [modifica]Si tratta di una sacra conversazione, con al centro la Madonna, su un sedile rialzato, che tiene in braccio il Bambino, sullo sfondo di un'ombrosa abside. Attorno ad essa si accalcano ben dieci santi, che erano particolarmente stretti prima dell'ampliamento dei bordi, e che si dispongono a semicerchio ispirandosi proprio alla Madonna del Baldacchino di Raffaello. Sui due grandini alla base del trono si incontrano quindi san Pietro (veste gialla e azzurra, chiavi e libro in mano), san Bernardo di Chiaravalle (saio bianco), san Ranieri, sant'Agostino (vestito da vescovo), san Rocco (o san Giacomo maggiore) col bordone, san Sebastiano(seminudo, con le braccia legate dietro la schiena), san Giuseppe, san Maurizio e una santa seduta a terra al centro. Gli attributi di santa Caterina d'Alessandria(spada e ruota dentata rotta), vennero aggiunti solo nel Settecento, per cui non è dato sapere di chi si tratti esattamente. La scelta dei santi principali è dovuta soprattutto al nome dei componenti della famiglia.
Molti sono gli elementi di rottura con la tradizione: il superamento dello schema piramidale, i panneggi dal volume "astratto", cioè innaturale, il colore fatto di trasparenze e cangiantismi, le espressioni talvolta torve, le anatomie tormentate (soprattutto nello scultoreo Sebastiano), gli occhi "muti", cioè appannati che non trasmettaono dialogo visivo. Tutto ciò ne fa un'importante testimonianza delle inquietudini e delle trafsormazioni che in quegli anni portavano avanti i rappresentati più all'avanguardia della "maniera", Rosso e, con esiti per certi versi simili, Pontormo.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.I
Storia [modifica]Can la repentina partenza di Raffaello da Firenze nel 1508, la famiglia Dei, che gli aveva commissionato una pala d'altare per la sua cappella in Santo Spirito, si dovette accontentare dell'incompiuta Madonna del Baldacchino. Anni dopo si rivolsero a Rosso per una nuova pala, che venne completata nel 1522.
Verso la fine del Seicento se ne interessò il gran principe Ferdinando de' Medici che, offrendo una copia agli Agostiniani, se la fece portare a palazzo Pitti, dove è citata negli inventari a partire dall'inizio del nuovo secolo, con le misure originarie. Per esigenze di arredamento, la pala venne ingrandita su tutti e quattro i lati di circa 50 cm, come si vede bene ancora oggi, e dotata di una cornice dorata e intagliata in stile barocco. Il Richa la vide nel 1761.
Descrizione [modifica]Si tratta di una sacra conversazione, con al centro la Madonna, su un sedile rialzato, che tiene in braccio il Bambino, sullo sfondo di un'ombrosa abside. Attorno ad essa si accalcano ben dieci santi, che erano particolarmente stretti prima dell'ampliamento dei bordi, e che si dispongono a semicerchio ispirandosi proprio alla Madonna del Baldacchino di Raffaello. Sui due grandini alla base del trono si incontrano quindi san Pietro (veste gialla e azzurra, chiavi e libro in mano), san Bernardo di Chiaravalle (saio bianco), san Ranieri, sant'Agostino (vestito da vescovo), san Rocco (o san Giacomo maggiore) col bordone, san Sebastiano(seminudo, con le braccia legate dietro la schiena), san Giuseppe, san Maurizio e una santa seduta a terra al centro. Gli attributi di santa Caterina d'Alessandria(spada e ruota dentata rotta), vennero aggiunti solo nel Settecento, per cui non è dato sapere di chi si tratti esattamente. La scelta dei santi principali è dovuta soprattutto al nome dei componenti della famiglia.
Molti sono gli elementi di rottura con la tradizione: il superamento dello schema piramidale, i panneggi dal volume "astratto", cioè innaturale, il colore fatto di trasparenze e cangiantismi, le espressioni talvolta torve, le anatomie tormentate (soprattutto nello scultoreo Sebastiano), gli occhi "muti", cioè appannati che non trasmettaono dialogo visivo. Tutto ciò ne fa un'importante testimonianza delle inquietudini e delle trafsormazioni che in quegli anni portavano avanti i rappresentati più all'avanguardia della "maniera", Rosso e, con esiti per certi versi simili, Pontormo.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.I
Rubens - Madonna della Cesta.
a Madonna della Cesta è un dipinto a olio su tavola (144x88 cm) di Pieter Paul Rubens, databile al 1615 circa.
Storia [modifica]Le menzioni più antiche dell'opera la ricordano nella guardaroba della villa di Poggio Imperiale (ASF, Guardaroba 657) nel 1654-1655, poi dal 1697, a Palazzo Pittinella Sala dei Papagalli (ASF, Guardaroba 1051, c.498, n. 346). Nelle successive registrazioni si tracciano vari spostamenti in una stanza o un'altra, finché nel1799 i commissari francesi non inviarono l'opera a Parigi, dove venne inviata in deposito al Museo di Digione, in cui rimase fino al 1815, tornando a Firenze l'anno successiuvo.
Una copia antica si trova in collezione privata a Vienna, che L. Burchard ritenne autografa e di qualità migliore della versione fiorentina, mentre un'altra più modesta e ingrandita si vede nella galleria di Palazzo Spinola a Genova (n. 59), già attribuita a Jacob Jordaens.
Descrizione e stile [modifica]La cesta che dà il nome tradizionale all'opera è in realtà una culla di vimini in cui è steso Gesù Bambino, vegliato da Maria e Giuseppe, mentre con un gesto tenero carezza il volto del fanciullo Giovanni Battista, riconoscibile per l'abito di pelliccia da eremita nel deserto. Dietro di lui sta infine sua madre, sant'Elisabetta. L'età matura e non anziana di Giuseppe ha anche fatto pensare che si tratti piuttosto di un santo.
Si tratta di una delle migliori composizioni su questo soggetto religioso realizzate dall'artista verso il 1615, assieme a quella nella Wallace Collection di Londra, databile al 1614 circa.
Ispirata a lavori italiani, vi si nota un'influenza del Parmigianino nel volto di Maria. La fluida disposizione dei personaggi, la padronanza del colore e degli effetti della pennellata, la caratterizzazione dei personaggi e alcuni brani di autentico virtuosismo (come il risplendere dei capelli, l'opacità della barba di Giuseppe o gli effetti materici nel tappeto sotto il Bambin Gesù), ne fanno un piccolo capolavoro in cui si riscontano tutte le caretteristiche della migliore fattura dell'artista.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Storia [modifica]Le menzioni più antiche dell'opera la ricordano nella guardaroba della villa di Poggio Imperiale (ASF, Guardaroba 657) nel 1654-1655, poi dal 1697, a Palazzo Pittinella Sala dei Papagalli (ASF, Guardaroba 1051, c.498, n. 346). Nelle successive registrazioni si tracciano vari spostamenti in una stanza o un'altra, finché nel1799 i commissari francesi non inviarono l'opera a Parigi, dove venne inviata in deposito al Museo di Digione, in cui rimase fino al 1815, tornando a Firenze l'anno successiuvo.
Una copia antica si trova in collezione privata a Vienna, che L. Burchard ritenne autografa e di qualità migliore della versione fiorentina, mentre un'altra più modesta e ingrandita si vede nella galleria di Palazzo Spinola a Genova (n. 59), già attribuita a Jacob Jordaens.
Descrizione e stile [modifica]La cesta che dà il nome tradizionale all'opera è in realtà una culla di vimini in cui è steso Gesù Bambino, vegliato da Maria e Giuseppe, mentre con un gesto tenero carezza il volto del fanciullo Giovanni Battista, riconoscibile per l'abito di pelliccia da eremita nel deserto. Dietro di lui sta infine sua madre, sant'Elisabetta. L'età matura e non anziana di Giuseppe ha anche fatto pensare che si tratti piuttosto di un santo.
Si tratta di una delle migliori composizioni su questo soggetto religioso realizzate dall'artista verso il 1615, assieme a quella nella Wallace Collection di Londra, databile al 1614 circa.
