MUSEO DELL'OPERA DEL DUOMO
Ad oggi il museo espone un gran numero di capolavori che offrono una panoramica completa dello sviluppo della scultura fiorentina dal Trecento al Cinquecento. Fra le opere più importanti le formelle originali di Lorenzo Ghiberti della Porta del Paradiso del Battistero; le sculture di Arnolfo di Cambio, provenienti in larga parte dall'antica facciata della cattedrale (Bonifacio VIII, il ciclo mariano, ecc...); le cantorie del Duomo di Donatello e di Luca della Robbia; le opere staccate dal campanile come le formelle di Andrea Pisano, le sculture di Donatello come il Profeta Abacuc (soprannominato dai fiorentini lo Zuccone per via del cranio calvo); la Maddalena penitente, sempre di Donatello, una commovente scultura lignea; la Pietà di Michelangelo (1548-1555), un'opera tarda concepita forse come monumento per la sua sepoltura.
Tuttavia il Museo possiede anche una lunghissima serie di reperti romani utilizzati nella costruzione di templi, sculture e bassorilievi e una vasta collezione di arte sacra (reliquiari, croci, cofanetti, pianete, pastorali).
La reliquia di un dito di san Giovanni Battista fu donata dall'Antipapa Giovanni XXIII, che fu sepolto a Firenze.
I lavori di ingrandimento, ammodernamento e adeguamento tecnico condotti fra il 1998 e il 2000, in vista del Giubileo, da Luigi Zangheri e David Palterer hanno incrementato l'area espositiva del vecchio museo di circa un terzo. Un nuovo ampliamento, progettato da Adolfo Natalini, dovrebbe essere realizzato dal 2009 nei locali attigui al museo a sinistra dell'attuale biglietteria, dove si trova l'ex-teatro degli Intrepidi, voluto dal Granduca Pietro Leopoldo nel 1779.
Tuttavia il Museo possiede anche una lunghissima serie di reperti romani utilizzati nella costruzione di templi, sculture e bassorilievi e una vasta collezione di arte sacra (reliquiari, croci, cofanetti, pianete, pastorali).
La reliquia di un dito di san Giovanni Battista fu donata dall'Antipapa Giovanni XXIII, che fu sepolto a Firenze.
I lavori di ingrandimento, ammodernamento e adeguamento tecnico condotti fra il 1998 e il 2000, in vista del Giubileo, da Luigi Zangheri e David Palterer hanno incrementato l'area espositiva del vecchio museo di circa un terzo. Un nuovo ampliamento, progettato da Adolfo Natalini, dovrebbe essere realizzato dal 2009 nei locali attigui al museo a sinistra dell'attuale biglietteria, dove si trova l'ex-teatro degli Intrepidi, voluto dal Granduca Pietro Leopoldo nel 1779.
Donatello
Creazione di Eva
La formella forse proviene da un perduto cassone con le Storie della Genesi, del quale fa genericamente menzione Vasari come opera per i Medici nella biografia di Donatello nelle sue Vite. L'opera rappresenta il più antico esperimento di terracotta rivestita di vernice ceramica (antesignano dell'invetriatura messa a punto da Luca della Robbia), anche se il rivestimento a vernice priombifera con successiva doratura a freddo è quasi completamente perduto.
La scena si rifà a una formella del Campanile di Giotto di Andrea Pisano, con i personaggi principali nelle stesse posizioni anche se Eva, che nell'opera trecentesca è quasi reclinata, qui è raffigurata ormai in piedi, mentre si aggrappa con le braccia ad abbracciare Dio che l'ha creata.
L'opera, che risente una certa influenza delle opere di Lorenzo Ghiberti, soprattutto nella commistione tra figure modellate all'antica e un paesaggio roccioso tipicamente gotico, è stata in passato attribuita a vari artisti, da Luca della Robbia a Ghiberti stesso. L'attribuzione a Donatello è confermata anche da un documento del 1404 che testimonia la sua presenza accanto a Ghiberti nei lavori per la porta nord del Battistero di Firenze, inoltre il profilo di Adamo mostra analogie con altre opere giovanili, come il San Marco di Orsanmichele e il crocifisso di Santa Croce.
La scena si rifà a una formella del Campanile di Giotto di Andrea Pisano, con i personaggi principali nelle stesse posizioni anche se Eva, che nell'opera trecentesca è quasi reclinata, qui è raffigurata ormai in piedi, mentre si aggrappa con le braccia ad abbracciare Dio che l'ha creata.
L'opera, che risente una certa influenza delle opere di Lorenzo Ghiberti, soprattutto nella commistione tra figure modellate all'antica e un paesaggio roccioso tipicamente gotico, è stata in passato attribuita a vari artisti, da Luca della Robbia a Ghiberti stesso. L'attribuzione a Donatello è confermata anche da un documento del 1404 che testimonia la sua presenza accanto a Ghiberti nei lavori per la porta nord del Battistero di Firenze, inoltre il profilo di Adamo mostra analogie con altre opere giovanili, come il San Marco di Orsanmichele e il crocifisso di Santa Croce.
Profeta imberbe
Il soggetto della statua non è stato chiaramente identificato per la mancanza di attributi iconografici, per cui è chiamato col nome convenzionale di Profeta imberbe o col cartiglio. La statua è ispirata al modello classico dell'oratore ed è caratterizzata da un forte realismo e da una profonda intensità espressiva, sottolineata dal leggero ancheggiamento e dallo scarto verso sinistra della testa, estrinsecante un senso di energia trattenuta come nelle migliori opere di Donatello. Pare che per questa opera fece da modello Filippo Brunelleschi, amico di Donatello di circa dieci anni più anziano. La testa è infatti trattata con penetrante individuazione fisiognomica che non ha niente di convenzionale.
I lineamenti sono contratti e disarmonici, ma l'effetto generale di imponenza e dignità è dato dai gesti pacati e dal forte effetto chiaroscurale dei panneggi. La figura guarda verso il basso, poiché la sua collocazione iniziale era a molti metri di altezza. Il gesto di indicare il cartiglio che regge in mano è molto eloquente e sottolinea l'importanza della sua profezia e lo sforzo insistente di comunicare con l'osservatore. Le lettere, probabilmente dipinte, non sono però più visibili.
I lineamenti sono contratti e disarmonici, ma l'effetto generale di imponenza e dignità è dato dai gesti pacati e dal forte effetto chiaroscurale dei panneggi. La figura guarda verso il basso, poiché la sua collocazione iniziale era a molti metri di altezza. Il gesto di indicare il cartiglio che regge in mano è molto eloquente e sottolinea l'importanza della sua profezia e lo sforzo insistente di comunicare con l'osservatore. Le lettere, probabilmente dipinte, non sono però più visibili.
Profeta Pensieroso
Profeta pensieroso è una scultura di Donatello proveniente dalle nicchie del terzo ordine del Campanile di Giotto, risalente al 1418-1420. È in marmo bianco a grandezza naturale (193x64x44 cm) ed è oggi conservata nel Museo dell'Opera del Duomo di Firenze.
La statua era la prima da destra del lato est del campanile, quello verso la cupola del Brunelleschi, che all'epoca doveva ancora essere costruita. Le altre tre statue di questo lato erano il Profeta imberbe, sempre di Donatello (1416-1418), il Profeta barbuto di Nanni di Bartolo (1408) e il Sacrificio di Isacco di Donatello e Nanni di Bartolo (1421).
Le statue delle nicchie vennero trasferite nel museo nel 1937 e sostituite all'esterno da copie. Annerite dagli agenti atmosferici sono tutt'ora in corso di pulizia a restauro. Il Profeta pensieroso non è ancora stato restaurato.
Descrizione [modifica]
Il soggetto della statua non è stato chiaramente identificato per la mancanza di attributi iconografici, per cui è chiamato col nome convenzionale di Profeta barbuto o Il Pensieroso, per via dell'espressione assorta sottolineata dalla mano che regge il mento con un dito disteso sulla guancia. La statua è caratterizzata da un forte realismo e da una profonda intensità espressiva con un senso di energia trattenuta come nelle migliori opere di Donatello. La testa è trattata con penetrante individuazione fisiognomica che non ha niente di convenzionale e ricorda il San Marco di Orsanmichele, di pochi anni anteriore. I lineamenti sono contratti e disarmonici, ma l'effetto generale di imponenza e dignità è dato dai gesti pacati e dal forte effetto chiaroscurale dei panneggi.
La figura guarda verso il basso poiché la sua collocazione iniziale era a molti metri di altezza, quindi, col busto leggermente inclinato in avanti, guarda verso i suoi ideali spettatori.
La statua era la prima da destra del lato est del campanile, quello verso la cupola del Brunelleschi, che all'epoca doveva ancora essere costruita. Le altre tre statue di questo lato erano il Profeta imberbe, sempre di Donatello (1416-1418), il Profeta barbuto di Nanni di Bartolo (1408) e il Sacrificio di Isacco di Donatello e Nanni di Bartolo (1421).
Le statue delle nicchie vennero trasferite nel museo nel 1937 e sostituite all'esterno da copie. Annerite dagli agenti atmosferici sono tutt'ora in corso di pulizia a restauro. Il Profeta pensieroso non è ancora stato restaurato.
Descrizione [modifica]
Il soggetto della statua non è stato chiaramente identificato per la mancanza di attributi iconografici, per cui è chiamato col nome convenzionale di Profeta barbuto o Il Pensieroso, per via dell'espressione assorta sottolineata dalla mano che regge il mento con un dito disteso sulla guancia. La statua è caratterizzata da un forte realismo e da una profonda intensità espressiva con un senso di energia trattenuta come nelle migliori opere di Donatello. La testa è trattata con penetrante individuazione fisiognomica che non ha niente di convenzionale e ricorda il San Marco di Orsanmichele, di pochi anni anteriore. I lineamenti sono contratti e disarmonici, ma l'effetto generale di imponenza e dignità è dato dai gesti pacati e dal forte effetto chiaroscurale dei panneggi.
