VILLA BARBARO
.Villa Barbaro (anche nota come Villa Barbaro Basadonna Manin Giacomelli Volpi) a Maser (Treviso) è una villa veneta, costruita da Andrea Palladio tra il 1554 e il 1560 per l'umanista Daniele Barbaro e per suo fratello Marcantonio Barbaro, ambasciatore della Repubblica di Venezia, trasformando il vecchio palazzo medievale di proprietà della famiglia in una splendida abitazione di campagna consona allo studio delle arti e alla contemplazione intellettuale, decorata con un ciclo di affreschi che rappresenta uno dei capolavori di Paolo Veronese.
Il complesso della villa, che comprende anche un tempietto palladiano, è stato inserito dall'UNESCO nel 1996 - assieme alle altre ville palladiane del Veneto - nella lista dei patrimoni dell'umanità.
Il complesso della villa, che comprende anche un tempietto palladiano, è stato inserito dall'UNESCO nel 1996 - assieme alle altre ville palladiane del Veneto - nella lista dei patrimoni dell'umanità.
STORIA
.La villa sorge a mezza costa sui colli Asolani, poco lontano da una sorgente che secondo la tradizione fu un luogo di culto e forse anche sede di un tempio[1].
L'esatta collocazione temporale della costruzione della villa è incerta: Adalberto dal Lago la ritiene databile tra il 1560 e il 1570[2], altri studiosi retrodatano il completamento dei lavori al 1558[1], Anthony Hobson propone come anno di inizio dei lavori il 1560[3]: proprio in quell'anno Palladio aveva consegnato le illustrazioni che uno dei due fratelli Barbaro, Daniele, gli aveva chiesto per il proprio commentario sugli scritti di Vitruvio (M. Vitruvii de architectura, Venezia 1567).
La personalità dei committenti influenzò senza dubbio il progetto: è da attribuire Daniele, patriarca di Aquileia, fine umanista e studioso di filosofia, matematica e ottica, la volontà di conferire alla villa un significato sacrale, mentre il disegno del ninfeo retrostante la villa si deve a Marcantonio, energico politico e amministratore, ma allo stesso tempo fine intenditore d’architettura (ricevette un esplicito omaggio da Palladio nei Quattro Libri per l’ideazione di una scala ovata).
Entrambi i Barbaro ebbero un ruolo chiave in molte scelte architettoniche della Repubblica e furono instancabili promotori dell’inserimento di Palladio nell’ambiente veneziano.
Per via femminile, la villa passò dai discendenti di Marcantonio ai Trevisan, da questi ai Basadonna, quindi ai Manin del ramo di Ludovico Manin, ultimo doge della Repubblica di Venezia. Questi ultimi la vendettero nel 1838 a Gian Battista Colferai che l'aveva in affitto già da qualche anno, ma le sue eredi, per non spendere sostanze in un bene indiviso, la lasciarono andare completamente in rovina.
Fu l'industriale friulano Sante Giacomelli, che acquistò la proprietà nel 1850, a restaurare e rinnovare la villa, avvalendosi dell'opera di Zanotti e Eugenio Moretti Larese.
Durante la prima guerra mondiale nell'edificio aveva sede il comando del generale Squillaci. Batterie dell'esercito sparavano dalle colline oltre il Piave, ma l'edificio rimase miracolosamente indenne.
Nel 1934 fu acquisito da Giuseppe Volpi di Misurata, il quale l'affidò alle cure della figlia Marina, che se ne innamorò, vi si stabilì e continuò negli anni l'opera di restauro. La villa è attualmente abitata dalla figlia di lei e dalla sua famiglia. Nel 1996 è stata dichiarata dall'UNESCO patrimonio dell'umanità assieme alle altre ville palladiane del Veneto.
Il complesso è anche sede di un'azienda agricola che produce il vino DOC che prende il nome della villa.
L'esatta collocazione temporale della costruzione della villa è incerta: Adalberto dal Lago la ritiene databile tra il 1560 e il 1570[2], altri studiosi retrodatano il completamento dei lavori al 1558[1], Anthony Hobson propone come anno di inizio dei lavori il 1560[3]: proprio in quell'anno Palladio aveva consegnato le illustrazioni che uno dei due fratelli Barbaro, Daniele, gli aveva chiesto per il proprio commentario sugli scritti di Vitruvio (M. Vitruvii de architectura, Venezia 1567).
La personalità dei committenti influenzò senza dubbio il progetto: è da attribuire Daniele, patriarca di Aquileia, fine umanista e studioso di filosofia, matematica e ottica, la volontà di conferire alla villa un significato sacrale, mentre il disegno del ninfeo retrostante la villa si deve a Marcantonio, energico politico e amministratore, ma allo stesso tempo fine intenditore d’architettura (ricevette un esplicito omaggio da Palladio nei Quattro Libri per l’ideazione di una scala ovata).