Ispirata a lavori italiani, vi si nota un'influenza del Parmigianino nel volto di Maria. La fluida disposizione dei personaggi, la padronanza del colore e degli effetti della pennellata, la caratterizzazione dei personaggi e alcuni brani di autentico virtuosismo (come il risplendere dei capelli, l'opacità della barba di Giuseppe o gli effetti materici nel tappeto sotto il Bambin Gesù), ne fanno un piccolo capolavoro in cui si riscontano tutte le caretteristiche della migliore fattura dell'artista.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Rubens - Quattro Filosofi
I Quattro filosofi è un dipinto a olio su tavola (164x139 cm) di Pieter Paul Rubens, databile al 1611-1612.
Non si conoscono le vicende antiche del dipinto e le circostanze della sua realizzazione. Gli inventari più antichi al segnalano alla fine del Seicento a palazzo Pitti e una prima mensione iconografica si trova nel dipinto sulla Tribuna del Uffizi di Johann Zoffany del 1772, in cui l'opera è copiata tra le collezioni medicee.
Nel marzo o aprile 1799 fu sequestrata dai Francesi e portata a Parigi, dove venne recuperata nel 1815, tornando l'anno successivo a Firenze. Nel documento della restituzione, a cura di Canova e Karcher, si legge una descrizione dettagliata del dipinto e delle sue condizioni: «I quattro filosofi di Rubens in tavola dal colore subollito e molto alzato, è crettato specialmente negli abiti neri e altri e arrotato nei dintorni ove copriva la cornice».
L'occasione per la pittura del dipinto fu probabilmente la morte del fratello di Rubens, Filippo (nel 1611), e del suo maestro, il filosofo Giusto Lipsio (nel 1606), per cui viene solitamente datato al 1611-1612. Le fattezze del filosofo derivano da Per un ritratto di Abraham Janssens, conosciuto attraverso l'incisione di Pieter de Jode; il proprio autoritratto ripropone invece un suo busto oggi al Museo Moretus di Anversa. La figura di Filippo è nota anche in un ritratto nella collezione Hollistecher di Berlino, mentre per Jan Woverius esiste un confronto con un disegno dell'Albertina di Vienna (esp. Vienna, 1977, p. 6, n.3).
La celebrità dell'opera fece sì che ne fossero tratte molte copie. Tra l migliori una in collezione privata belga (pubblicata da P. Fierens, 1942) e due nel Musée des Beaux-Arts di Nancy.
Descrizione e stile [modifica]Si tratta di un quadruplice ritratto monumentale, di Rubens e tre amici. Il pittore si riconosce in piedi sulla sinistraq, col volto ritratto di tre quarti e lo sguardo che cerca lo spettatore, secondo una convenzione tipica degli autoritratti. Seduti attorno a un tavololinetto, coperto da un pesante tappeto orientale e cosparso di libri, penne e calamai, si trovano da sinistra Filippo Rubens, Giusto Lipsio (Juste Lipse), maestro filosofo, e Giovanni van de Wouvere (Jan Woverius), altro discepolo e amico dei tre. La ricchezza dei gesti, gli sguardi "parlanti", la ricchissima vivacità della superficie pittoica, variata a meglioo rappresentare la consistenza di ciascun materiale, fanno dell'opera un capolavoro della ritrattistica seicentesca.
Un busto di Seneca in una nicchia (fedele riproduzione di un esemplare antico, probabilmente quello dell'amico Fulvio Orsini, bibliotecario del cardinal Farnese, di cui Rubens acquistò una copia nel 1605), ricorda la natura del convegno dei quattro intellettuali: a Seneca il maestro aveva dopotutto dedicato numerosi saggi. I quattro tulipani che stanno nel vasetto di vetro appoggiato nella nicchia rappresentano simbolicamente le vite dei presenti: due sono già sbocciate (Rubens e il maestro), due devono ancora dare il meglio di sé. Sullo sfondo si apre un paesaggio con la rappresentazione del colle Palatino e della chiesa di San Teodoro. Tale paesaggio venne sviluppato poi nello sfondo dell'altare di Santa Maria in Vallicella a Roma, oggi alla Gemäldegalerie di Berlino, e nel Paesaggio con le rovine del Palatino al Louvre (n. 2119).
Il cane che si affaccia in primom piano doveva essere quello di proprietà di Woverius, di cui si conosce anche il nome: Mopsulus.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
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Non si conoscono le vicende antiche del dipinto e le circostanze della sua realizzazione. Gli inventari più antichi al segnalano alla fine del Seicento a palazzo Pitti e una prima mensione iconografica si trova nel dipinto sulla Tribuna del Uffizi di Johann Zoffany del 1772, in cui l'opera è copiata tra le collezioni medicee.
Nel marzo o aprile 1799 fu sequestrata dai Francesi e portata a Parigi, dove venne recuperata nel 1815, tornando l'anno successivo a Firenze. Nel documento della restituzione, a cura di Canova e Karcher, si legge una descrizione dettagliata del dipinto e delle sue condizioni: «I quattro filosofi di Rubens in tavola dal colore subollito e molto alzato, è crettato specialmente negli abiti neri e altri e arrotato nei dintorni ove copriva la cornice».
L'occasione per la pittura del dipinto fu probabilmente la morte del fratello di Rubens, Filippo (nel 1611), e del suo maestro, il filosofo Giusto Lipsio (nel 1606), per cui viene solitamente datato al 1611-1612. Le fattezze del filosofo derivano da Per un ritratto di Abraham Janssens, conosciuto attraverso l'incisione di Pieter de Jode; il proprio autoritratto ripropone invece un suo busto oggi al Museo Moretus di Anversa. La figura di Filippo è nota anche in un ritratto nella collezione Hollistecher di Berlino, mentre per Jan Woverius esiste un confronto con un disegno dell'Albertina di Vienna (esp. Vienna, 1977, p. 6, n.3).
La celebrità dell'opera fece sì che ne fossero tratte molte copie. Tra l migliori una in collezione privata belga (pubblicata da P. Fierens, 1942) e due nel Musée des Beaux-Arts di Nancy.
Descrizione e stile [modifica]Si tratta di un quadruplice ritratto monumentale, di Rubens e tre amici. Il pittore si riconosce in piedi sulla sinistraq, col volto ritratto di tre quarti e lo sguardo che cerca lo spettatore, secondo una convenzione tipica degli autoritratti. Seduti attorno a un tavololinetto, coperto da un pesante tappeto orientale e cosparso di libri, penne e calamai, si trovano da sinistra Filippo Rubens, Giusto Lipsio (Juste Lipse), maestro filosofo, e Giovanni van de Wouvere (Jan Woverius), altro discepolo e amico dei tre. La ricchezza dei gesti, gli sguardi "parlanti", la ricchissima vivacità della superficie pittoica, variata a meglioo rappresentare la consistenza di ciascun materiale, fanno dell'opera un capolavoro della ritrattistica seicentesca.
Un busto di Seneca in una nicchia (fedele riproduzione di un esemplare antico, probabilmente quello dell'amico Fulvio Orsini, bibliotecario del cardinal Farnese, di cui Rubens acquistò una copia nel 1605), ricorda la natura del convegno dei quattro intellettuali: a Seneca il maestro aveva dopotutto dedicato numerosi saggi. I quattro tulipani che stanno nel vasetto di vetro appoggiato nella nicchia rappresentano simbolicamente le vite dei presenti: due sono già sbocciate (Rubens e il maestro), due devono ancora dare il meglio di sé. Sullo sfondo si apre un paesaggio con la rappresentazione del colle Palatino e della chiesa di San Teodoro. Tale paesaggio venne sviluppato poi nello sfondo dell'altare di Santa Maria in Vallicella a Roma, oggi alla Gemäldegalerie di Berlino, e nel Paesaggio con le rovine del Palatino al Louvre (n. 2119).
Il cane che si affaccia in primom piano doveva essere quello di proprietà di Woverius, di cui si conosce anche il nome: Mopsulus.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
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Ulisse nell'isola dei Feaci è un dipinto a olio su tavola (128x207 cm) di Pieter Paul Rubens, databile al 1630-1635 circa. Storia [modifica]L'opera è citata nel 1677 nelle raccolte del duca di Richelieu come veduta della città di Cadice e, passata nel frattempo nelle collezioni asburgiche, arrivò a Firenze nel 1765 per iniziativa dei Lorena. Destinato a Palazzo Pitti fa coppia, fin dalla collezione Richelieu, col Ritorno dei contadini dai campi, simile scena di soggetto bucolico dell'autore. Entrambe le opere vennero portate a Parigi dai commissari francesi tra il marzo e l'aprile 1799, restando in Francia fino al 1815. Nel rapporto che Canova e Karcher stilarono durante le restituzioni si precisa che già allora l'opera era interessata da "uno spacco in uno che lo traversa per metà".