La figura guarda verso il basso poiché la sua collocazione iniziale era a molti metri di altezza, quindi, col busto leggermente inclinato in avanti, guarda verso i suoi ideali spettatori.
Profetini ( Nanni di Banco?)
Il Profetino è un'opera attribuita a Donatello e risalente dal 1407. È in marmo bianco e misura 128 cm in altezza.
Proveniente dalla Porta della Mandorla di Santa Maria del Fiore, fa coppia con un altro Profetino oggi attribuito prevalentemente a Nanni di Banco. Non è chiaro se queste due opere siano quelle citate nei documenti di pagamento intestati a Donatello da parte dell'Opera, datati 1406 e 1408. In tali ricevute si menzionano due profeti, ma essi sono registrati come alti un braccio e un terzo, cioè circa 80 cm. Alcuni hanno allora ipotizzato che il documento si riferisca ai due profeti sulla porta del campanile, ma essi sono in stile tardogotico, molto lontano dalle prime opere certe del giovane Donatello.
Inoltre tutte e due le statue sono pagate a Donatello, ma esse sono molto diverse da un punto di vista stilistico, tanto che, fidandosi dell'attribuzione del documento, alcuni vi leggevano una possibile incertezza del giovane scultore ancora in cerca di un proprio stile.
Oggi il profeta di sinistra è generalmente attribuito a Donatello, in base a confronti con altre opere giovanili come il David marmoreo del Bargello. Esso però non ha gli attributi di un profeta (non porta nessun cartiglio con profezie), anzi la sua posa ricorda quella degli angeli annuncianti, per cui faceva forse originariamente coppia con una statua della Vergine annunciata. Qualcuno, con meno argomenti, ha attribuito l'opera a Bernardo Ciuffagni.
Il fatto che l'altra statua sia probabilmente opera di Nanni di Banco non è in assoluto in contraddizione coi documenti: lo scultore in quel periodo era infatti in società con Donatello e pure lui impegnato nella decorazione della porta della Mandorla
Proveniente dalla Porta della Mandorla di Santa Maria del Fiore, fa coppia con un altro Profetino oggi attribuito prevalentemente a Nanni di Banco. Non è chiaro se queste due opere siano quelle citate nei documenti di pagamento intestati a Donatello da parte dell'Opera, datati 1406 e 1408. In tali ricevute si menzionano due profeti, ma essi sono registrati come alti un braccio e un terzo, cioè circa 80 cm. Alcuni hanno allora ipotizzato che il documento si riferisca ai due profeti sulla porta del campanile, ma essi sono in stile tardogotico, molto lontano dalle prime opere certe del giovane Donatello.
Inoltre tutte e due le statue sono pagate a Donatello, ma esse sono molto diverse da un punto di vista stilistico, tanto che, fidandosi dell'attribuzione del documento, alcuni vi leggevano una possibile incertezza del giovane scultore ancora in cerca di un proprio stile.
Oggi il profeta di sinistra è generalmente attribuito a Donatello, in base a confronti con altre opere giovanili come il David marmoreo del Bargello. Esso però non ha gli attributi di un profeta (non porta nessun cartiglio con profezie), anzi la sua posa ricorda quella degli angeli annuncianti, per cui faceva forse originariamente coppia con una statua della Vergine annunciata. Qualcuno, con meno argomenti, ha attribuito l'opera a Bernardo Ciuffagni.
Il fatto che l'altra statua sia probabilmente opera di Nanni di Banco non è in assoluto in contraddizione coi documenti: lo scultore in quel periodo era infatti in società con Donatello e pure lui impegnato nella decorazione della porta della Mandorla
Sacrificio di Isacco
lL Sacrificio di Isacco è una scultura di Donatello e Nanni di Bartolo proveniente dalle nicchie del terzo ordine del Campanile di Giotto, risalente al 1421. È in marmo bianco a grandezza naturale (188x56 cm) ed è oggi conservata nel Museo dell'Opera del Duomo di Firenze. Nonostante il gruppo di due figure esse riescono ad occupare lo spazio di una sola, per adattarsi alla forma standard della nicchia che originariamente occupavano.
La statua era la terza, da sinistra, del lato est del campanile, quello verso la cupola del Brunelleschi, che all'epoca doveva ancora essere costruita. Le altre tre statue di questo lato erano il Profeta imberbe di Donatello (1416-1418), il Profeta barbuto di Nanni di Bartolo (1408) e il Profeta pensieroso, sempre di Donatello (1418-1420).
La commissione venne firmata da Donatello il 10 marzo 1421 alla presenza del solo allievo e aiutante Nanni di Bartolo detto il Rosso, accettando, secondo una pratica comune nelle botteghe, l'incarico per entrambi. Ciò farebbe pensare a una collaborazione tra i due, ma critica oggi tende a propendere per una paternità, se non esclusiva, almeno preponderante di Donatello.
Le statue delle nicchie vennero trasferite nel museo nel 1937 e sostituite all'esterno da copie. Annerite dagli agenti atmosferici sono tutt'ora in corso di pulizia a restauro. Il Sacrificio di Isacco è attualmente in restauro (2009).
Descrizione [modifica]
Il soggetto della statua è l'unico chiaramente identificato tra le statue di questo lato. Le figure sono composte secondo un vibrante dinamismo dato dalla torsione. Il momento rappresentato sembra quello in cui Abramo ha appena ricevuto l'intimazione dell'angelo divino a fermarsi, come sembra indicare il suo sguardo rivolto verso l'alto, che lo sta distraendo dal sacrificio in corso.
Abramo ha una gamba poggiata su un fascio di legni, necessari al sacrificio, e il coltello in mano già vicino al collo del figlio tenuto per i capelli, il quale si ritrae con compostezza scartando verso destra. Il suo piede della gamba verso l'esterno esce dalla nicchia, invadendo lo spazio esterno in modo da interagire maggiormente con l'osservatore.
La scelta del soggetto non era inedita, anzi era stata al centro del famoso concorso per la porta nord del Battistero di Firenze del 1401.
La statua era la terza, da sinistra, del lato est del campanile, quello verso la cupola del Brunelleschi, che all'epoca doveva ancora essere costruita. Le altre tre statue di questo lato erano il Profeta imberbe di Donatello (1416-1418), il Profeta barbuto di Nanni di Bartolo (1408) e il Profeta pensieroso, sempre di Donatello (1418-1420).
La commissione venne firmata da Donatello il 10 marzo 1421 alla presenza del solo allievo e aiutante Nanni di Bartolo detto il Rosso, accettando, secondo una pratica comune nelle botteghe, l'incarico per entrambi. Ciò farebbe pensare a una collaborazione tra i due, ma critica oggi tende a propendere per una paternità, se non esclusiva, almeno preponderante di Donatello.
Le statue delle nicchie vennero trasferite nel museo nel 1937 e sostituite all'esterno da copie. Annerite dagli agenti atmosferici sono tutt'ora in corso di pulizia a restauro. Il Sacrificio di Isacco è attualmente in restauro (2009).
Descrizione [modifica]
Il soggetto della statua è l'unico chiaramente identificato tra le statue di questo lato. Le figure sono composte secondo un vibrante dinamismo dato dalla torsione. Il momento rappresentato sembra quello in cui Abramo ha appena ricevuto l'intimazione dell'angelo divino a fermarsi, come sembra indicare il suo sguardo rivolto verso l'alto, che lo sta distraendo dal sacrificio in corso.
Abramo ha una gamba poggiata su un fascio di legni, necessari al sacrificio, e il coltello in mano già vicino al collo del figlio tenuto per i capelli, il quale si ritrae con compostezza scartando verso destra. Il suo piede della gamba verso l'esterno esce dalla nicchia, invadendo lo spazio esterno in modo da interagire maggiormente con l'osservatore.
La scelta del soggetto non era inedita, anzi era stata al centro del famoso concorso per la porta nord del Battistero di Firenze del 1401.
CANTORIA
La Cantoria di Donatello è un'opera scolpita per la cattedrale di Santa Maria del Fiore di Firenze ed oggi conservata nel Museo dell'Opera del Duomo, davanti all'altra cantoria di Luca della Robbia. Considerata uno dei capolavori del primo rinascimento fiorentino, fu scolpita tra il 1433 e il 1438 ed è grande 348x570x98 cm.
I
In vista della consacrazione della cattedrale le maestranze dell'Opera, che sovrintendevano alla costruzione, affrettarono nei primi decenni del XV secolo il completamento della decorazione interna ed esterna, almeno nelle parti più essenziali.
Per ospitare i coristi addetti ai canti liturgici e il nuovo organo maggiore, ordinato a Matteo da Prato nel 1432, venne deciso di costruire due cantorie o "pergami" nel presbiterio, che stessero simmetricamente in posizione rialzata ai lati dell'altare maggiore, uno sulla porta della sagrestia dei Canonici e uno su quella della sagrestia delle Messe.
La prima ad essere menzionata nei documenti è quella per il lato della Sagrestia delle Messe (a sinistra), commissionata a Luca nel 1431. Il 14 novembre 1433 venne allogata anche la seconda cantoria della Sagrestia dei Canonici a Donatello, stabilendo un compenso di 40 fiorini a pezzo, se fosse venuta altrettanto bene come quella di Luca della Robbia, ma con la possibilità di arrivare a 50 se "di più perfezione possa avere". Lo scultore era da poco rientrato dal suo secondo viaggio a Roma (1430-1432), dove aveva potuto studiare le rovine imperiali, ma anche le opere paleocristiane (come i sarcofagi a colonne) e i mosaici medievali, cofani eburnei bizantini, esperienze che vennero tutte utilizzate nella creazione della cantoria.