Entrambi i Barbaro ebbero un ruolo chiave in molte scelte architettoniche della Repubblica e furono instancabili promotori dell’inserimento di Palladio nell’ambiente veneziano.
Per via femminile, la villa passò dai discendenti di Marcantonio ai Trevisan, da questi ai Basadonna, quindi ai Manin del ramo di Ludovico Manin, ultimo doge della Repubblica di Venezia. Questi ultimi la vendettero nel 1838 a Gian Battista Colferai che l'aveva in affitto già da qualche anno, ma le sue eredi, per non spendere sostanze in un bene indiviso, la lasciarono andare completamente in rovina.
Fu l'industriale friulano Sante Giacomelli, che acquistò la proprietà nel 1850, a restaurare e rinnovare la villa, avvalendosi dell'opera di Zanotti e Eugenio Moretti Larese.
Durante la prima guerra mondiale nell'edificio aveva sede il comando del generale Squillaci. Batterie dell'esercito sparavano dalle colline oltre il Piave, ma l'edificio rimase miracolosamente indenne.
Nel 1934 fu acquisito da Giuseppe Volpi di Misurata, il quale l'affidò alle cure della figlia Marina, che se ne innamorò, vi si stabilì e continuò negli anni l'opera di restauro. La villa è attualmente abitata dalla figlia di lei e dalla sua famiglia. Nel 1996 è stata dichiarata dall'UNESCO patrimonio dell'umanità assieme alle altre ville palladiane del Veneto.
Il complesso è anche sede di un'azienda agricola che produce il vino DOC che prende il nome della villa.
ARVHITETTURA
.La realizzazione della villa per i fratelli Barbaro a Maser costituisce per Palladio un punto di arrivo importante nella definizione della nuova tipologia di edificio di campagna. Per la prima volta infatti (anche se la soluzione ha precedenti in ville quattrocentesche) la casa dominicale e le barchesse sono allineate in un’unità architettonica compatta. A Maser ciò probabilmente è da collegarsi alla particolare localizzazione della villa sulle pendici di un colle: la disposizione in linea garantiva una migliore visibilità dalla strada sottostante, e del resto l'orografia del terreno avrebbe imposto costosi terrazzamenti a barchesse disposte secondo l’andamento del declivio.
Se è vero che per molti versi la villa mostra marcate differenze rispetto alle altre realizzazioni palladiane, ciò è senza dubbio frutto dell’interazione fra l’architetto e una committenza d’eccezione. Daniele Barbaro è un uomo raffinato, profondo studioso d’architettura antica e mentore di Palladio dopo la morte di Giangiorgio Trissino nel 1550: sono insieme a Roma nel 1554 per completare la preparazione della prima traduzione ed edizione critica del trattato De architectura di Vitruvio che vedrà le stampe a Venezia nel 1556. Al decennio successivo risale il M. Vitruvii de architectura, che come ricordato fu illustrato da Palladio.
Nella costruzione della villa Palladio interviene con abilità, riuscendo a trasformare una casa preesistente agganciandola alle barchesse rettilinee e scavando sulla parete del colle un ninfeo con una peschiera dalla quale, grazie a un sofisticato sistema idraulico, l’acqua viene trasportata negli ambienti di servizio e quindi raggiunge giardini e brolo. Nella didascalia della pagina dei Quattro Libri che riguarda la villa, Palladio mette in evidenza proprio questo exploit tecnologico che si richiama all’idraulica romana antica. È evidente che, piuttosto che le venete ville-fattoria, il modello di villa Barbaro sono le grandi residenze romane, come villa Giulia o Villa d'Este che Pirro Ligorio realizzava a Tivoli a per il cardinale Ippolito d'Este (al quale per altro Barbaro dedica il M. Vitruvii de architectura).
Se è vero che per molti versi la villa mostra marcate differenze rispetto alle altre realizzazioni palladiane, ciò è senza dubbio frutto dell’interazione fra l’architetto e una committenza d’eccezione. Daniele Barbaro è un uomo raffinato, profondo studioso d’architettura antica e mentore di Palladio dopo la morte di Giangiorgio Trissino nel 1550: sono insieme a Roma nel 1554 per completare la preparazione della prima traduzione ed edizione critica del trattato De architectura di Vitruvio che vedrà le stampe a Venezia nel 1556. Al decennio successivo risale il M. Vitruvii de architectura, che come ricordato fu illustrato da Palladio.