La datazione dell'opera ha subito vari oscillazioni, entro il 1620 e il 1635, anno in cui venne replicata da un seguace che dato e firmò la sua copia. Le ipotesi più convincenti si inseriscono comunque verso i primi anni trenta.
Ne esiste un disegno preparatorio nelle collezioni del Devonshire a Chatsworth, relativo all'albero caduto in primo piano. Una copia antica di grandi dimensioni passò per la collezione Aguado di Parigi il 20 marzo 1843.
Descrizione e stile [modifica]Protagonista del dipinto è il paesaggio, con la scena letteraria, l'arrivo di Ulisse nell'isola della maga Circe, che appare come un semplice pretesto alla rappresentazione. La composizione si svolge su un declivio che da destra verso sinistra digrada verso una frastagliata costa, visibile in lontananza, con una città arroccata al centro. Le figurette si trovano invece in primo piano: Ulisse e i suoi compagni, reduci dal naufragio in cui sono riusciti a salvare ben poco, sono accolti da Circe, al centro, e il suo seguito.
Straordinaria è la resa di valori atmosferici, ottenuti con scala cromatica chiara, rialzata qua e là con piccoli tocchi di rosso. La sicurezza della pennellata, vibrante e capace di ottenere dettagli con estrema rapidità, esclude la presenza di aiuti come Luca van Uden, ipotizzata da Rooses.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
La datazione dell'opera ha subito vari oscillazioni, entro il 1620 e il 1635, anno in cui venne replicata da un seguace che dato e firmò la sua copia. Le ipotesi più convincenti si inseriscono comunque verso i primi anni trenta.
Ne esiste un disegno preparatorio nelle collezioni del Devonshire a Chatsworth, relativo all'albero caduto in primo piano. Una copia antica di grandi dimensioni passò per la collezione Aguado di Parigi il 20 marzo 1843.
Descrizione e stile [modifica]Protagonista del dipinto è il paesaggio, con la scena letteraria, l'arrivo di Ulisse nell'isola della maga Circe, che appare come un semplice pretesto alla rappresentazione. La composizione si svolge su un declivio che da destra verso sinistra digrada verso una frastagliata costa, visibile in lontananza, con una città arroccata al centro. Le figurette si trovano invece in primo piano: Ulisse e i suoi compagni, reduci dal naufragio in cui sono riusciti a salvare ben poco, sono accolti da Circe, al centro, e il suo seguito.
Straordinaria è la resa di valori atmosferici, ottenuti con scala cromatica chiara, rialzata qua e là con piccoli tocchi di rosso. La sicurezza della pennellata, vibrante e capace di ottenere dettagli con estrema rapidità, esclude la presenza di aiuti come Luca van Uden, ipotizzata da Rooses.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Rubens - Ritorno dei Contadini dai Campi
Ritorno dei contadini dai campi è un dipinto a olio su tavola (121x194 cm) di Pieter Paul Rubens, databile al 1640 circa Storia [modifica]L'opera ha formato sin dall'antico un pendant con Ulisse nell'isola dei Feaci. Entrambe le tavole erano nelle raccolte del duca di Richelieu nel1677 e, passate nel frattempo nelle collezioni asburgiche, arrivarono a Firenze nel 1765 per iniziativa dei Lorena. Vennero portate a Parigidai commissari francesi tra il marzo e l'aprile 1799, restando in Francia fino al 1815. Anche nel rapporto che Canova e Karcher stilarono durante le restituzioni esse sono trattate insieme.
La datazione dell'opera ha subito vari oscillazioni, entro il 1620 e il 1635, anno in cui venne replicata da un seguace che datò e firmò la sua copia. Le ipotesi più convincenti si inseriscono comunque verso i primi anni trenta.
Alcuni riferiscono il Ritorno al 1632-1634, magari opera di collaborazione con Lucas van Uden, altri alla fase estrema della produzione di Rubens, il 1640. Per il carretto l'artista riutilizzò due disegni preparatori antecedenti, uno con mietitore sulla destra (Chatsworth, collezioni del duca di Devonshire), una con due carri (Berlino, Kupferstichkabinett, n. 3237). Esiste inoltre un parallelismo tra la seconda figura a destra il disegno di contadina che si dirige a sinistra nel Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi, mentre i cinque personaggi a destra in un disegno all'Albertina sono piuttosto copia da Rubens, che disegno preparatorio.
Descrizione e stile [modifica]Protagonista del dipinto è il paesaggio, con la scena bucolica che appare come un semplice pretesto alla rappresentazione. La composizione si svolge con un punto di vista alto che permette di godere della veduta a volo d'uccello, su una campagna punteggiata di alberi con un orizzonte che cade più o meno a metà del dipinto. Vari personaggi, in piccola scala, precisano il momento della rappresentazione, secondo lo stile della pittura di genere inaugurata da Pieter Brueghel il Vecchio. Si tratta di una serie di contadini che rientrano dopo il lavoro nei campi, compreso un carro con uomo a cavallo che sembra spingere un gregge di pecore lungo la strada. Tra le due donne che portano le balle di fieno e i montoni è visibile un pentimento d'artista.
In tutta probabilità si tratta di un paesaggio ispirato ai dintorni di Malines, interpretato con una visione serena della natura, inondata dalla luce dorata del tramonto. Di ampio respiro è il cielo, solcato da nudi che danno un effetto dinamico, riprendendo le linee diagonali che si osservano anche nella metà inferiore.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
La datazione dell'opera ha subito vari oscillazioni, entro il 1620 e il 1635, anno in cui venne replicata da un seguace che datò e firmò la sua copia. Le ipotesi più convincenti si inseriscono comunque verso i primi anni trenta.
Alcuni riferiscono il Ritorno al 1632-1634, magari opera di collaborazione con Lucas van Uden, altri alla fase estrema della produzione di Rubens, il 1640. Per il carretto l'artista riutilizzò due disegni preparatori antecedenti, uno con mietitore sulla destra (Chatsworth, collezioni del duca di Devonshire), una con due carri (Berlino, Kupferstichkabinett, n. 3237). Esiste inoltre un parallelismo tra la seconda figura a destra il disegno di contadina che si dirige a sinistra nel Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi, mentre i cinque personaggi a destra in un disegno all'Albertina sono piuttosto copia da Rubens, che disegno preparatorio.
Descrizione e stile [modifica]Protagonista del dipinto è il paesaggio, con la scena bucolica che appare come un semplice pretesto alla rappresentazione. La composizione si svolge con un punto di vista alto che permette di godere della veduta a volo d'uccello, su una campagna punteggiata di alberi con un orizzonte che cade più o meno a metà del dipinto. Vari personaggi, in piccola scala, precisano il momento della rappresentazione, secondo lo stile della pittura di genere inaugurata da Pieter Brueghel il Vecchio. Si tratta di una serie di contadini che rientrano dopo il lavoro nei campi, compreso un carro con uomo a cavallo che sembra spingere un gregge di pecore lungo la strada. Tra le due donne che portano le balle di fieno e i montoni è visibile un pentimento d'artista.
In tutta probabilità si tratta di un paesaggio ispirato ai dintorni di Malines, interpretato con una visione serena della natura, inondata dalla luce dorata del tramonto. Di ampio respiro è il cielo, solcato da nudi che danno un effetto dinamico, riprendendo le linee diagonali che si osservano anche nella metà inferiore.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Rubens - Tre Grazie
PLe Tre Grazie a monocromo sono un dipinto a olio su tavola (47,5x35 cm) di Pieter Paul Rubens, databile al 1620-1623 .Storia [modifica]L'opera era stata creata a grisaille per fornire un soggetto da tradurre su un vaso in avorio, una tecnica allora molto in voga nei paesi nordici.