Donatello usò una cappella all'interno del Duomo come laboratorio dove scolpire, come già aveva fatto con il San Giovanni Evangelista, assistito da maestranze che l'Opera gli aveva messo a disposizione.
Nel 1438 i documenti ricordano il lavoro come quasi completato, mancando solo una delle teste bronzee per i pannelli sotto il mensolone centrale, per la quale Donatello ricevette 300 libbre di bronzo (circa 30 chili). Nel 1446 si fece una stima per il pagamento finale dell'opera e venne valutata 886 fiorini (molto più dei 382 dati a Luca), che Donatello poteva ritirare presso il banco di Cosimo de' Medici, al netto degli acconti, solo sei mesi dopo aver gettato la fusione delle porte bronzee della sacrestia dei Canonici, commissionate nel 1437 ma di fatto mai eseguite. Probabilmente in seguito Donatello trovò comunque il modo di farsi saldare facendo rivedere gli accordi.
La cantoria di Luca della Robbia
Vasari cita due putti in bronzo di Donatello che si trovavano sulla cantoria di Luca della Robbia, che non è chiaro se fossero originariamente collocati sulla sua cantoria. Essi sono in genere identificati con i due putti del Museo Jacquemart-André di Parigi.
Nel 1688, per le nozze del Gran Principe Ferdinando de' Medici con Violante di Baviera, l'intera cattedrale venne addobbata con grande sfarzo barocco e le due cantorie, giudicate troppo piccole e fuori moda, vennero smontate e depositate nei locali dell'Opera, tenendo però le basi e i mensoloni come sostegno di due nuove, enormi cantorie lignee intarsiate. Nel XIX secolo, durante i lavori generali di ristrutturazione e selezione delle opere nella cattedrale, diretti da Gaetano Baccani, vennero rimosse anche le parti restanti e montate due semplici cantorie in pietra tuttora visibili.
Le cantorie nel XIX secolo furono al centro di numerose proposte di ricomposizione e musealizzazione: vennero esposte per tempi più o meno lunghi agli Uffizi e al Bargello, mentre si avvicendavano controverse proposte di riassemblaggio, magari al loro posto in Duomo.
Nel 1887 venne infine deciso di dedicare loro un nuovo museo, il Museo dell'Opera del Duomo, realizzato dall'architetto Luigi del Moro, dove potessero essere ammirata accanto ad altre opere provenienti dalla cattedrale, dai monumenti satellite e dai depositi dell'Opera, che si andò via via arricchendo nei decenni successivi. Nel 1891 la cantoria arrivò al museo, venne rimontata, restaurata e reintegrata con piccoli interventi trascurabili con conclusione dei lavori al 1895.
Le mensole
La posizione originale della cantoria su una parete sud, esposta quindi a nord, la collocava in una perenne penombra che avrebbe reso difficile la lettura del lavoro. Per questo lo scultore cercò di valorizzare al massimo la poca luce disponibile e, ispirandosi alla facciata di allora del Duomo di Firenze, risalente a Arnolfo di Cambio, decise di sfruttare intarsi a marmi policromi ravvivati da uno sfondo reso vibrante da tessere di mosaico colorato e a fondo oro.
L'architettura della cantoria è rigorosamente geometrica: un parallelepipedo di altezza uguale ai cinque mensoloni che lo sorreggono genera un rettangolo ideale bipartiro. Ad ogni mensola corrispondono due colonnine sul parapetto, che sono staccate dallo sfondo e sostengono un architrave sporgente, creando una sorta di porticato-palcoscenico, dietro il quale corre il fregio dei putti danzanti. Anche Donatello, su suggerimento dell'operario dell'Opera Neri Capponi, si ispirò a un salmo per la decorazione, forse il 148 o il 149 dove si allude alla danza come espressione di gioia spirituale.
I rilievi del fregio sono continui e mostrano una frenetica danza ripresa da sarcofagi e rilievi romani con temi dionisiaci, come i due rilievi di genietti danzanti oggi nelle collezioni archeologiche degli Uffizi. La danza di Donatello è composta come un girotondo continuo che si svolge su due piani sovrapposti ma in direzione apposta: le figure in primo piano vanno prevalentemente verso sinistra, quelle in secondo piano verso destra. Il tutto è organizzato prevalentemente con linee diagonali, che contrastano con la partitura orizzontale e verticale dell'architettura della cantoria facendo scaturire uno straordinario dinamismo dai contrasti, che esalta il movimento come un liberarsi gioioso delle energie fisiche. I putti, raffigurati nelle posizioni più varie, in accordo con la teoria della varietas di Leon Battista Alberti, sembrano lanciati in una corsa che nemmeno la partitura architettonica frena (come nel pulpito di Prato), ma anzi la esalta. Inoltre lo sfavillante balenio delle paste vitree dello sfondo, più ricche e colorate di quelle dell'opera pratese, accentua il senso di movimento e la varietà fantasiosa degli elementi decorativi, anche sul parapetto, sulla base e sulle mensole. Niente di più diverso dalla serena e pacata compostezza classica dell'opera gemella di Luca della Robbia: è stato detto che se Luca è "apollineo", Donatello è "dionisiaco"[1].
Ma il rilievo di Donatello va anche oltre il modello classico, condensando una serie più ampia di stimoli e usando una tecnica sperimentale, che tratta le figure di getto senza troppi rifinimenti, lasciandole volutamente "grezze", che venne sviluppata nel non finito di Michelangelo. Il Vasari scrisse che Donatello eseguì "le figure in bozze, le quali a guardarle di terra paiono veramente vivere e muoversi".
Negli spazi tra mensola e mensola Donatello inserì ai lati due rilievi con coppie di putti, e al centro due teste protome in bronzo dorato, derivate probabilmente da un modello classico oggi sconosciuto e legate probabilmente a un significato simbolico che non è stato ancora individuato.
I
In vista della consacrazione della cattedrale le maestranze dell'Opera, che sovrintendevano alla costruzione, affrettarono nei primi decenni del XV secolo il completamento della decorazione interna ed esterna, almeno nelle parti più essenziali.
Per ospitare i coristi addetti ai canti liturgici e il nuovo organo maggiore, ordinato a Matteo da Prato nel 1432, venne deciso di costruire due cantorie o "pergami" nel presbiterio, che stessero simmetricamente in posizione rialzata ai lati dell'altare maggiore, uno sulla porta della sagrestia dei Canonici e uno su quella della sagrestia delle Messe.
La prima ad essere menzionata nei documenti è quella per il lato della Sagrestia delle Messe (a sinistra), commissionata a Luca nel 1431. Il 14 novembre 1433 venne allogata anche la seconda cantoria della Sagrestia dei Canonici a Donatello, stabilendo un compenso di 40 fiorini a pezzo, se fosse venuta altrettanto bene come quella di Luca della Robbia, ma con la possibilità di arrivare a 50 se "di più perfezione possa avere". Lo scultore era da poco rientrato dal suo secondo viaggio a Roma (1430-1432), dove aveva potuto studiare le rovine imperiali, ma anche le opere paleocristiane (come i sarcofagi a colonne) e i mosaici medievali, cofani eburnei bizantini, esperienze che vennero tutte utilizzate nella creazione della cantoria.
Donatello usò una cappella all'interno del Duomo come laboratorio dove scolpire, come già aveva fatto con il San Giovanni Evangelista, assistito da maestranze che l'Opera gli aveva messo a disposizione.
Nel 1438 i documenti ricordano il lavoro come quasi completato, mancando solo una delle teste bronzee per i pannelli sotto il mensolone centrale, per la quale Donatello ricevette 300 libbre di bronzo (circa 30 chili). Nel 1446 si fece una stima per il pagamento finale dell'opera e venne valutata 886 fiorini (molto più dei 382 dati a Luca), che Donatello poteva ritirare presso il banco di Cosimo de' Medici, al netto degli acconti, solo sei mesi dopo aver gettato la fusione delle porte bronzee della sacrestia dei Canonici, commissionate nel 1437 ma di fatto mai eseguite. Probabilmente in seguito Donatello trovò comunque il modo di farsi saldare facendo rivedere gli accordi.
La cantoria di Luca della Robbia
Vasari cita due putti in bronzo di Donatello che si trovavano sulla cantoria di Luca della Robbia, che non è chiaro se fossero originariamente collocati sulla sua cantoria. Essi sono in genere identificati con i due putti del Museo Jacquemart-André di Parigi.
Nel 1688, per le nozze del Gran Principe Ferdinando de' Medici con Violante di Baviera, l'intera cattedrale venne addobbata con grande sfarzo barocco e le due cantorie, giudicate troppo piccole e fuori moda, vennero smontate e depositate nei locali dell'Opera, tenendo però le basi e i mensoloni come sostegno di due nuove, enormi cantorie lignee intarsiate. Nel XIX secolo, durante i lavori generali di ristrutturazione e selezione delle opere nella cattedrale, diretti da Gaetano Baccani, vennero rimosse anche le parti restanti e montate due semplici cantorie in pietra tuttora visibili.
Le cantorie nel XIX secolo furono al centro di numerose proposte di ricomposizione e musealizzazione: vennero esposte per tempi più o meno lunghi agli Uffizi e al Bargello, mentre si avvicendavano controverse proposte di riassemblaggio, magari al loro posto in Duomo.