Nella costruzione della villa Palladio interviene con abilità, riuscendo a trasformare una casa preesistente agganciandola alle barchesse rettilinee e scavando sulla parete del colle un ninfeo con una peschiera dalla quale, grazie a un sofisticato sistema idraulico, l’acqua viene trasportata negli ambienti di servizio e quindi raggiunge giardini e brolo. Nella didascalia della pagina dei Quattro Libri che riguarda la villa, Palladio mette in evidenza proprio questo exploit tecnologico che si richiama all’idraulica romana antica. È evidente che, piuttosto che le venete ville-fattoria, il modello di villa Barbaro sono le grandi residenze romane, come villa Giulia o Villa d'Este che Pirro Ligorio realizzava a Tivoli a per il cardinale Ippolito d'Este (al quale per altro Barbaro dedica il M. Vitruvii de architectura).
BARCHESSA
NINFEO
INTERNI
.IL CICLO DI PAOLO VERONESE
All’interno della villa il pittore Paolo Veronese realizza quello che è considerato uno dei più straordinari cicli di affreschi del Cinquecento veneto.
La forza e la qualità dello spazio illusionistico che si sovrappone a quello palladiano hanno fatto pensare a una sorta di conflitto fra pittore e architetto, tanto più che Veronese non viene citato nella didascalia della tavola dei Quattro Libri dedicata alla villa. Del resto, evidentemente influenzato (e probabilmente intimorito) dal gusto e dalla personalità dei Barbaro, è molto probabile che Palladio abbia ritagliato per sé un ruolo tecnico e di coordinamento generale, lasciando ai committenti - se non, secondo alcuni, allo stesso Veronese - largo spazio per l’invenzione: lo prova il fantasioso disegno della facciata che difficilmente può essergli attribuito.
È stato rilevato[4] che i paesaggi dipinti nelle sale siano stati derivati da una serie di incisioni pubblicate da Hieronymus Cock nel 1551 e da altre, opera di Battista Pittoni, apparse nel 1561. Vi sono dunque buone ragioni per ritenere che il Veronese abbia lavorato al ciclo di Maser tra il 1560 e il 1561.
Probabilmente fu la sala dell'Olimpo ad essere affrescata per prima, immediatamente seguita da quella a crociera e dalle due sale verso la facciata. Per ultimi furono realizzati gli affreschi delle due sale più piccole rivolte verso la collina dove appaiono le vedute derivate dal Pittoni.
All’interno della villa il pittore Paolo Veronese realizza quello che è considerato uno dei più straordinari cicli di affreschi del Cinquecento veneto.
La forza e la qualità dello spazio illusionistico che si sovrappone a quello palladiano hanno fatto pensare a una sorta di conflitto fra pittore e architetto, tanto più che Veronese non viene citato nella didascalia della tavola dei Quattro Libri dedicata alla villa. Del resto, evidentemente influenzato (e probabilmente intimorito) dal gusto e dalla personalità dei Barbaro, è molto probabile che Palladio abbia ritagliato per sé un ruolo tecnico e di coordinamento generale, lasciando ai committenti - se non, secondo alcuni, allo stesso Veronese - largo spazio per l’invenzione: lo prova il fantasioso disegno della facciata che difficilmente può essergli attribuito.
È stato rilevato[4] che i paesaggi dipinti nelle sale siano stati derivati da una serie di incisioni pubblicate da Hieronymus Cock nel 1551 e da altre, opera di Battista Pittoni, apparse nel 1561. Vi sono dunque buone ragioni per ritenere che il Veronese abbia lavorato al ciclo di Maser tra il 1560 e il 1561.
Probabilmente fu la sala dell'Olimpo ad essere affrescata per prima, immediatamente seguita da quella a crociera e dalle due sale verso la facciata. Per ultimi furono realizzati gli affreschi delle due sale più piccole rivolte verso la collina dove appaiono le vedute derivate dal Pittoni.
SALA A CROCERA
Veronese realizza per questa sala una complessa finta architettura con colonne, bassorilievi e nicchie con suonatrici, nella quale si aprono finte porte popolate di realistici personaggi (un paggio e una bambina) e ampi balconi con paesaggi a cui fanno eco quelli reali fuori dalle grandi finestre.
Spade, lance, alabarde ed altri oggetti appoggiati negli angoli rafforzano l'effetto trompe l'oeil e sembrano invitare il visitatore a lasciare i fardelli delle battaglie quotidiane per lasciarsi andare ai piaceri della vita in villa.