Monsignor Francesco Airoldi, nunzio a Bruxelles, ne venne in possesso e la offrì al cardinale Leopoldo de' Medici, grande ammiratore di Rubens. A testimonianza esiste una lettera del 14 febbraio 1671: "Havendo inteso che il marchese Bartolomei teneva incombenza di procacciare per l'E.V. alcuni disegni del Rubens, si sono date la grazia di consegnarli un piccolo sollazzo del medesimo autore, ch'io haveva rappresentante le Tre Grazie, stimato buono in questi paesi". Il 14 ottobre dello stesso anno il cardinale ringraziò l'Airoldi per l'opera già arrivata a Firenze, via mare, definendola "una cosa che viene da me tanto stimata ed alla quale dare luogo tra le mie cose più care di tal genere"[1].
Le opere del cardinale finirono agli Uffizi dopo la sua morte e le Tre Grazie in particolare vennero trasferite alla Palatina nel 1928. La datazione al 1620-1623 venne sostenuta per primo da Oldenboorg ed è generalmente condivisa.
Verso il 1638 il pittore tornò sul soggetto delle Tre Grazie, ma con un'impostazione completamente diversa. Somiglianze si riscontrano invece tra la posa delle tre figure fiorentine e un disegno tardivo con tre donne elegantemente vestite (Varsavia, Gabinetto delle Stampe della Biblioteca Universitaria[2]), oppure tra la figura di sinistra e l'Allegoria della Carità (Ermitage, nn. 5513), del 1620 circa[3].
Descrizione e stile [modifica]Le tre Grazie sono ritratte nude a figura intera, con le tipiche fisionomie giunoniche dello stile dell'artista. Esse incrociano sguardi e gesti creando un insieme di grande scioltezza e raffinatezza, all'insegna della variazione e di un erotismo elegante. Due putti in alto, volano incoronando le Grazie e altri, appena disegnati, si intravedono sullo sfondo, dove si trova anche un albero e cesti di frutta.
La luce si adagia sui corpi delle fanciulle, accentuata da lumeggiature, creando un effetto di rilievo scultoreo, addolcito dal morbido tratteggio delle ombre.aragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Monsignor Francesco Airoldi, nunzio a Bruxelles, ne venne in possesso e la offrì al cardinale Leopoldo de' Medici, grande ammiratore di Rubens. A testimonianza esiste una lettera del 14 febbraio 1671: "Havendo inteso che il marchese Bartolomei teneva incombenza di procacciare per l'E.V. alcuni disegni del Rubens, si sono date la grazia di consegnarli un piccolo sollazzo del medesimo autore, ch'io haveva rappresentante le Tre Grazie, stimato buono in questi paesi". Il 14 ottobre dello stesso anno il cardinale ringraziò l'Airoldi per l'opera già arrivata a Firenze, via mare, definendola "una cosa che viene da me tanto stimata ed alla quale dare luogo tra le mie cose più care di tal genere"[1].
Le opere del cardinale finirono agli Uffizi dopo la sua morte e le Tre Grazie in particolare vennero trasferite alla Palatina nel 1928. La datazione al 1620-1623 venne sostenuta per primo da Oldenboorg ed è generalmente condivisa.
Verso il 1638 il pittore tornò sul soggetto delle Tre Grazie, ma con un'impostazione completamente diversa. Somiglianze si riscontrano invece tra la posa delle tre figure fiorentine e un disegno tardivo con tre donne elegantemente vestite (Varsavia, Gabinetto delle Stampe della Biblioteca Universitaria[2]), oppure tra la figura di sinistra e l'Allegoria della Carità (Ermitage, nn. 5513), del 1620 circa[3].
Descrizione e stile [modifica]Le tre Grazie sono ritratte nude a figura intera, con le tipiche fisionomie giunoniche dello stile dell'artista. Esse incrociano sguardi e gesti creando un insieme di grande scioltezza e raffinatezza, all'insegna della variazione e di un erotismo elegante. Due putti in alto, volano incoronando le Grazie e altri, appena disegnati, si intravedono sullo sfondo, dove si trova anche un albero e cesti di frutta.
La luce si adagia sui corpi delle fanciulle, accentuata da lumeggiature, creando un effetto di rilievo scultoreo, addolcito dal morbido tratteggio delle ombre.aragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Rubens - Ritratto di Isabella di Spagna
l Ritratto dell'infanta Isabella Clara Eugenia di Spagna in abito di clarissa è un dipinto a olio su tavola (121x194 cm) di Pieter Paul Rubens, databile al1625 .. Storia [modifica]Isabella Clara Eugenia d'Asburgo alla morte del marito, l'arciduca Alberto d'Austria, si fece tagliare i capelli e decise di vestire l'abito delle clarisse prendendo, il 22 ottobre 1621, i voti nel convento di San Francesco di Bruxelles. Qui Rubens, che l'aveva già ritratta anni prima con il marito, la ritrasse nuovamente nel1625. Si sa che essa, di ritorno da Breda il 16 luglio 1625, si recò nello studio del pittore e vide il dipinto iniziato, da cui ne dovettero essere tratte più copie. Oltre a quella fiorentina e quella di Pasadena, se ne conoscono infatti altre due in collezioni private.
La versione fiorentina, in non buone condizionmi di conservazione, era stata scambiata in antico con un'opera di van Dyck, che pure aveva ritratto l'infanta negli abiti da monaca (opera oggi al Kunsthistorisches Museum di Vienna).
Descrizione e stile [modifica]Sullo sfondo di un muro crettato, presente anche nel Ritratto di Maria de' Medici al Prado (1622), l'infanta si staglia a mezza figura, col volto che fa da fulcro della composizione, rischiarato da un raggio luminoso e risultante al massimo nella cornice della veste monacale nera. Essa regge con le mani raccolte un lembo nero e guarda intensamente verso lo spettatore. La sua figura appare dilatata nella volumetria, con effetti di viva espressività.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
La versione fiorentina, in non buone condizionmi di conservazione, era stata scambiata in antico con un'opera di van Dyck, che pure aveva ritratto l'infanta negli abiti da monaca (opera oggi al Kunsthistorisches Museum di Vienna).
Descrizione e stile [modifica]Sullo sfondo di un muro crettato, presente anche nel Ritratto di Maria de' Medici al Prado (1622), l'infanta si staglia a mezza figura, col volto che fa da fulcro della composizione, rischiarato da un raggio luminoso e risultante al massimo nella cornice della veste monacale nera. Essa regge con le mani raccolte un lembo nero e guarda intensamente verso lo spettatore. La sua figura appare dilatata nella volumetria, con effetti di viva espressività.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Rubens - Le Conseguenze della Guerra
Le Conseguenze della guerra è un dipinto a olio su tela (206x305 cm) di Pieter Paul Rubens, databile al 1637-1638 .
Si tratta di un soggetto mitologico-allegorico, legato a riflessioni maturate dall'autore durante le sue missioni diplomatiche nella Guerra dei Trent'anni, in cui maturò la cosapevolezza dell'inutilità della guerra e lanciò un messaggio pacifista ante litteram.
I
Le conseguenze della guerra completavano un discorso artistico iniziato con l'Allegoria della Pace, dipinta nel 1630 per Carlo I d'Inghilterra. Il messaggio appare di grande pessimismo: nemmeno l'amore è in grado di frenare la cieca brutalità della guerra, evitando che l’Europa sia travolta dal lutto e veda distrutta la sua prosperità.
Gli eredi del pittore la vendettero poi al gran principe Ferdinando de' Medici, nel 1691 circa. Citata in tutti gli inventari di palazzo Pitti, se ne trova una riproduzione nel dipinto sulla Tribuna degli Uffizi di Johann Zoffany (1772). Nel 1799, con moltissimi capolavori a Firenze, venne confiscata dai Francesi e portata a Parigi, dove tornò solo nel 1815. Nel documento della restituzione, a cura di Canova e Karcher, si legge una descrizione dettagliata del dipinto e delle sue condizioni: «Marte e Venere di Rubens, in tela, foderato, in buono stato, riserva di varie crepature di colore nel dorso della Venere, questo nello staccarlo dal telaio avendosi dovuto servirsi di soldati tedeschi, che non intendevano la lingua...»[1].