Nel 1887 venne infine deciso di dedicare loro un nuovo museo, il Museo dell'Opera del Duomo, realizzato dall'architetto Luigi del Moro, dove potessero essere ammirata accanto ad altre opere provenienti dalla cattedrale, dai monumenti satellite e dai depositi dell'Opera, che si andò via via arricchendo nei decenni successivi. Nel 1891 la cantoria arrivò al museo, venne rimontata, restaurata e reintegrata con piccoli interventi trascurabili con conclusione dei lavori al 1895.
Le mensole
La posizione originale della cantoria su una parete sud, esposta quindi a nord, la collocava in una perenne penombra che avrebbe reso difficile la lettura del lavoro. Per questo lo scultore cercò di valorizzare al massimo la poca luce disponibile e, ispirandosi alla facciata di allora del Duomo di Firenze, risalente a Arnolfo di Cambio, decise di sfruttare intarsi a marmi policromi ravvivati da uno sfondo reso vibrante da tessere di mosaico colorato e a fondo oro.
L'architettura della cantoria è rigorosamente geometrica: un parallelepipedo di altezza uguale ai cinque mensoloni che lo sorreggono genera un rettangolo ideale bipartiro. Ad ogni mensola corrispondono due colonnine sul parapetto, che sono staccate dallo sfondo e sostengono un architrave sporgente, creando una sorta di porticato-palcoscenico, dietro il quale corre il fregio dei putti danzanti. Anche Donatello, su suggerimento dell'operario dell'Opera Neri Capponi, si ispirò a un salmo per la decorazione, forse il 148 o il 149 dove si allude alla danza come espressione di gioia spirituale.
I rilievi del fregio sono continui e mostrano una frenetica danza ripresa da sarcofagi e rilievi romani con temi dionisiaci, come i due rilievi di genietti danzanti oggi nelle collezioni archeologiche degli Uffizi. La danza di Donatello è composta come un girotondo continuo che si svolge su due piani sovrapposti ma in direzione apposta: le figure in primo piano vanno prevalentemente verso sinistra, quelle in secondo piano verso destra. Il tutto è organizzato prevalentemente con linee diagonali, che contrastano con la partitura orizzontale e verticale dell'architettura della cantoria facendo scaturire uno straordinario dinamismo dai contrasti, che esalta il movimento come un liberarsi gioioso delle energie fisiche. I putti, raffigurati nelle posizioni più varie, in accordo con la teoria della varietas di Leon Battista Alberti, sembrano lanciati in una corsa che nemmeno la partitura architettonica frena (come nel pulpito di Prato), ma anzi la esalta. Inoltre lo sfavillante balenio delle paste vitree dello sfondo, più ricche e colorate di quelle dell'opera pratese, accentua il senso di movimento e la varietà fantasiosa degli elementi decorativi, anche sul parapetto, sulla base e sulle mensole. Niente di più diverso dalla serena e pacata compostezza classica dell'opera gemella di Luca della Robbia: è stato detto che se Luca è "apollineo", Donatello è "dionisiaco"[1].
Ma il rilievo di Donatello va anche oltre il modello classico, condensando una serie più ampia di stimoli e usando una tecnica sperimentale, che tratta le figure di getto senza troppi rifinimenti, lasciandole volutamente "grezze", che venne sviluppata nel non finito di Michelangelo. Il Vasari scrisse che Donatello eseguì "le figure in bozze, le quali a guardarle di terra paiono veramente vivere e muoversi".
Negli spazi tra mensola e mensola Donatello inserì ai lati due rilievi con coppie di putti, e al centro due teste protome in bronzo dorato, derivate probabilmente da un modello classico oggi sconosciuto e legate probabilmente a un significato simbolico che non è stato ancora individuato.
San Giovanni evangelista
.L'Opera del Duomo commissionò la statua dell'evangelista seduto a Donatello, mentre contemporaneamente venivano scolpiti San Luca da Nanni di Banco, San Matteo di Bernardo Ciuffagni e San Marco di Niccolò di Pietro Lamberti, tutte oggi collocate nella stessa sala del museo. La serie adornava quattro nicchioni disposti ai lati del portale centrale della distrutta facciata arnolfiana, come si vede in un disegno cinquecentesco di Bernardino Poccetti. Inizialmente era stato pensato anche un concorso tra Nanni di Banco, Donatello e Niccolò Lamberti per scegliere l'opera migliore ed affidare al suo creatore il compito di scolpire anche l'ultima statua della serie, ma visti i tempi lunghi delle opere il progetto era già stato accantonato nel 1410, quando venne affidato il San Matteo di Bernardo Ciuffagni.
A Donatello venne offerta una cappella in Duomo per scolpire il suo evangelista e nel luglio del 1410 l'ambiente venne chiuso da assi per non rivelare l'opera prima del compimento. I lavori andarono per le lunghe per via degli impegni dello scultore e nell'aprile 1415 Donatello ricevette a casa sua una notifica dove si ingiungeva di terminare l'opera entro l'anno, pena una multa di 25 fiorini. L'artista allora si dedicò a completare il lavoro, consegnando nell'ottobre di quell'anno e ricevendo un compenso di 160 fiorini.
Descrizione e stile [modifica]
Donatello, nel suo evangelista reagì al manierismo tardogotico, non solo riallacciandosi alla nobile compostezza della statuaria antica ma ricercando brani di autentica umanità e verità.
Il santo è rappresentato seduto, con il tipico attributo del libro tenuto in piedi su una gamba dalla mano sinistra. Il panneggio crea forti effetti di chiaroscuro, con ampie pieghe, soprattutto nella parte inferiore, che accrescono il senso del volume delle membra sottostanti, senza nasconderle e senza lesinare su giochi lineari tardogotici. Le spalle sono curve, le braccia sono abbandonate e inerti, il busto è semplificato geometricamente secondo una calotta semicircolare. Grande risalto è dato alle potenti mani, scolpite basandosi su un accurato studio dal vero.
La testa, barbuta e con una folta capigliatura ricciuta, scatta verso destra con uno sguardo fisso e intenso, creando un senso di energia trattenuta tipico delle migliori opere di Donatello, come il San Marco e il San Giorgio, scolpite proprio in quegli anni. Le folte sopracciglia sono lievemente aggrottate e l'espressione contratta e concentrata è sottolineata anche dalla profonda ruga orizzontale sulla fronte e dalla bocca serrata, in uno schema forse ispirato da una testa di Giove Capitolino
A Donatello venne offerta una cappella in Duomo per scolpire il suo evangelista e nel luglio del 1410 l'ambiente venne chiuso da assi per non rivelare l'opera prima del compimento. I lavori andarono per le lunghe per via degli impegni dello scultore e nell'aprile 1415 Donatello ricevette a casa sua una notifica dove si ingiungeva di terminare l'opera entro l'anno, pena una multa di 25 fiorini. L'artista allora si dedicò a completare il lavoro, consegnando nell'ottobre di quell'anno e ricevendo un compenso di 160 fiorini.
Descrizione e stile [modifica]
Donatello, nel suo evangelista reagì al manierismo tardogotico, non solo riallacciandosi alla nobile compostezza della statuaria antica ma ricercando brani di autentica umanità e verità.
Il santo è rappresentato seduto, con il tipico attributo del libro tenuto in piedi su una gamba dalla mano sinistra. Il panneggio crea forti effetti di chiaroscuro, con ampie pieghe, soprattutto nella parte inferiore, che accrescono il senso del volume delle membra sottostanti, senza nasconderle e senza lesinare su giochi lineari tardogotici. Le spalle sono curve, le braccia sono abbandonate e inerti, il busto è semplificato geometricamente secondo una calotta semicircolare. Grande risalto è dato alle potenti mani, scolpite basandosi su un accurato studio dal vero.
La testa, barbuta e con una folta capigliatura ricciuta, scatta verso destra con uno sguardo fisso e intenso, creando un senso di energia trattenuta tipico delle migliori opere di Donatello, come il San Marco e il San Giorgio, scolpite proprio in quegli anni. Le folte sopracciglia sono lievemente aggrottate e l'espressione contratta e concentrata è sottolineata anche dalla profonda ruga orizzontale sulla fronte e dalla bocca serrata, in uno schema forse ispirato da una testa di Giove Capitolino
Profeta Ababuc
Il soggetto della statua non è identificato con certezza assoluta, complice un possibile scambio di posizione con il Geremia in epoca imprecisata. I nomi delle due statue si sono però ormai indissolubilmente legati ad esse nel corso dei secoli, rendendo la questione secondaria. Inoltre l'iconografia di Abacuc è quella di un vecchio, mentre il Geremia appare di mezza età. L'opera è firmata sulla base Opus Donatelli.
Abacuc è forse la statua meglio riuscita di tutta la serie del campanile, annoverata tra i capolavori di Donatello e della scultura rinascimentale in generale. Rispetto alle precedenti opere di Donatello (come le tre statue sul lato est), si notano un forte naturalismo e una significativa intensificazione espressiva.
Il profeta è ritratto calvo (da cui il nome popolare) di una magrezza ascetica, con una lunga tunica che gli cade dalla spalla sinistra e che crea profonde pieghe verticali, anti-classiche perché non aderiscono al corpo, e che sottolineano la maestosità della figura ma anche il suo tormento interiore. La bocca semiaperta, gli occhi incavati e profondi, la calvizie penetrano la fisionomia del soggetto, superando con un intenso realismo qualsiasi notazione grottesca. Lo sguardo è intenso e rivolto verso il basso, dove cioè si trovavano gli spettatori ideali dell'opera, la cui nicchia si trovava a notevole altezza.
Abacuc è forse la statua meglio riuscita di tutta la serie del campanile, annoverata tra i capolavori di Donatello e della scultura rinascimentale in generale. Rispetto alle precedenti opere di Donatello (come le tre statue sul lato est), si notano un forte naturalismo e una significativa intensificazione espressiva.