Finta Porta
SUONATRICI
SALA DI BACCO
SALA DELL'AMORE CONIUGALE
SALA DELL'OLIMPO
La sala prende il nome dalle numerose divinità olimpiche dipinte al centro della volta a botte. All'interno di un ottagono, dolcemente assisi su troni di nuvole, appaiono Afrodite, Ermes, Artemide, Zeus, Ares ed Apollo, recanti ciascuno i corrispondenti segni zodiacali. Al centro, una figura femminile già identificata come la Sapienza divina, intenta a scacciare con il piede un drago, oggi ritenuta invece la dea del grano e dell'agricoltura Demetra. Completano la volta quattro comparti a monocromo, raffigutranti le forze che regolano le vita dell'uomo (l’Amore, la Fedeltà, l’Abbondanza e la Fortuna), e le quattro figure delle divinità simbolo degli elementi (Era l’Aria, Efesto il Fuoco, Rea o Cibele la Terra e Poseidone l’Acqua). Sui finti loggioni appaiono invece dei personaggi reali: da un lato Giustiniana Giustiniani, moglie di Marcantonio Barbaro, accompagnata dalla vecchia nutrice e dal figlio Alvise, al lato opposto si affacciano invece due figli più grandi, Almorò e Daniele.
Le lunette della volta ospitano due gruppi di divinità alludenti alle quattro stagioni.
Le pareti, scandite da colonne corinzie, presentano su ciascuno dei lati lunghi due paesaggi fluviali con rovine romane e un sovrapporta con figure monocrome che ricordano gli ignudi michelangioleschi della volta della Cappella Sistina. Due figure allegoriche, la Pace e, forse, per contrasto, la Discordia, occupano le nicchie ai lati dall'arco che conduce alla sala a crociera.
ALTRE SALE
SALA DEL CANE : FORTUNA
SALA DELLA LUCERNA
TEMPIETTO BARBARO
Il tempietto Barbaro è un piccolo edificio religioso della seconda metà del XVI secolo situato a Maser, in provincia di Treviso, noto per essere stato assieme al Teatro Olimpico l’ultima opera di Andrea Palladio, architetto che la tradizione vuole morto proprio a Maser.
Il complesso di Villa Barbaro, di cui fa parte anche il tempietto, è stato inserito dall'UNESCO nel 1996 - assieme alle altre ville palladiane del Veneto - nella lista dei patrimoni dell'umanità.
Ai piedi del declivio su cui sorge la villa, Palladio realizza in seguito un raffinato tempietto destinato ad assolvere la doppia funzione di cappella gentilizia e chiesa parrocchiale per il borgo di Maser. Non si conosce con certezza la data di inizio dei lavori di costruzione. Nel fregio sono incisi il millesimo 1580, i nomi del patrono, Marcantonio Barbaro, e di Palladio.
I modelli di riferimento dell’edificio sono evidentemente il Pantheon, ma anche la ricostruzione offerta dallo stesso Palladio del mausoleo di Romolo sulla via Appia. Al tempo stesso è possibile che sul tempietto convergano le riflessioni palladiane per la soluzione a pianta centrale del progetto per la Chiesa del Redentore a Venezia, poi abbandonata a favore della variante longitudinale, ma che proprio Marcantonio Barbaro aveva sostenuto in prima persona.
La planimetria dell’edificio è innovativa perché combina insieme un cilindro e una croce greca. Quattro massicci pilastri servono da contrafforti alla cupola, che è ispirata espressamente a quella del Pantheon e quindi “all’antica”, a differenza di quelle della Basilica di San Giorgio Maggiore e del Redentore. Molti studiosi stentano a riferire a Palladio la ricca decorazione a stucco dell’interno, che tuttavia è molto simile a quella presente all’interno e all’esterno dei palazzi palladiani degli anni 1570.
Il complesso di Villa Barbaro, di cui fa parte anche il tempietto, è stato inserito dall'UNESCO nel 1996 - assieme alle altre ville palladiane del Veneto - nella lista dei patrimoni dell'umanità.
Ai piedi del declivio su cui sorge la villa, Palladio realizza in seguito un raffinato tempietto destinato ad assolvere la doppia funzione di cappella gentilizia e chiesa parrocchiale per il borgo di Maser. Non si conosce con certezza la data di inizio dei lavori di costruzione. Nel fregio sono incisi il millesimo 1580, i nomi del patrono, Marcantonio Barbaro, e di Palladio.
I modelli di riferimento dell’edificio sono evidentemente il Pantheon, ma anche la ricostruzione offerta dallo stesso Palladio del mausoleo di Romolo sulla via Appia. Al tempo stesso è possibile che sul tempietto convergano le riflessioni palladiane per la soluzione a pianta centrale del progetto per la Chiesa del Redentore a Venezia, poi abbandonata a favore della variante longitudinale, ma che proprio Marcantonio Barbaro aveva sostenuto in prima persona.
La planimetria dell’edificio è innovativa perché combina insieme un cilindro e una croce greca. Quattro massicci pilastri servono da contrafforti alla cupola, che è ispirata espressamente a quella del Pantheon e quindi “all’antica”, a differenza di quelle della Basilica di San Giorgio Maggiore e del Redentore. Molti studiosi stentano a riferire a Palladio la ricca decorazione a stucco dell’interno, che tuttavia è molto simile a quella presente all’interno e all’esterno dei palazzi palladiani degli anni 1570.