Europa, dettaglioDescrizione [modifica]L’autore colloca alcuni personaggi in una scena concitata. Rubens visse durante anni di terribili guerre per l'Europa (Guerra dei trent'anni, Guerra civile inglese), viaggiando di corte in corte come diplomatico, e volle dipingere questo quadro allegorico come monito contro gli effetti distruttivi della guerra. La forma allegorica era infatti efficace ed immediata, ma nello stesso tempo priva di qualsiasi riferimento agli eserciti realmente in campo in quel periodo. La scelta di dei dell’Olimpo greco è dunque motivata da un preciso richiamo simbolico.
Europa [modifica]A sinistra la personificazione dell'Europa, vestita a lutto e con l’abito a brandelli, alza gli occhi e le braccia al cielo, stroncata dal dolore, come a supplicare l’aiuto divino. La si può riconoscere dal bambino che al suo fianco regge il globo sormontato dalla croce, simbolo della cristianità[2]. Essa appare quindi disperata dopo tanti anni di saccheggi, oltraggi e miserie che invoca dal cielo la pace. Ciò simboleggia il bisogno impellente che il continente ha di una tregua durevole e allo sperato ritorno alla pacifica quotidianità.
Venere, Cupido e Marte [modifica]Venere, Cupido e Marte, dettaglioAl centro Venere, dea dell’amore - così identificabile per la nudità e per essere accompagnata tradizionalmente dagli amorini - cerca invano, con le arti della seduzione, di trattenere Marte, suo amante e dio della guerra[2]. Cupido è probabilmente l’amorino biondo, alato, che si avvinghia alle gambe della dea, in cui si possono riconoscere le fattezze dell’amato figlio del pittore qui chiamato a impersonare il giovane dio dell’amore.
Marte - perfettamente rispondente all’iconografia classica - appare solenne con scudo e spada sguainata, mentre minaccia rovina e distruzione. Egli, che campeggia al centro della scena, rappresenta quindi la furia selvaggia, cieca, spietata, che si accende nel momento in cui la battaglia si fa più serrata e, ottenebrando la mente dei combattenti, toglie dal loro cuore ogni sentimento di umanità. Dunque la guerra appare rappresentata come ripudio della ragione, come rimozione di ogni valore etico.
La scelta della bionda Venere, preferita ad un’altra tra le dee dell’Olimpo, è legata allegoricamente allo spirito di Humanitas che tenta di sopire la guerra o simboleggia la Vittoria dell’amore e della pace sulle atrocità della guerra. La presenza degli infanti che accompagnano la dea riporta anch’essa alla serenità di un quotidiano che viene incrinata dal conflitto.
La Discordia [modifica]DettaglioA strappare Marte dall’abbraccio di Venere è la Discordia, qui rappresentata dalla Furia Aletto, che con un braccio tira verso di sé il dio e con l’altro regge una torcia accesa[2]. Nella mitologia classica "l'irrefrenabile" non concedeva tregua alle sue vittime ed era per l’appunto raffigurata con una fiaccola in mano, che veniva agitata sopra la testa di quelli che intendeva punire. Dopo Virgilio, la letteratura aveva fatto ricorso a tale figura ogni volta che era necessario sottolineare l’aspetto ferino e incontenibile dei conflitti.
Essa compare raramente nei dipinti. Gli antichi la consideravano la maestra degli agguati e delle trasformazioni, tanto terribile da intimidire anche il dio degli Inferi. Si può dunque ritenere che il pittore volesse sottolineare la natura ingannevole di una scelta militare come soluzione dei conflitti politici, alludendo alla furia dei combattimenti e all’inconciliabilità tra la “guerra opportuna” e la “guerra giusta”.
Dietro la Furia – quasi immersi nel fumo di incendi o dei combattimenti - si intravedono dei mostri, che simboleggiano la Peste e la Carestia, due calamità che accompagnano sempre la guerra, contribuendo a renderne ancor più devastanti gli effetti, con conseguenze ben più durevoli dei soli combattimenti.
Le Arti calpestate [modifica]Le Arti e la Carità calpestate, dettaglioNell'andare alla battaglia Marte calpesta dei libri, distruggendo con essi simbolicamente ogni forma di espressione intellettuale, e travolge le personificazioni dell Arti, quali la musica e l'architettura, personificate rispettivamente dalla donna e dall’uomo abbattuti in basso a destra: la donna, raffigurata di spalle, ha un liuto rotto in mano e mostra che l’armonia non può sopravvivere accanto al disordine della guerra; l’uomo, un architetto, impugna i suoi strumenti, a significare che ciò che si costruisce in tempo di pace è poi distrutto in tempo di guerra[2]. Nel raffigurare la donna, il pittore si rifece probabilmente all’iconografia della mousiké, il complesso delle arti presiedute dalle Muse che comprendeva la poesia, la letteratura, la musica in senso stretto, il teatro, il canto, la danza; comprendeva, in particolare, la poesia come veniva "rappresentata" nel mondo greco, ossia per mezzo del canto accompagnato da uno strumento musicale.
Le Arti sono quindi travolte e annientate, a indicare che la guerra non solo causa morte e distruzione ma spezza la civiltà, intesa come patrimonio culturale umano.
La Carità [modifica]Marte va travolgendo anche una donna che stinge al suo seno il figlioletto, come a cercare di sottrarlo al pericolo[2]. Nell’arte figurativa spesso gli artisti hanno proposto il tema della violenza sugli infanti, rifacendosi al noto episodio evangelico della Strage degli Innocenti. Anche Rubens, in questo dipinto, si rifà all’iconografia classica della madre e del sentimento materno come naturale istinto di protezione, che traduce nel topos della donna caritatevole e, per estensione, della Carità. Essa è quindi un chiaro riferimento alla crudeltà dei conflitti che non risparmiano innocenti e indifesi.
Le frecce sciolte, in basso a sinistra, rappresentano la rottura dell'emblema della Concordia, e sono vicine al caduceo, simbolo dei commerci, gettato a terra[1].
Lo sfondo [modifica]Sullo sfondo, a sinistra, l’edificio con le porte spalancate è il tempio di Giano, inaugurato secondo il mito dal re Numa Pompilio[2]: il tempio veniva lasciato aperto in tempo di guerra per permettere al dio di uscire ed assistere i suoi soldati, mentre restava chiuso in tempo di pace perché il protettore dell'Urbe non potesse uscirne. Le porte aperte significano quindi che il quadro è stato dipinto in occasione di un periodo bellico.
La Discordia/AlectoStile [modifica]Capolavoro tardo del maestro Fiammingo, le Conseguenze della guerra spicca per lo straordinario dinamismo, la complessità delle pose delle figure e la fluidità della pennellata, in cui si leggono chiari omaggi alla pittura italiana del Rinascimento, a partire da Tiziano[2].
I
Si tratta di un soggetto mitologico-allegorico, legato a riflessioni maturate dall'autore durante le sue missioni diplomatiche nella Guerra dei Trent'anni, in cui maturò la cosapevolezza dell'inutilità della guerra e lanciò un messaggio pacifista ante litteram.
I
Le conseguenze della guerra completavano un discorso artistico iniziato con l'Allegoria della Pace, dipinta nel 1630 per Carlo I d'Inghilterra. Il messaggio appare di grande pessimismo: nemmeno l'amore è in grado di frenare la cieca brutalità della guerra, evitando che l’Europa sia travolta dal lutto e veda distrutta la sua prosperità.
Gli eredi del pittore la vendettero poi al gran principe Ferdinando de' Medici, nel 1691 circa. Citata in tutti gli inventari di palazzo Pitti, se ne trova una riproduzione nel dipinto sulla Tribuna degli Uffizi di Johann Zoffany (1772). Nel 1799, con moltissimi capolavori a Firenze, venne confiscata dai Francesi e portata a Parigi, dove tornò solo nel 1815. Nel documento della restituzione, a cura di Canova e Karcher, si legge una descrizione dettagliata del dipinto e delle sue condizioni: «Marte e Venere di Rubens, in tela, foderato, in buono stato, riserva di varie crepature di colore nel dorso della Venere, questo nello staccarlo dal telaio avendosi dovuto servirsi di soldati tedeschi, che non intendevano la lingua...»[1].