Il profeta è ritratto calvo (da cui il nome popolare) di una magrezza ascetica, con una lunga tunica che gli cade dalla spalla sinistra e che crea profonde pieghe verticali, anti-classiche perché non aderiscono al corpo, e che sottolineano la maestosità della figura ma anche il suo tormento interiore. La bocca semiaperta, gli occhi incavati e profondi, la calvizie penetrano la fisionomia del soggetto, superando con un intenso realismo qualsiasi notazione grottesca. Lo sguardo è intenso e rivolto verso il basso, dove cioè si trovavano gli spettatori ideali dell'opera, la cui nicchia si trovava a notevole altezza.
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Maria Maddalena è una scultura in legno parzialmente dorato (altezza 188 cm), realizzata dallo scultore fiorentino Donatello e datata tra il 1453 e il 1455. Eseguita per il Battistero fiorentino, suscitò scalpore e ammirazione a causa dello scabro realismo.
La documentazione pervenutaci sull'opera è assolutamente scarna. Il Vasari la cita come un'opera dall'anatomia perfettamente studiata senza alcuna pecca. Nata nella fase matura dell'artista (eseguita all'età di sessantasette anni), fu commissionata forse per il Battistero di Firenze, nel 1453, anno in cui Donatello tornava nella città natale, dopo aver trascorso un fruttuoso decennio a Padova (1443-1453). Donatello all'epoca era quasi ormai anziano e la propria malattia e decadimento fisico per la vecchiaia sicuramente favorì la concentrazione su temi legati all'aldilà e all'espressione dei sentimenti davanti alla morte incombente, che è negata agli artisti giovani.
Disseccata e ascetica, destò non poco la sensibilità dei fiorentini. Già nel 1455 è datata un'altra Maddalena, chiaramente ispirata a quella di Donatello, della bottega di Neri di Bicci (Museo della Collegiata di Empoli), che segna il termine ante quem per il completamento dell'opera. Da lì in poi furono numerose le repliche ed imitazioni, che testimoniano la profonda impressione dell'esile e raccapricciante vecchia tra i cittadini.
Non si sa esattamente quale fosse la destinazione originale, si conosce solo che nell'anno 1500 si trovava in Battistero, come attesta un pagamento da parte dell'Arte di Calimala, patrona del luogo di culto, all'orafo Jacopo Sogliani per un diadema per la Maddalena. Forse però era già stata vista in questa collocazione da Carlo VIII di Valois, che, secondo Del Migliore, offrì una forte somma per acquistarla mentre era accampato con il suo esercitò nei dintorni della città. Nel tempo venne spostata più volte di collocazione, poiché forse non era originariamente destinata a una collocazione precisa.
Sopravvissuta alla catastrofica alluvione di Firenze del 1966, ha riportato danni alla policromia, il che ha caratterizzato la figura in senso più essenziale. Dal 1972, al termine di un capillare restauro, è stata esposta nel Museo dell'Opera del Duomo.
Dettaglio
« Di mano di Donato [è] una Santa Maria Maddalena di legno in penitenza, molto bella e molto ben fatta, essendo consumata dai digiuni e dall'astinenza, intanto che pare in tutte le parti una perfezzione di notomia, benissimo intesa per tutto. »
(Giorgio Vasari, Le vite de' più eccellenti pittori, scultori e architettori, edizione giuntina, 1568.)
La Maria Maddalena è rappresentata negli anni della vecchiaia, quando pellegrinò incessantemente digiunando nelle foreste nel sud della Francia, come scritto sulla Leggenda Aurea. Già famosa per la sua bellezza, essa venne infine completamente avvolta dai suoi capelli sempre più lunghi. La sua storia era il migliore esempio di redenzione e ascesi ottenuta attraverso il rifiuto del mondo, la mortificazione della carne, il pentimento e la preghiera.
Donatello fece a meno di quasi tutti gli attributi iconografici tradizionali, quali il cranio, la croce, il vasetto di unguenti. L'esile figura è rappresentata in piedi, con una leggera rotazione della testa che permette una pluralità di punti di vista. Il volto è scavato, gli occhi sono infossati nelle orbite, la magrezza rivela i muscoli e tendini a fior di pelle. I lunghissimi capelli, ispidi e appiccicaticci, sono intrecciati intorno ai fianchi a mo' di macabro indumento e rendono il corpo scheletrito una massa informe. Le mani sono quasi giunte, in segno di preghiera, ma non si toccano, come se ella fosse colta nell'atto di iniziare un'umile supplica.
La fisionomia della donna è deturpata e rinsecchita dai lunghi digiuni, dalle privazioni e autofustigazioni. I capelli attorno al volto e le incavature degli occhi disegnano ombre profonde, che evidenziano e incorniciano espressivamente il cranio e il collo rugoso. La bocca è dischiusa e lascia intravedere la chiostra dei denti; lo sguardo è fisso e attonito, in una angosciata immobilità.
Ancora oggi la visione della statua crea in alcuni visitatori un senso di straniamento e latente disagio, soprattutto fissandola negli occhi: vi si legge infatti tutta una serie di sentimenti profondi dell'animo umano (fatica, dolore, animo stanco), che non possono non muovere a compassione. Sembra di percepire nella Maddalena la vicinanza della morte e il degrado fisico portato fino alla soglia della decomposizione.
Capolavoro del naturalismo più vero, privo di idealizzazioni, la Maddalena segnò la crisi e il superamento espressionistico del classicismo di cui Donatello era stato il principale rappresentante in gioventù. La negazione della bellezza fisica privilegia vibranti valori drammatici e patetici, arrivando ad essere quasi "spettrale" (Rosenauer parlò di "mummia vivente").
Dettaglio
L'opera è intagliata in legno di pioppo bianco. Il legno era un materiale difficile da scolpire in quanto, a differenza della pietra o del marmo, non consente sfumature e passaggi morbidi: per questo, dopo essere stato in auge nel Medioevo, l'uso del legno in scultura divenne via via più raro nel Rinascimento.
In questo caso Donatello lo scelse perché doveva trattare un tema inconsueto, dove i contrasti e lo schematismo dell'intaglio si adattavano bene al soggetto drammatico e patetico. Donatello scelse quindi il materiale in funzione degli effetti di luce che intendeva ottenere, proprio come aveva fatto molti anni prima con la cantoria del Duomo.
Donatello dipinse la scultura (tracce più significative si trovano oggi sulle spalle) e la integrò con stoppa nei capelli e gesso in altre finiture. Anche la scelta di questi materiali poveri rivela l'anticlassicismo dell'ultimo Donatello, attraversato da profonde inquietudini, che solo nel Cinquecento maturo del Manierismo si inizierà a comprendere ed apprezzare. Solo nel barocco poi l'idea del memento mori e del corpo che si avvia verso l'aldilà verrà ripresa e sviluppata.
Nel restauro concluso nel 1972 vennero riscoperte filettature d'oro nei capelli, che dovevano pallidamente ricordare l'originaria bellezza del soggetto, sfigurato dall'ascesi e dalla vecchiaia.
La documentazione pervenutaci sull'opera è assolutamente scarna. Il Vasari la cita come un'opera dall'anatomia perfettamente studiata senza alcuna pecca. Nata nella fase matura dell'artista (eseguita all'età di sessantasette anni), fu commissionata forse per il Battistero di Firenze, nel 1453, anno in cui Donatello tornava nella città natale, dopo aver trascorso un fruttuoso decennio a Padova (1443-1453). Donatello all'epoca era quasi ormai anziano e la propria malattia e decadimento fisico per la vecchiaia sicuramente favorì la concentrazione su temi legati all'aldilà e all'espressione dei sentimenti davanti alla morte incombente, che è negata agli artisti giovani.
Disseccata e ascetica, destò non poco la sensibilità dei fiorentini. Già nel 1455 è datata un'altra Maddalena, chiaramente ispirata a quella di Donatello, della bottega di Neri di Bicci (Museo della Collegiata di Empoli), che segna il termine ante quem per il completamento dell'opera. Da lì in poi furono numerose le repliche ed imitazioni, che testimoniano la profonda impressione dell'esile e raccapricciante vecchia tra i cittadini.
Non si sa esattamente quale fosse la destinazione originale, si conosce solo che nell'anno 1500 si trovava in Battistero, come attesta un pagamento da parte dell'Arte di Calimala, patrona del luogo di culto, all'orafo Jacopo Sogliani per un diadema per la Maddalena. Forse però era già stata vista in questa collocazione da Carlo VIII di Valois, che, secondo Del Migliore, offrì una forte somma per acquistarla mentre era accampato con il suo esercitò nei dintorni della città. Nel tempo venne spostata più volte di collocazione, poiché forse non era originariamente destinata a una collocazione precisa.
Sopravvissuta alla catastrofica alluvione di Firenze del 1966, ha riportato danni alla policromia, il che ha caratterizzato la figura in senso più essenziale. Dal 1972, al termine di un capillare restauro, è stata esposta nel Museo dell'Opera del Duomo.
Dettaglio
« Di mano di Donato [è] una Santa Maria Maddalena di legno in penitenza, molto bella e molto ben fatta, essendo consumata dai digiuni e dall'astinenza, intanto che pare in tutte le parti una perfezzione di notomia, benissimo intesa per tutto. »
(Giorgio Vasari, Le vite de' più eccellenti pittori, scultori e architettori, edizione giuntina, 1568.)
La Maria Maddalena è rappresentata negli anni della vecchiaia, quando pellegrinò incessantemente digiunando nelle foreste nel sud della Francia, come scritto sulla Leggenda Aurea. Già famosa per la sua bellezza, essa venne infine completamente avvolta dai suoi capelli sempre più lunghi. La sua storia era il migliore esempio di redenzione e ascesi ottenuta attraverso il rifiuto del mondo, la mortificazione della carne, il pentimento e la preghiera.