Europa, dettaglioDescrizione [modifica]L’autore colloca alcuni personaggi in una scena concitata. Rubens visse durante anni di terribili guerre per l'Europa (Guerra dei trent'anni, Guerra civile inglese), viaggiando di corte in corte come diplomatico, e volle dipingere questo quadro allegorico come monito contro gli effetti distruttivi della guerra. La forma allegorica era infatti efficace ed immediata, ma nello stesso tempo priva di qualsiasi riferimento agli eserciti realmente in campo in quel periodo. La scelta di dei dell’Olimpo greco è dunque motivata da un preciso richiamo simbolico.
Europa [modifica]A sinistra la personificazione dell'Europa, vestita a lutto e con l’abito a brandelli, alza gli occhi e le braccia al cielo, stroncata dal dolore, come a supplicare l’aiuto divino. La si può riconoscere dal bambino che al suo fianco regge il globo sormontato dalla croce, simbolo della cristianità[2]. Essa appare quindi disperata dopo tanti anni di saccheggi, oltraggi e miserie che invoca dal cielo la pace. Ciò simboleggia il bisogno impellente che il continente ha di una tregua durevole e allo sperato ritorno alla pacifica quotidianità.
Venere, Cupido e Marte [modifica]Venere, Cupido e Marte, dettaglioAl centro Venere, dea dell’amore - così identificabile per la nudità e per essere accompagnata tradizionalmente dagli amorini - cerca invano, con le arti della seduzione, di trattenere Marte, suo amante e dio della guerra[2]. Cupido è probabilmente l’amorino biondo, alato, che si avvinghia alle gambe della dea, in cui si possono riconoscere le fattezze dell’amato figlio del pittore qui chiamato a impersonare il giovane dio dell’amore.
Marte - perfettamente rispondente all’iconografia classica - appare solenne con scudo e spada sguainata, mentre minaccia rovina e distruzione. Egli, che campeggia al centro della scena, rappresenta quindi la furia selvaggia, cieca, spietata, che si accende nel momento in cui la battaglia si fa più serrata e, ottenebrando la mente dei combattenti, toglie dal loro cuore ogni sentimento di umanità. Dunque la guerra appare rappresentata come ripudio della ragione, come rimozione di ogni valore etico.
La scelta della bionda Venere, preferita ad un’altra tra le dee dell’Olimpo, è legata allegoricamente allo spirito di Humanitas che tenta di sopire la guerra o simboleggia la Vittoria dell’amore e della pace sulle atrocità della guerra. La presenza degli infanti che accompagnano la dea riporta anch’essa alla serenità di un quotidiano che viene incrinata dal conflitto.
La Discordia [modifica]DettaglioA strappare Marte dall’abbraccio di Venere è la Discordia, qui rappresentata dalla Furia Aletto, che con un braccio tira verso di sé il dio e con l’altro regge una torcia accesa[2]. Nella mitologia classica "l'irrefrenabile" non concedeva tregua alle sue vittime ed era per l’appunto raffigurata con una fiaccola in mano, che veniva agitata sopra la testa di quelli che intendeva punire. Dopo Virgilio, la letteratura aveva fatto ricorso a tale figura ogni volta che era necessario sottolineare l’aspetto ferino e incontenibile dei conflitti.
Essa compare raramente nei dipinti. Gli antichi la consideravano la maestra degli agguati e delle trasformazioni, tanto terribile da intimidire anche il dio degli Inferi. Si può dunque ritenere che il pittore volesse sottolineare la natura ingannevole di una scelta militare come soluzione dei conflitti politici, alludendo alla furia dei combattimenti e all’inconciliabilità tra la “guerra opportuna” e la “guerra giusta”.
Dietro la Furia – quasi immersi nel fumo di incendi o dei combattimenti - si intravedono dei mostri, che simboleggiano la Peste e la Carestia, due calamità che accompagnano sempre la guerra, contribuendo a renderne ancor più devastanti gli effetti, con conseguenze ben più durevoli dei soli combattimenti.
Le Arti calpestate [modifica]Le Arti e la Carità calpestate, dettaglioNell'andare alla battaglia Marte calpesta dei libri, distruggendo con essi simbolicamente ogni forma di espressione intellettuale, e travolge le personificazioni dell Arti, quali la musica e l'architettura, personificate rispettivamente dalla donna e dall’uomo abbattuti in basso a destra: la donna, raffigurata di spalle, ha un liuto rotto in mano e mostra che l’armonia non può sopravvivere accanto al disordine della guerra; l’uomo, un architetto, impugna i suoi strumenti, a significare che ciò che si costruisce in tempo di pace è poi distrutto in tempo di guerra[2]. Nel raffigurare la donna, il pittore si rifece probabilmente all’iconografia della mousiké, il complesso delle arti presiedute dalle Muse che comprendeva la poesia, la letteratura, la musica in senso stretto, il teatro, il canto, la danza; comprendeva, in particolare, la poesia come veniva "rappresentata" nel mondo greco, ossia per mezzo del canto accompagnato da uno strumento musicale.
Le Arti sono quindi travolte e annientate, a indicare che la guerra non solo causa morte e distruzione ma spezza la civiltà, intesa come patrimonio culturale umano.
La Carità [modifica]Marte va travolgendo anche una donna che stinge al suo seno il figlioletto, come a cercare di sottrarlo al pericolo[2]. Nell’arte figurativa spesso gli artisti hanno proposto il tema della violenza sugli infanti, rifacendosi al noto episodio evangelico della Strage degli Innocenti. Anche Rubens, in questo dipinto, si rifà all’iconografia classica della madre e del sentimento materno come naturale istinto di protezione, che traduce nel topos della donna caritatevole e, per estensione, della Carità. Essa è quindi un chiaro riferimento alla crudeltà dei conflitti che non risparmiano innocenti e indifesi.
Le frecce sciolte, in basso a sinistra, rappresentano la rottura dell'emblema della Concordia, e sono vicine al caduceo, simbolo dei commerci, gettato a terra[1].
Lo sfondo [modifica]Sullo sfondo, a sinistra, l’edificio con le porte spalancate è il tempio di Giano, inaugurato secondo il mito dal re Numa Pompilio[2]: il tempio veniva lasciato aperto in tempo di guerra per permettere al dio di uscire ed assistere i suoi soldati, mentre restava chiuso in tempo di pace perché il protettore dell'Urbe non potesse uscirne. Le porte aperte significano quindi che il quadro è stato dipinto in occasione di un periodo bellico.
La Discordia/AlectoStile [modifica]Capolavoro tardo del maestro Fiammingo, le Conseguenze della guerra spicca per lo straordinario dinamismo, la complessità delle pose delle figure e la fluidità della pennellata, in cui si leggono chiari omaggi alla pittura italiana del Rinascimento, a partire da Tiziano[2].
I
Sebastiano del Piombo: Martirio di Sant'Agata
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Luca Signorelli - Sacra Famiglia
La Sacra Famiglia con una santa è un dipinto a tempera su tavola (diam 99 cm) di Luca Signorelli, databile al 1490-1495 .
Storia [modifica]Non si conoscono né le circostanze della commissione dell'opera né la sua collocazione originaria e tantomeno la data di ingresso nelle collezioni medicee. Si tratta forse di una delle opere che il principe Mattias de' Medici inviò da Siena nel 1630.
L'opera venne attribuita a Signorelli nel 1879 e da allora non è stata più messa in dubbio, anche se discordanti sono stati i pareri circa la presenza più o meno consistente di aiuti e la datazione.
Berenson, Cruttwell, Mario Salmi e Scarpellini la riferiscono al periodo fiorentino, vicino ad altri tondi dell'artista, tra il 1490 e il 1495. Vischer invece parlò di opera più tarda, del XVI secolo. Olson (200) lo riferì interamente alla bottega, mentre Henry (in Kanter-Testa 2001) lo ha riportato all'autografia del maestro, restringendo la cronologia al 1491-1492, cioè al periodo volterrano.
Descrizione e stile [modifica]L'opera è un esempio significativo delle riflessioni dell'artista sul tema del tondo, frequenti in quegli anni. Si trattava di un esercizio tipicamente fiorentino in cui una serie di personaggi, solitamente una Sacra Famiglia o una Madonna col Bambino magari con angeli e/o santi, erano circoscritti nel cerchio cercando di ottenere una piacevole valorizzazione della forma attraverso il vario disporsi dei personaggi.
In questa opera una santa senza attributi, forse Caterina d'Alessandria, legge un libro poggiato su un tavolo-parapetto coperto da un telo verde, che taglia tutte le figure a mezzobusto. Essa si rivolge indietro, con una torsione, verso Maria, che pure sembra interessata al libro, come lo è Giuseppe, dietro a sinistra, e il Bambino all'estremità destra, quasi seduto su un altro libro aperto poggiato sul parapetto, nell'insolita posizione come se ne stesse uscendo fuori, forse a sottolineare la circostanza della sua nascita che fece avverare le Sacre Scritture.
Tipica dello stile dell'artista di quegli anni è la forte accentuazione plastica delle figure, tramite il panneggio sbalzato come una scultura, e un'impostazione generale dei personaggi assorta a toni malinconici, ma non patetici, come nella produzione popolare ispirata alle predichesavonaroliane. Alcuni dettagli di vivo realismo sono i capelli dorati e sfilacciati, quasi dipinti uno per uno, di Maria.
A sinistra si intravede un piccolo brano paesaggistico, con un picco montano incombente su una torre.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Storia [modifica]Non si conoscono né le circostanze della commissione dell'opera né la sua collocazione originaria e tantomeno la data di ingresso nelle collezioni medicee. Si tratta forse di una delle opere che il principe Mattias de' Medici inviò da Siena nel 1630.
L'opera venne attribuita a Signorelli nel 1879 e da allora non è stata più messa in dubbio, anche se discordanti sono stati i pareri circa la presenza più o meno consistente di aiuti e la datazione.
Berenson, Cruttwell, Mario Salmi e Scarpellini la riferiscono al periodo fiorentino, vicino ad altri tondi dell'artista, tra il 1490 e il 1495. Vischer invece parlò di opera più tarda, del XVI secolo. Olson (200) lo riferì interamente alla bottega, mentre Henry (in Kanter-Testa 2001) lo ha riportato all'autografia del maestro, restringendo la cronologia al 1491-1492, cioè al periodo volterrano.
Descrizione e stile [modifica]L'opera è un esempio significativo delle riflessioni dell'artista sul tema del tondo, frequenti in quegli anni. Si trattava di un esercizio tipicamente fiorentino in cui una serie di personaggi, solitamente una Sacra Famiglia o una Madonna col Bambino magari con angeli e/o santi, erano circoscritti nel cerchio cercando di ottenere una piacevole valorizzazione della forma attraverso il vario disporsi dei personaggi.
In questa opera una santa senza attributi, forse Caterina d'Alessandria, legge un libro poggiato su un tavolo-parapetto coperto da un telo verde, che taglia tutte le figure a mezzobusto. Essa si rivolge indietro, con una torsione, verso Maria, che pure sembra interessata al libro, come lo è Giuseppe, dietro a sinistra, e il Bambino all'estremità destra, quasi seduto su un altro libro aperto poggiato sul parapetto, nell'insolita posizione come se ne stesse uscendo fuori, forse a sottolineare la circostanza della sua nascita che fece avverare le Sacre Scritture.
Tipica dello stile dell'artista di quegli anni è la forte accentuazione plastica delle figure, tramite il panneggio sbalzato come una scultura, e un'impostazione generale dei personaggi assorta a toni malinconici, ma non patetici, come nella produzione popolare ispirata alle predichesavonaroliane. Alcuni dettagli di vivo realismo sono i capelli dorati e sfilacciati, quasi dipinti uno per uno, di Maria.
A sinistra si intravede un piccolo brano paesaggistico, con un picco montano incombente su una torre.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Sodoma: San Sebastiano
San Sebastiano
Tintoretto - Ritratto di Alvise Cornaro
Pl Ritratto di Alvise Cornaro è un dipinto a olio su tela (113x85 cm) di Tintoretto, databile al 1560-1565 circa.
Storia [modifica]L'opera venne acquistata da Leopoldo de' Medici.
Fin dall'inventario del 1698 e, fino a quello del 1829, l'opera venne creduta di Tiziano, per poi essere assegnata a Tintoretto. In palazzo Pitti si possono tracciare gli spostamenti in varie sale degli appartamenti granducali. Durante uno di questi spostamenti andò perduta la cornice originale, che gli inventari ricordano dorata e intagliata, mentre quella odierna, ancorché antica, apparteneva a una tela un po' più grande.
Descrizione e stile [modifica]Alvise Cornaro fu un letterato di famiglia nobile che trascorse gran parte della sua vita a Padova, scrivendo trattati e proteggendo una piccola corte di scienziati e letterati. In una delle sue opere si elogia la "vita sobria", infatti Tintoretto, nel ritrarlo, piuttosto che evidenziarne il rango o la vastità degli interessi culturali, sottolineò l'aspetto più umano, in un accordo misurato di grigi e neri (scuro lo sfondo e l'abito), che fanno risaltare il volto e le mani. Il personaggio è ritratto seduto, a mezza figura, rivolto verso destra.
La mano destra, appoggita sul bracciolo, mostra l'unico segno di nobiltà, un anello con pietra all'anulare. Lo sguardo si perde guardando fuori dalla tela, mentre il volto mostra tutti i segni dell'età, accentuando con profonde ombre nere la scavatura delle guance e delle tempie.aragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Storia [modifica]L'opera venne acquistata da Leopoldo de' Medici.
Fin dall'inventario del 1698 e, fino a quello del 1829, l'opera venne creduta di Tiziano, per poi essere assegnata a Tintoretto. In palazzo Pitti si possono tracciare gli spostamenti in varie sale degli appartamenti granducali. Durante uno di questi spostamenti andò perduta la cornice originale, che gli inventari ricordano dorata e intagliata, mentre quella odierna, ancorché antica, apparteneva a una tela un po' più grande.
Descrizione e stile [modifica]Alvise Cornaro fu un letterato di famiglia nobile che trascorse gran parte della sua vita a Padova, scrivendo trattati e proteggendo una piccola corte di scienziati e letterati. In una delle sue opere si elogia la "vita sobria", infatti Tintoretto, nel ritrarlo, piuttosto che evidenziarne il rango o la vastità degli interessi culturali, sottolineò l'aspetto più umano, in un accordo misurato di grigi e neri (scuro lo sfondo e l'abito), che fanno risaltare il volto e le mani. Il personaggio è ritratto seduto, a mezza figura, rivolto verso destra.
La mano destra, appoggita sul bracciolo, mostra l'unico segno di nobiltà, un anello con pietra all'anulare. Lo sguardo si perde guardando fuori dalla tela, mentre il volto mostra tutti i segni dell'età, accentuando con profonde ombre nere la scavatura delle guance e delle tempie.aragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Tiziano - Ritratto di Giulio II
Il Ritratto di Giulio II è un dipinto ad olio su tavola (108,7x80 cm) d di Tiziano copia da Raffaello.
Tiziano: Ritratto di pietro da Cortona
Ritratto
TitlTiziano: Ritratto Vicenzo Mosti
Ritratto
Tiziano: La Bella.
Ritratto
Tiziano - Ritratto di Ippolito de Medici.
lRitratto di Ippolito de' Medici è un dipinto a olio su tela (139x107 cm) di Tiziano, databile al 1532-1534 circa.
Storia e descrizione [modifica]Ippolito de' Medici, figlio di Giuliano duca di Nemours e quindi nipote di papa Clemente VII, era stato nominato a diciott'anni cardinale, ma nel maturare si rivelò più incline alla guerra che agli affari di Chiesa. Ciò è evidente nel ritratto che si fece fare da Tiziano nel 1533, a Bologna, come riporta Vasari, o forse a Venezia, come testimonierebbe una fonte scoperta nel 2000, legata all'intermediazione di Paolo Giovio (Agosti).
Il protagonista vi appare infatti vestito all'ugherese, in ricordo delle sue imprese a Vienna, durante l'assedio ottomano. Su uno sfondo scuro, gli straordinari accordi di rossi cupi, viola e amaranto, evidenziano il volto perfettamente illuminato, in cui l'espressione ha un che di sicuro e crudele, adatta a un giovane condottiero.
Con piglio guerresco egli infatti regge il bastone del comando, mentre la mano sinistra è poggiata sull'elsa della spada.