Donatello fece a meno di quasi tutti gli attributi iconografici tradizionali, quali il cranio, la croce, il vasetto di unguenti. L'esile figura è rappresentata in piedi, con una leggera rotazione della testa che permette una pluralità di punti di vista. Il volto è scavato, gli occhi sono infossati nelle orbite, la magrezza rivela i muscoli e tendini a fior di pelle. I lunghissimi capelli, ispidi e appiccicaticci, sono intrecciati intorno ai fianchi a mo' di macabro indumento e rendono il corpo scheletrito una massa informe. Le mani sono quasi giunte, in segno di preghiera, ma non si toccano, come se ella fosse colta nell'atto di iniziare un'umile supplica.
La fisionomia della donna è deturpata e rinsecchita dai lunghi digiuni, dalle privazioni e autofustigazioni. I capelli attorno al volto e le incavature degli occhi disegnano ombre profonde, che evidenziano e incorniciano espressivamente il cranio e il collo rugoso. La bocca è dischiusa e lascia intravedere la chiostra dei denti; lo sguardo è fisso e attonito, in una angosciata immobilità.
Ancora oggi la visione della statua crea in alcuni visitatori un senso di straniamento e latente disagio, soprattutto fissandola negli occhi: vi si legge infatti tutta una serie di sentimenti profondi dell'animo umano (fatica, dolore, animo stanco), che non possono non muovere a compassione. Sembra di percepire nella Maddalena la vicinanza della morte e il degrado fisico portato fino alla soglia della decomposizione.
Capolavoro del naturalismo più vero, privo di idealizzazioni, la Maddalena segnò la crisi e il superamento espressionistico del classicismo di cui Donatello era stato il principale rappresentante in gioventù. La negazione della bellezza fisica privilegia vibranti valori drammatici e patetici, arrivando ad essere quasi "spettrale" (Rosenauer parlò di "mummia vivente").
Dettaglio
L'opera è intagliata in legno di pioppo bianco. Il legno era un materiale difficile da scolpire in quanto, a differenza della pietra o del marmo, non consente sfumature e passaggi morbidi: per questo, dopo essere stato in auge nel Medioevo, l'uso del legno in scultura divenne via via più raro nel Rinascimento.
In questo caso Donatello lo scelse perché doveva trattare un tema inconsueto, dove i contrasti e lo schematismo dell'intaglio si adattavano bene al soggetto drammatico e patetico. Donatello scelse quindi il materiale in funzione degli effetti di luce che intendeva ottenere, proprio come aveva fatto molti anni prima con la cantoria del Duomo.
Donatello dipinse la scultura (tracce più significative si trovano oggi sulle spalle) e la integrò con stoppa nei capelli e gesso in altre finiture. Anche la scelta di questi materiali poveri rivela l'anticlassicismo dell'ultimo Donatello, attraversato da profonde inquietudini, che solo nel Cinquecento maturo del Manierismo si inizierà a comprendere ed apprezzare. Solo nel barocco poi l'idea del memento mori e del corpo che si avvia verso l'aldilà verrà ripresa e sviluppata.
Nel restauro concluso nel 1972 vennero riscoperte filettature d'oro nei capelli, che dovevano pallidamente ricordare l'originaria bellezza del soggetto, sfigurato dall'ascesi e dalla vecchiaia.
Nanni di Banco- San Luca
.Il San Luca di Nanni di Banco è raffigurato nell'atto di leggere un libro sacro e trasmette un senso di calma e di fierezza. Il panneggio è sobrio e privo di schematismi e le linee base della composizione (soprattutto quelle delle braccia) fanno convergere l'occhio dello spettatore verso la testa barbuta, che è leggermente più piccola del normale per aumentare illusionisticamente lo slancio della figura con la visione dal basso, secondo la disposizione originaria dell'opera.
La statua infatti, seguendo il profilo della nicchia, era stata costruita con le membra allungate, non già come retaggio della cultura gotica, ma secondo un accorgimento ottico secondo cui le proporzioni sarebbero state corrette dall'osservatore. La figura solida e austera riprende dall'antico il modello di nobile compostezza e il volto, soprattutto nel taglio dei capelli e della barba.
La statua infatti, seguendo il profilo della nicchia, era stata costruita con le membra allungate, non già come retaggio della cultura gotica, ma secondo un accorgimento ottico secondo cui le proporzioni sarebbero state corrette dall'osservatore. La figura solida e austera riprende dall'antico il modello di nobile compostezza e il volto, soprattutto nel taglio dei capelli e della barba.
LUCA DELLA ROBBIA
CANTORIA
.Oggi la cantoria originale è montata in una sala del museo all'altezza che originariamente aveva in Duomo. I pannelli che la compongono sono copie, mentre gli originali sono stati staccati ed esposti al di sotto di essa, per permettere una migliore fruizione ravvicinata da parte del pubblico.
La cantoria affidata a Luca era in una posizione migliore poiché posta su una parete verso nord, che veniva illuminata dalla luce proveniente da sud.
L'opera è composta come un parallelepipedo sostenuto da cinque mensole, ornate da girali e volute. L'architettura dell'insieme segue la nitida logica rinascimentale avviata dal Brunelleschi. In corrispondenza di ciascuna mensola e agli spigoli si levano sul parapetto una coppia di piccole paraste scanalate con capitelli corinzi. Si vengono così a creare quattro spazi quadrati sul fronte e due ai lati (questi ultimi rettangolari) dove sono collocate le formelle scolpite a bassorilievo. Altre quattro formelle si trovano tra le mensole, per un totale di dieci. Sulla cimasa, composta con dentelli e modanature come nell'arte classica, si trova la prima delle tre fasce dove è scritto il testo latino, in caratteri capitali all'antica, del salmo 150, che prosegue nella fascia alla base e in quella sotto le mensole.
I rilievi [modifica]
I rilievi illustrano abbastanza fedelmente il versetti del salmo: "Lodate Dio [...] al suono della tromba, lodatelo con arpe e cetre, lodatelo con tamburi e danze, lodatelo con liuti e flauti, lodatelo con cembali sonori, lodatelo con cembali squillanti".
Per inscenare il testo biblico l'artista compose diversi gruppi di fanciulli di diverse età, colti mentre cantano, danzano e suonano. Il rilievo è piuttosto alto e spicca col chiaroscuro sullo sfondo liscio
Le opere, rifinite con grandissima cura, sono impostate secondo una serena e pacata compostezza, secondo ideali di bellezza classica. I personaggi scolpiti esplorano vari stati d'animo e danno il senso di personaggi vivi, colti nelle varie sfumature psicologiche, dalla gioia più partecipata alla contemplazione, dalla concentrazione allo scherzo fanciullesco. L'insieme trasmette un senso di grazia e di equilibrio, oltre che di perfetta padronanza tecnica dell'artista. Alcuni pannelli, scolpiti successivamente alla fase iniziale, mostrano l'influenza dei putti danzanti di Donatello nel pulpito del Duomo di Prato, al quale accenna anche una lettera di Matteo da Prato del 1434.
L'opera gemella di Donatello è invece caratterizzata da un più frenetico e vibrante movimento, che fuse con grande originalità una serie di ispirazioni diverse: l'arte dei sarcofagi romani, le opere paleocristiane e romaniche, citando anche la stessa facciata di Arnolfo del Duomo di allora.
La cantoria affidata a Luca era in una posizione migliore poiché posta su una parete verso nord, che veniva illuminata dalla luce proveniente da sud.
L'opera è composta come un parallelepipedo sostenuto da cinque mensole, ornate da girali e volute. L'architettura dell'insieme segue la nitida logica rinascimentale avviata dal Brunelleschi. In corrispondenza di ciascuna mensola e agli spigoli si levano sul parapetto una coppia di piccole paraste scanalate con capitelli corinzi. Si vengono così a creare quattro spazi quadrati sul fronte e due ai lati (questi ultimi rettangolari) dove sono collocate le formelle scolpite a bassorilievo. Altre quattro formelle si trovano tra le mensole, per un totale di dieci. Sulla cimasa, composta con dentelli e modanature come nell'arte classica, si trova la prima delle tre fasce dove è scritto il testo latino, in caratteri capitali all'antica, del salmo 150, che prosegue nella fascia alla base e in quella sotto le mensole.
I rilievi [modifica]
I rilievi illustrano abbastanza fedelmente il versetti del salmo: "Lodate Dio [...] al suono della tromba, lodatelo con arpe e cetre, lodatelo con tamburi e danze, lodatelo con liuti e flauti, lodatelo con cembali sonori, lodatelo con cembali squillanti".
Per inscenare il testo biblico l'artista compose diversi gruppi di fanciulli di diverse età, colti mentre cantano, danzano e suonano. Il rilievo è piuttosto alto e spicca col chiaroscuro sullo sfondo liscio
Le opere, rifinite con grandissima cura, sono impostate secondo una serena e pacata compostezza, secondo ideali di bellezza classica. I personaggi scolpiti esplorano vari stati d'animo e danno il senso di personaggi vivi, colti nelle varie sfumature psicologiche, dalla gioia più partecipata alla contemplazione, dalla concentrazione allo scherzo fanciullesco. L'insieme trasmette un senso di grazia e di equilibrio, oltre che di perfetta padronanza tecnica dell'artista. Alcuni pannelli, scolpiti successivamente alla fase iniziale, mostrano l'influenza dei putti danzanti di Donatello nel pulpito del Duomo di Prato, al quale accenna anche una lettera di Matteo da Prato del 1434.
L'opera gemella di Donatello è invece caratterizzata da un più frenetico e vibrante movimento, che fuse con grande originalità una serie di ispirazioni diverse: l'arte dei sarcofagi romani, le opere paleocristiane e romaniche, citando anche la stessa facciata di Arnolfo del Duomo di allora.
Antonio Pollaiolo- Croce
La Croce-ostensorio è composta da tre parti principali distinte: il Crocifisso, in alto, il fusto, con i bracci che reggono due statuette dei Dolenti, e la base, con due bracci che reggono altrettante statuette di angeli. Si pensa che la parte superiore sia di Berto di Francesco Betti, mentre quella inferiore dal Pollaiolo con l'aiuto di Miliano Dei, anche se alcuni individuano in Dei un semplice "manager" e coordinatore dell'opera. Alcuni studiosi hanno espresso dubbi sulla paternità del Cristo Crocifisso e sulle statuette nei bracci della base, attribuite anche a Bernardo Cennini o Luca della Robbia.
La base del Calvario e la Gerusalemme
La faccia anteriore del crocifisso ha quattro smalti alle estremità dei bracci (l'Eterno in alto, la Vergine a sinistra, San Giovanni a destra e la Maddalena in basso. All'intersezione dei bracci, dietro la testa del Cristo, si trova lo smalto del Pellicano che dà le sue carni per sfamare i figli, simbolo del sacrificio, mentre a metà del braccio, dietro i piedi della statuetta, si trova uno smalto di Santo. La faccia posteriore mostra ai bracci i quattro evangelisti, all'intersezione l'Agnus Dei ed a metà del braccio inferiore San Giovanni Battista nel deserto. Alla base della croce si trova un calvario a rilievo, circondato dalle mura di un castello in miniatura (simbolo idealizzato di Gerusalemme) e popolato da serpi e da un teschio.
Più sotto i due bracci con le statuette della Vergine e di San Giovanni apostolo sono raccordati al fusto da due volute, con contengono altrettanti smalti, raffiguranti Santi e un'Annunciazione.
Più in basso il fusto è decorato da un tempietto a base circolare con le figure di San Giovanni in trono e angeli. Questa decorazione riprende la forma della lanterna della cupola di Santa Maria del Fiore, in costruzione proprio in quegli anni, come si trova in altre numerose oreficerie dell'epoca, e testimonia l'osmosi di modelli e riferimenti tra discipline artistiche differenti.Alla base del piede si appoggiano due arpie a tutto tondo che reggono sulla testa altrettante figurette di angeli. La base è decorata da rilievi a cesello, raffiguranti il Battesimo di Cristo, i Dottori della Chiesa, Mosè, le Virtù teologali, la Temperanza, due Angeli e alcuni stemmi dell'Arte di Calimala, composti dall'aquila che tiene tra gli artigli un torsello, cioè una balla di stoffe.
MICHELANGELO - Pietà BANDINI
La Pietà Bandini, o del Duomo/dell'Opera del Duomo, è una scultura marmorea (h. 226 cm) di Michelangelo Buonarroti, databile al 1547-1555 circa e conservata nel Museo dell'Opera del Duomo a Firenze. Si tratta di una delle ultime sculture prodotte dall'artista e nella figura di Nicodemo si pensa che inserì un proprio autoritratto.
La serie delle Pietà senili di Michelangelo fu avviata in un periodo di grande sconforto dell'artista, dopo la scomparsa dell'amica Vittoria Colonna nel 1547, quando ormai settantenne sente avvicinarsi la morte e inizia a fare progetti per la propria sepoltura[1]. Sebbene già celebrato come maggior artista vivente, nonché molto ricco, viveva poveramente in una piccola casa nel centro della città, spinto alla semplicità dal suo profondo senso religioso e forse da un'avarizia compulsiva. Alla scultura si dedicava sempre più sporadicamente, e quasi esclusivamente a titolo personale, non per opere commissionate[2].
Il tema ricorrente era, appunto, quello della Pietà, destinato alla propria tomba che inizialmente sarebbe dovuto essere collocata in Santa Maria Maggiore a Roma[2]. Questa iconografia religiosa, contaminata con quello della Deposizione dalla Croce e della Sepoltura di Cristo, si adattava bene a un'intensa meditazione sul tema della Redenzione, del Sacrificio di Cristo e della Salvezza[1].
La Pietà detta poi "Bandini" fu probabilmente scolpita a partire proprio dal 1547[1], e incontrando dall'inizio notevoli difficoltà. Secondo A. Parronchi il blocco usato era uno di quelli avanzanti per la tomba di Giulio II (conclusa nel 1548), destinato probabilmente a un ritratto del pontefice emergente dal sepolcro e sorretto da quattro Angeli[3]. Questo blocco, come ricorda anche Vasari, era pieno di impurezze ed estremamente duro, tanto che al contatto con lo scalpello emetteva nugoli di scintille[1].
Nel 1553 era sicuramente ancora in lavorazione, quando Vasari, recandosi una sera a visitare l'artista, ebbe l'impressione che Michelangelo esitasse a mostrargliela poiché in corso d'opera, facendo cadere forse di proposito la lucerna, che si spense. Chiamato il servitore, il fedele Francesco Amadori detto l'Urbino, per farsene portare un'altra, si lamentò di essere ormai tanto vecchio da sentirsi tirare "per la cappa" dalla morte "per farmi andare con lei, e questa mia persona cadrà un giorno come questa lucerna, e sarà spento il lume della vita"[1]. L'episodio testimonia le crisi depressive del Buonarroti che nel corso degli anni erano diventate abituali e sempre più gravi e che, verso il 1555, portarono l'artista a tentare di distruggere la statua[1].
Quell'anno o poco prima infatti dovette essere terminata una prima versione della Pietà, che venne copiata da Lorenzo Sabatini (statua oggi nella sagrestia di San Pietro), da un'incisione di Cherubino Alberti e da un bozzetto in cera presso gli eredi Gigli a Firenze[4]. Tentando in seguito di variare la posizione della gambe di Cristo, una venatura nel marmo ne provocò la rottura, suscitando una grande frustrazione nell'artista, aggravata dalle continue sollecitazioni dell'Urbino a finire la scultura, tanto che Michelangelo, ormai fuori di sé, la prese a martellate, rompendola in più punti: segni di rottura si vedono ancora oggi sul gomito, sul petto, sulla spalla di Gesù e sulla mano di Maria; la gamba sinistra di Gesù, che avrebbe dovuto accavallarsi a quella di Maria, è completamente assente[4]. Una parte della gamba mutila si trova menzionata nell'inventario dei beni di Daniele da Volterra ("ginocchio di marmo di Michelagniolo"), ma da allora se ne perdono le tracce[4].
La data del 1545 è tuttavia ottenuta in base induttiva: prendendo per buono l'aneddoto del servo impaziente, egli morì il 3 dicembre di quell'anno, per cui l'episodio dovette collocarsi prima[3].
L'opera, ormai inutilizzabile, venne venduta nel 1561 allo scultore e architetto fiorentino Francesco Bandini per duecento scudi, tramnite l'intermediazione dell'alliveo Tiberio Calcagni, che si offrì di restaurarla e integrarla con la Maria Maddalena alla sinistra, di evidente scarto qualitativo inferiore e sproporzionata[4].
Alla morte dell'artista nel 1564, si provò senza successo a portare la statua a Firenze per la sepoltura di Michelangelo in Santa Croce. Restò invece nella vigna dei Bandini a Montecavallo ben oltre la morte di Francesco (1564), dove la vide anche Gianlorenzo Bernini[3]. Nel 1674 venne poi acquistata dal granduca Cosimo III de' Medici e portata a Firenze. Egli la destinò ai sotterranei di San Lorenzo, luogo di sepoltura di casa Medici[4]. Nel 1722 venne poi trasportata in Santa Maria del Fiore, per decorare lo spazio dietro l'altare maggiore. Dal 1933 venne posta nella prima cappella di destra della tribuna nord[4] e nel 1981 fu infine destinata al Museo dell'Opera del Duomo[1].
Descrizione e stile [modifica]
Questo soggetto prevede solitamente il corpo morto del Cristo che viene tolto dalla croce e posto nel sepolcro dalla Madonna o dai discepoli. È forse il momento più drammatico dei Vangeli, perché le persone vicine al Cristo ne constatano la morte. Molti artisti hanno comunque raffigurato questa scena con personaggi sereni, consapevoli della resurrezione imminente, e lo stesso Michelangelo in gioventù aveva scolpito la celeberrima Pietà di San Pietro senza accenti drammatici, sottolineando soprattutto la bellezza dei corpi e il suo virtuosismo nel rappresentarli. Nella vecchiaia invece sente ormai il peso della morte che si avvicina e sottolinea sempre di più i risvolti psicologici e tragici nelle sue opere, trasmettendo le sue angosce ai personaggi raffigurati[2].
In questa scultura in marmo raffigura Gesù privo di sensi adagiato sulla Madonna che lo sorregge, con l'aiuto di Nicodemo, in alto, e della Maddalena a sinistra. Essi formano una composizione di forma piramidale, col corpo inerte di Cristo che, con le sue linee oblique, è il fulcro dell'intera rappresentazione[2] e sembra scivolare verso il basso, in un moto enfatizzato dalla torsione del busto e l'andamento a zigzag della gamba[5]. Il braccio destro, sollevato da Nicodemo, va a toccare la spalla della Maddalena, quello sinistro invece pende inerte davanti a Maria e occupa il centro della composizione proseguendo la verticale di Nicodemo[5]. La mano destra di Cristo è girata in fuori, uno stilema presente anche nel Ritratto di Lorenzo de' Medici duca di Urbino o nel Bambino della Madonna della Scala, usato dall'artista per simboleggiare l'abbandono del corpo nel sonno o nella morte[6]. Il ritmo discendente appare equilibrato da un andamento circolare, quasi rotatorio, che va da sinistra verso destra: la testa reclinata di Gesù infatti, quasi fusa con quella di Maria, genera una linea di forza che prosegue nel braccio destro di Cristo e da qui al bracco della Maddalena che va a chiudere un'ellissi con l'altro braccio di Gesù[5]. Una tale ricchezza compositiva dà al gruppo una forte animazione spirituale, che trascende le lacune e le integrazioni, annullando quasi la materialità del marmo e facendone materia viva e pulsante[5].