Il ritratto venne usato come modello per varie riproduzioni a stampa. Dal 1716 è registrato a Pitti, dove passò in varie sale prima di approdare a quella di Marte dove si trova tutt'oggi.
Storia e descrizione [modifica]Ippolito de' Medici, figlio di Giuliano duca di Nemours e quindi nipote di papa Clemente VII, era stato nominato a diciott'anni cardinale, ma nel maturare si rivelò più incline alla guerra che agli affari di Chiesa. Ciò è evidente nel ritratto che si fece fare da Tiziano nel 1533, a Bologna, come riporta Vasari, o forse a Venezia, come testimonierebbe una fonte scoperta nel 2000, legata all'intermediazione di Paolo Giovio (Agosti).
Il protagonista vi appare infatti vestito all'ugherese, in ricordo delle sue imprese a Vienna, durante l'assedio ottomano. Su uno sfondo scuro, gli straordinari accordi di rossi cupi, viola e amaranto, evidenziano il volto perfettamente illuminato, in cui l'espressione ha un che di sicuro e crudele, adatta a un giovane condottiero.
Con piglio guerresco egli infatti regge il bastone del comando, mentre la mano sinistra è poggiata sull'elsa della spada.
Il ritratto venne usato come modello per varie riproduzioni a stampa. Dal 1716 è registrato a Pitti, dove passò in varie sale prima di approdare a quella di Marte dove si trova tutt'oggi.
Van Dick - Ritratto del Cardinale Bentivoglio
Il ritratto del cardinale Guido Bentivoglio è un dipinto a olio su tela (195x147 cm) di Antoon van Dyck, databile al 1623 circa.
Storia [modifica]L'opera venne realizzata durante il soggiorno dell'artista a Roma, mentre compiva il tradizionale viaggio formativo in Italia. La scelta sul giovane pittore straniero cadde sicuramente per il legame del cardinale Bentivoglio con le Finadre, di cui aveva descritto le guerre in tutt'oggi famoso resoconto. Il dipinto godette subito di una straordinaria popolarità, venendo definito "il più bello, non ha fatto altro dopo che lo possa superare"[1]; Joshua Reynolds ne diede un vivido giusdizio tecnico "poiché van Dick si trovava obbligato a servirsi del colore cremisi per questo ritratto famoso [cioè per la veste cardinalizia], ha collocato nel fondo un panneggio dello stesso colore e ha ripreso il bianco per una lettera poggiata sulla tavola e per il mazzo di fiori che ha voluto introdurre per creare lo stesso effetto sulla tavola"
Un discendente dei Bentivoglio regalò poi il dipinto a Ferdinando II de' Medici nel 1653 e dda allora compare negli inventari, prima alla Guardaroba medicea,poi inTribuna, poi a Palazzo Pitti, nell'appartamento del gran principe Ferdinando.
Descrizione e stile [modifica]L'opera è stata definita come una "straordinaria sinfonia di rossi", capolavor che chiude il soggiorno italiano dell'artista. Il cardinale, nella sua età di piena maturità, è ritratto a figura intera, seduto e a grandezza naturale, con un'attitudine che, tramite misurati ma incisivi gesti e sguardi, sembra dominare l'ambiente circostante. Il volto, ruotato verso destra, ha tratti nobilie d eleganti, le vesti raffinatissime, con una pennellata che si fa ora spedita ora minuziosa per rendere gli effetti materici (della veste, del merletto bianco...), con una raffinata posa delle mani che reggono una lettera in grembo. Fini sono le componenti psicologiche.
Nello sfondo si vede una stanza con libri e altri oggetti e suppelletilli, nonché una tenda rosso scuro che sta scostata in modo da creare una sorta di apparizione teatrale, all'insegna della massima imponenza della figura.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Storia [modifica]L'opera venne realizzata durante il soggiorno dell'artista a Roma, mentre compiva il tradizionale viaggio formativo in Italia. La scelta sul giovane pittore straniero cadde sicuramente per il legame del cardinale Bentivoglio con le Finadre, di cui aveva descritto le guerre in tutt'oggi famoso resoconto. Il dipinto godette subito di una straordinaria popolarità, venendo definito "il più bello, non ha fatto altro dopo che lo possa superare"[1]; Joshua Reynolds ne diede un vivido giusdizio tecnico "poiché van Dick si trovava obbligato a servirsi del colore cremisi per questo ritratto famoso [cioè per la veste cardinalizia], ha collocato nel fondo un panneggio dello stesso colore e ha ripreso il bianco per una lettera poggiata sulla tavola e per il mazzo di fiori che ha voluto introdurre per creare lo stesso effetto sulla tavola"
Un discendente dei Bentivoglio regalò poi il dipinto a Ferdinando II de' Medici nel 1653 e dda allora compare negli inventari, prima alla Guardaroba medicea,poi inTribuna, poi a Palazzo Pitti, nell'appartamento del gran principe Ferdinando.
Descrizione e stile [modifica]L'opera è stata definita come una "straordinaria sinfonia di rossi", capolavor che chiude il soggiorno italiano dell'artista. Il cardinale, nella sua età di piena maturità, è ritratto a figura intera, seduto e a grandezza naturale, con un'attitudine che, tramite misurati ma incisivi gesti e sguardi, sembra dominare l'ambiente circostante. Il volto, ruotato verso destra, ha tratti nobilie d eleganti, le vesti raffinatissime, con una pennellata che si fa ora spedita ora minuziosa per rendere gli effetti materici (della veste, del merletto bianco...), con una raffinata posa delle mani che reggono una lettera in grembo. Fini sono le componenti psicologiche.
Nello sfondo si vede una stanza con libri e altri oggetti e suppelletilli, nonché una tenda rosso scuro che sta scostata in modo da creare una sorta di apparizione teatrale, all'insegna della massima imponenza della figura.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Veronese - Ritratto di Gentiluomo in Pelliccia.
l Ritratto di gentiluomo in pelliccia è un dipinto a olio su tela (140x107 cm) di Paolo Veronese, databile al 1550-1560 .
i
Storia [modifica]L'opera, dalla difficile collocazione cronologica (che agli estremi più ampi varia dal 1549 al 1570), ritrae un personaggio non identificato. Tentativi di riconoscerviDaniele Barbaro sono insostenibili con il confronto con un ritratto dello stesso nel Rijksmuseum di Amsterdam.
Fu acquistata dal cardinale Leopoldo de' Medici tramite un suo agente.
Ne esistono alcune copie su incisione antiche, di T. Ver. Cruyse dal Paradis.
Descrizione e stile :Una stanza appena accennata negli elementi base , fa da sfondo al ritratto virile fino al ginocchio, di un personaggio riccamente abbigliato con un mantello foderato di pelliccia d'ermellino. Egli guarda intensamente verso lo spettatore e porta la barba lunga, i capelli corti e briozzolati, l'abito nero tipico dell'epoca. In mano stringe un fazzoletto.
Evidente è l'influenza di Tiziano, ma l'autore riuscì a trovare una propria nota personale nella ricerca di individualità del soggetto e, soprattutto, tramite la ricchezza della materia pittorica, qui evidente nella superba resa della pelliccia.
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Storia [modifica]L'opera, dalla difficile collocazione cronologica (che agli estremi più ampi varia dal 1549 al 1570), ritrae un personaggio non identificato. Tentativi di riconoscerviDaniele Barbaro sono insostenibili con il confronto con un ritratto dello stesso nel Rijksmuseum di Amsterdam.
Fu acquistata dal cardinale Leopoldo de' Medici tramite un suo agente.
Ne esistono alcune copie su incisione antiche, di T. Ver. Cruyse dal Paradis.
Descrizione e stile :Una stanza appena accennata negli elementi base , fa da sfondo al ritratto virile fino al ginocchio, di un personaggio riccamente abbigliato con un mantello foderato di pelliccia d'ermellino. Egli guarda intensamente verso lo spettatore e porta la barba lunga, i capelli corti e briozzolati, l'abito nero tipico dell'epoca. In mano stringe un fazzoletto.
Evidente è l'influenza di Tiziano, ma l'autore riuscì a trovare una propria nota personale nella ricerca di individualità del soggetto e, soprattutto, tramite la ricchezza della materia pittorica, qui evidente nella superba resa della pelliccia.