La drammaticità sprigiona infatti più dalla dinamica disposizione delle figure, che dalle espressioni, piuttosto serene:
La serie delle Pietà senili di Michelangelo fu avviata in un periodo di grande sconforto dell'artista, dopo la scomparsa dell'amica Vittoria Colonna nel 1547, quando ormai settantenne sente avvicinarsi la morte e inizia a fare progetti per la propria sepoltura[1]. Sebbene già celebrato come maggior artista vivente, nonché molto ricco, viveva poveramente in una piccola casa nel centro della città, spinto alla semplicità dal suo profondo senso religioso e forse da un'avarizia compulsiva. Alla scultura si dedicava sempre più sporadicamente, e quasi esclusivamente a titolo personale, non per opere commissionate[2].
Il tema ricorrente era, appunto, quello della Pietà, destinato alla propria tomba che inizialmente sarebbe dovuto essere collocata in Santa Maria Maggiore a Roma[2]. Questa iconografia religiosa, contaminata con quello della Deposizione dalla Croce e della Sepoltura di Cristo, si adattava bene a un'intensa meditazione sul tema della Redenzione, del Sacrificio di Cristo e della Salvezza[1].
La Pietà detta poi "Bandini" fu probabilmente scolpita a partire proprio dal 1547[1], e incontrando dall'inizio notevoli difficoltà. Secondo A. Parronchi il blocco usato era uno di quelli avanzanti per la tomba di Giulio II (conclusa nel 1548), destinato probabilmente a un ritratto del pontefice emergente dal sepolcro e sorretto da quattro Angeli[3]. Questo blocco, come ricorda anche Vasari, era pieno di impurezze ed estremamente duro, tanto che al contatto con lo scalpello emetteva nugoli di scintille[1].
Nel 1553 era sicuramente ancora in lavorazione, quando Vasari, recandosi una sera a visitare l'artista, ebbe l'impressione che Michelangelo esitasse a mostrargliela poiché in corso d'opera, facendo cadere forse di proposito la lucerna, che si spense. Chiamato il servitore, il fedele Francesco Amadori detto l'Urbino, per farsene portare un'altra, si lamentò di essere ormai tanto vecchio da sentirsi tirare "per la cappa" dalla morte "per farmi andare con lei, e questa mia persona cadrà un giorno come questa lucerna, e sarà spento il lume della vita"[1]. L'episodio testimonia le crisi depressive del Buonarroti che nel corso degli anni erano diventate abituali e sempre più gravi e che, verso il 1555, portarono l'artista a tentare di distruggere la statua[1].
Quell'anno o poco prima infatti dovette essere terminata una prima versione della Pietà, che venne copiata da Lorenzo Sabatini (statua oggi nella sagrestia di San Pietro), da un'incisione di Cherubino Alberti e da un bozzetto in cera presso gli eredi Gigli a Firenze[4]. Tentando in seguito di variare la posizione della gambe di Cristo, una venatura nel marmo ne provocò la rottura, suscitando una grande frustrazione nell'artista, aggravata dalle continue sollecitazioni dell'Urbino a finire la scultura, tanto che Michelangelo, ormai fuori di sé, la prese a martellate, rompendola in più punti: segni di rottura si vedono ancora oggi sul gomito, sul petto, sulla spalla di Gesù e sulla mano di Maria; la gamba sinistra di Gesù, che avrebbe dovuto accavallarsi a quella di Maria, è completamente assente[4]. Una parte della gamba mutila si trova menzionata nell'inventario dei beni di Daniele da Volterra ("ginocchio di marmo di Michelagniolo"), ma da allora se ne perdono le tracce[4].
La data del 1545 è tuttavia ottenuta in base induttiva: prendendo per buono l'aneddoto del servo impaziente, egli morì il 3 dicembre di quell'anno, per cui l'episodio dovette collocarsi prima[3].
L'opera, ormai inutilizzabile, venne venduta nel 1561 allo scultore e architetto fiorentino Francesco Bandini per duecento scudi, tramnite l'intermediazione dell'alliveo Tiberio Calcagni, che si offrì di restaurarla e integrarla con la Maria Maddalena alla sinistra, di evidente scarto qualitativo inferiore e sproporzionata[4].
Alla morte dell'artista nel 1564, si provò senza successo a portare la statua a Firenze per la sepoltura di Michelangelo in Santa Croce. Restò invece nella vigna dei Bandini a Montecavallo ben oltre la morte di Francesco (1564), dove la vide anche Gianlorenzo Bernini[3]. Nel 1674 venne poi acquistata dal granduca Cosimo III de' Medici e portata a Firenze. Egli la destinò ai sotterranei di San Lorenzo, luogo di sepoltura di casa Medici[4]. Nel 1722 venne poi trasportata in Santa Maria del Fiore, per decorare lo spazio dietro l'altare maggiore. Dal 1933 venne posta nella prima cappella di destra della tribuna nord[4] e nel 1981 fu infine destinata al Museo dell'Opera del Duomo[1].
Descrizione e stile [modifica]
Questo soggetto prevede solitamente il corpo morto del Cristo che viene tolto dalla croce e posto nel sepolcro dalla Madonna o dai discepoli. È forse il momento più drammatico dei Vangeli, perché le persone vicine al Cristo ne constatano la morte. Molti artisti hanno comunque raffigurato questa scena con personaggi sereni, consapevoli della resurrezione imminente, e lo stesso Michelangelo in gioventù aveva scolpito la celeberrima Pietà di San Pietro senza accenti drammatici, sottolineando soprattutto la bellezza dei corpi e il suo virtuosismo nel rappresentarli. Nella vecchiaia invece sente ormai il peso della morte che si avvicina e sottolinea sempre di più i risvolti psicologici e tragici nelle sue opere, trasmettendo le sue angosce ai personaggi raffigurati[2].
In questa scultura in marmo raffigura Gesù privo di sensi adagiato sulla Madonna che lo sorregge, con l'aiuto di Nicodemo, in alto, e della Maddalena a sinistra. Essi formano una composizione di forma piramidale, col corpo inerte di Cristo che, con le sue linee oblique, è il fulcro dell'intera rappresentazione[2] e sembra scivolare verso il basso, in un moto enfatizzato dalla torsione del busto e l'andamento a zigzag della gamba[5]. Il braccio destro, sollevato da Nicodemo, va a toccare la spalla della Maddalena, quello sinistro invece pende inerte davanti a Maria e occupa il centro della composizione proseguendo la verticale di Nicodemo[5]. La mano destra di Cristo è girata in fuori, uno stilema presente anche nel Ritratto di Lorenzo de' Medici duca di Urbino o nel Bambino della Madonna della Scala, usato dall'artista per simboleggiare l'abbandono del corpo nel sonno o nella morte[6]. Il ritmo discendente appare equilibrato da un andamento circolare, quasi rotatorio, che va da sinistra verso destra: la testa reclinata di Gesù infatti, quasi fusa con quella di Maria, genera una linea di forza che prosegue nel braccio destro di Cristo e da qui al bracco della Maddalena che va a chiudere un'ellissi con l'altro braccio di Gesù[5]. Una tale ricchezza compositiva dà al gruppo una forte animazione spirituale, che trascende le lacune e le integrazioni, annullando quasi la materialità del marmo e facendone materia viva e pulsante[5].
La drammaticità sprigiona infatti più dalla dinamica disposizione delle figure, che dalle espressioni, piuttosto serene:
Lorenzo Ghiberti- Portale del Battistero
Ogni pannello quadrato raggruppa più storie bibliche rappresentate contemporaneamente. Rispetto alla porta di Andrea Pisano o a quella Nord, ogni pannello mostra numerosi episodi, differenziati dalla posizione e dall'altezza del rilievo (dallo stiacciato sullo sfondo all'altorilievo in primo piano). Arrivano così ad essere rappresentate più di cinquanta scene in tutto[10]. Le nuove scoperte prospettiche condizionarono la scelta della divisione in dieci scomparti, poiché questo metodo si adattava meglio ai valori di razionalità e sintesi apportati dal Rinascimento.
La visione spaziale è unitaria con molti particolari architettonici costruiti virtuosamente in prospettiva. Celebre è la rappresentazione dell'edificio rotondo nella scena di Giuseppe, e sorprende per esempio la raffigurazione in scorcio di un cavallo in quella di Mosè.
Ghiberti dimostrò così di esser capace di aggiornare il suo stile alle novità rinascimentali maturate in quegli anni, soprattutto legate all'attività di Donatello, verso il cui stile stiacciato Ghiberti è particolarmente debitore.
Il tema generale è quello della Salvezza fondata sulla tradizione patristica latina e greca. Le scene principali di ciascun pannello sono:
La visione spaziale è unitaria con molti particolari architettonici costruiti virtuosamente in prospettiva. Celebre è la rappresentazione dell'edificio rotondo nella scena di Giuseppe, e sorprende per esempio la raffigurazione in scorcio di un cavallo in quella di Mosè.
Ghiberti dimostrò così di esser capace di aggiornare il suo stile alle novità rinascimentali maturate in quegli anni, soprattutto legate all'attività di Donatello, verso il cui stile stiacciato Ghiberti è particolarmente debitore.
Il tema generale è quello della Salvezza fondata sulla tradizione patristica latina e greca. Le scene principali di ciascun pannello sono: