Pinacoteca di Brera
SALA 1
Donato Bramante - Eraclito e Democrito.
Bernardino Luini - Bagno di fanciulle.
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Bernardino Luini - Il corpo di Santa Caterina Trasportato dagli Angeli.
Bernardo Luini - la raccolta della Manna.
Sala 2 .
Pittore Pisano
San Verano tra due angeli e sei storie della sua vita è un dipinto a tempera e orosu tavola (152x97 cm) di un anonimo di scuola pisana, databile al 1270-1275
Storia [modifica]L'opera, dal soggetto così inconsueto, proviene probabilmente dalla pieve di San Verano a Peccioli, vicino Pisa, dove doveva essere il dossale dell'altare maggiore. Probabilmente immesso sul mercato antiquario all'epoca delle soppressioni napoleoniche, lo ebbe in collezione Alfredo Gerli, che nel 1982 lo donò alla pinacoteca milanese.
Recentemente è stata attribuita al Maestro di Castelfiorentino.
Descrizione e stile [modifica]L'opera è tipica dell'arte duecentesca toscana, sia per formato che per impostazione iconografica: un santo a tutta figura in atto benedicente al centro e, ai lati, storie della sua vita, in questo caso sormontate da due angeli simmetrici che si affacciano a mezza figura. La figura è altamente monumentale, con quei giochi lineari nel panneggio lumeggiato d'oro che, nonostante la raffinatezza, finiscono per appiattire il volume.
Gli episodi vanno letti in senso orizzontale:
Pittore pisano, San Verano tra due angeli e sei storie della sua vita ***.
San Verano tra due angeli e sei storie della sua vita è un dipinto a tempera e orosu tavola (152x97 cm) di un anonimo di scuola pisana, databile al 1270-1275
Storia [modifica]L'opera, dal soggetto così inconsueto, proviene probabilmente dalla pieve di San Verano a Peccioli, vicino Pisa, dove doveva essere il dossale dell'altare maggiore. Probabilmente immesso sul mercato antiquario all'epoca delle soppressioni napoleoniche, lo ebbe in collezione Alfredo Gerli, che nel 1982 lo donò alla pinacoteca milanese.
Recentemente è stata attribuita al Maestro di Castelfiorentino.
Descrizione e stile [modifica]L'opera è tipica dell'arte duecentesca toscana, sia per formato che per impostazione iconografica: un santo a tutta figura in atto benedicente al centro e, ai lati, storie della sua vita, in questo caso sormontate da due angeli simmetrici che si affacciano a mezza figura. La figura è altamente monumentale, con quei giochi lineari nel panneggio lumeggiato d'oro che, nonostante la raffinatezza, finiscono per appiattire il volume.
Gli episodi vanno letti in senso orizzontale:
- San Pietro battezza Verano
- Verano e l'angelo e liberazione di un'indemoniata
- Miracolo del fanciullo resuscitato
- Miracolo in una basilica
- Decollazione di san Verano
- Seppellimento di san Verano
Pittore pisano, San Verano tra due angeli e sei storie della sua vita ***.
Giovanni Baronzio - Storie di Santa Colomba.
Giovanni Baronzio, Storie di santa Colomba ***
Maestro del Crocifisso di Pesaro, Madonna col Bambino e Annunciazione
Barnaba da Modena, Adorazione del Bambino.
Ambrogio Lorenzetti - Madonna col Bambino.
Ambrogio Lorenzetti (Siena, ca. 1290 – Siena, 1348) è stato un pittore italiano.
In questa tavola le fisionomie di Maria e del Bambino sono poco dolci. Le figure sono di una presenza statuaria e possente, che echeggia anche le statue di Arnolfo di Cambio. La rappresentazione della Madonna è frontale, alla maniera bizantina e ricorda le opere della seconda metà del 1200 (qualche esperto ha addirittura avanzato l’ipotesi che il committente abbia chiesto esplicitamente all’autore di richiamarsi allo stile di quel tempo). Il manto dellaMadonna è reso con un colore compatto e con scarsa caratterizzazione a pieghe del panneggio. I volti hanno una caratterizzazione chiaroscurale non eccelsa e il trono è un semplice seggio di legno spigoloso che riporta decorazioni geometriche, ma un’architettura ridotta ai minimi termini. Questi erano probabilmente i limiti di un pittore giovane che tuttavia conoscerà successivamente un’evoluzione vertiginosa.
Piuttosto una cosa è straordinaria già in questa tavola giovanile e anticipa quello che sarà uno dei maggiori contributi di Ambrogio nella storia dell’arte, cioè il suo vivo naturalismo nella resa dei personaggi. Le mani di Mariareggono il bambino piuttosto che attorniarlo. La mano destra è inclinata rispetto all’avambraccio a reggere la gamba destra di Gesù. Le dita di entrambe le mani non sono parallele, ma sono disposte in modo da reggere meglio l’infante. Soprattutto spicca l’indice della mano destra che ha un naturalismo funzionale al gesto mai visto prima. Il Bambino guarda la madre. I suoi polsi e lo scorcio del suo piede sinistro mostrano un bambino che si agita e scalcia come un vero infante.
Giovanni da Milano - Cristo in trono.
Cristo in trono adorato da angeli è un dipinto a tempera e oro su tavola (152,3x68,5 cm) di Giovanni da Milano, databile al 1371 ..
La destinazione originale del dipinto è sconosciuta, ma ipotesi recenti hanno ricostruito un polittico per il monastero di Santa Maria degli Angeli a Firenze eseguito vero il 1371, di cui farebbero parte anche altre tre tavole: una alla Galleria Sabauda di Torino, una alla National Gallery di Londra e una nella Collezione Bacri di Parigi.
Descrizione e stile :Cristo, su un trono del quale si vedono solo i grandini della base e due intagli leonini alle estremità dei braccioli, sta seduto in posizione benedicente con in mano il libro della Sacra Scrittura aperto ("Ego sum alpha et o[mega]..."). Si tratta dell'iconografia del Rex iustitiae, cioè di Gesù come re e giudice nell'Apocalisse. La sua figura è monumentale, con il panneggio del manto blu che ne esalta la plasticità, quasi dilatandola, secondo la lezione di Giotto. Egli è circondato dall'abbagliante fondo oro, che ne simboleggia la gloria. Il suo sguardo non cerca direttamente lo spettatore ma diverge leggermente verso destra. Alcuni dettagli sono straordinari, come la mano in scorcio, colta nel gesto in corso di sollevarsi per benedire.
In basso, su differenti gradini, si trovano quattro angeli che lo guardano in posizione di preghiera, con le mani incrociate sul petto; nelle loro figure si nota la volontà di rompere la rigida simmetria variandone la disposizione spaziale: due sono di profilo, uno di tre quarti ed uno è quasi voltato di schiena.
Bernardo Daddi - San Sebastiano
- Rispetto agli stilemi giotteschi, nel Daddi si nota una pittura più raffinata che si avvicina probabilmente alla più aristocratica (e più apprezzata dall'alta borghesia)arte senese nei modi di Ambrogio Lorenzetti. L'utilizzo più complesso e curato del colore e dei tratti si evolverà poi in quelle che saranno le caratteristiche dominanti perfettamente identificabili nelle sue opere più tarde.
Lorenzo Veneziano-Madonna col Bambino e santi.
SALA 3
Jacopo Bellini - Madonna col Bambino.
Andrea di Bartolo Incoronazione della Vergine.
Stefano da Verona - Adorazione dei Magi
L'Adorazione dei Magi è un dipinto a tempera su tavola (47x72 cm) di Stefano da Verona, firmato e datato al 1434, é una delle opere più emblematiche del gotico internazionale in Italia.
La scena, che dimostra una certa conoscenza dell'Adorazione dei Magi di Gentile da Fabriano (del 1423) o perlomeno di un modello comune[1], è impostata su due registri: quello inferiore, dove i Magi rendono omaggio al Bambino e alla Vergine attorniati dal corteo, e quello superiore, dove si vedono alcune scenette come gruppi di pastori, l'arrivo dei Magi guidati dalla cometa e la parte terminale del corteo con cani e cammelli. Non mancano i dettagli curiosi, presi dal mondo quotidiano, come il pastore che beve dal fiasco, quello che tiene una lepre cacciata, ecc.
La spazialità è intuitiva, volutamente imprecisa per dare a tutta la scena un aspetto irreale e fiabesco: ciò si nota bene nelle figure dei tre cavalli, dei quali non si capisce dove possano entrare i corpi nella folla che li circonda. D'altro canto, come tipico nello stiletardo gotico, è usata molta cura nella rappresentazione di dettagli naturalistici, come nelle specie botaniche in primo piano o nell'incannicciato della recinzione della stalla.
DettaglioLa scena in primo piano è dominata dalla figura della Vergine, assisa sotto la capanna del bue e dell'asinello, col Bambino sulle ginocchia. I tre Magi sono colti in atteggiamenti diversi: quello più anziano si è già tolto la corona e inginocchiato, nell'atto di donare un elaborato oggetto d'oro al Bambino, che tende le mani per accettare e benedire; quello di età maturo si sta abbassando e togliendo la corona, mentre con la mano sinistra tiene un cofanetto dorato; infine il magio più giovane, che assiste con attenzione da dietro. Le altre due figure con aureola, in prima fila dietro al Bambino, sono san Giuseppe e sant'Anna. La scena è circondata da tutti i personaggi del corteo, che con fare curioso (alcuni sporgono la testa in alto o di lato) rivolgono lo sguardo verso la figura del Cristo bambino, guidando anche lo sguardo dello spettatore con invisibili linee compositive. Tra i servitori dei Magi sono presenti molte razze, dai tartari ai mori.
Le ricche bardature dei cavalli e i curiosi cappelli del corteo dei Magi ricordano, come nelle opere diPisanello (amico di Stefano da Verona), l'abbigliamento della corte bizantina venuta a Basilea per il concilio del 1431. Il pavone, sul tetto della capanna, è un antichissimo simbolo cristiano di resurrezione e immortalità, poiché già in epoca romana si riteneva che le sue carni fossero immarcescibili; la viola simboleggia l'umiltà di Cristo, il garofano rosso la Passione.
La scena, che dimostra una certa conoscenza dell'Adorazione dei Magi di Gentile da Fabriano (del 1423) o perlomeno di un modello comune[1], è impostata su due registri: quello inferiore, dove i Magi rendono omaggio al Bambino e alla Vergine attorniati dal corteo, e quello superiore, dove si vedono alcune scenette come gruppi di pastori, l'arrivo dei Magi guidati dalla cometa e la parte terminale del corteo con cani e cammelli. Non mancano i dettagli curiosi, presi dal mondo quotidiano, come il pastore che beve dal fiasco, quello che tiene una lepre cacciata, ecc.
La spazialità è intuitiva, volutamente imprecisa per dare a tutta la scena un aspetto irreale e fiabesco: ciò si nota bene nelle figure dei tre cavalli, dei quali non si capisce dove possano entrare i corpi nella folla che li circonda. D'altro canto, come tipico nello stiletardo gotico, è usata molta cura nella rappresentazione di dettagli naturalistici, come nelle specie botaniche in primo piano o nell'incannicciato della recinzione della stalla.
DettaglioLa scena in primo piano è dominata dalla figura della Vergine, assisa sotto la capanna del bue e dell'asinello, col Bambino sulle ginocchia. I tre Magi sono colti in atteggiamenti diversi: quello più anziano si è già tolto la corona e inginocchiato, nell'atto di donare un elaborato oggetto d'oro al Bambino, che tende le mani per accettare e benedire; quello di età maturo si sta abbassando e togliendo la corona, mentre con la mano sinistra tiene un cofanetto dorato; infine il magio più giovane, che assiste con attenzione da dietro. Le altre due figure con aureola, in prima fila dietro al Bambino, sono san Giuseppe e sant'Anna. La scena è circondata da tutti i personaggi del corteo, che con fare curioso (alcuni sporgono la testa in alto o di lato) rivolgono lo sguardo verso la figura del Cristo bambino, guidando anche lo sguardo dello spettatore con invisibili linee compositive. Tra i servitori dei Magi sono presenti molte razze, dai tartari ai mori.
Le ricche bardature dei cavalli e i curiosi cappelli del corteo dei Magi ricordano, come nelle opere diPisanello (amico di Stefano da Verona), l'abbigliamento della corte bizantina venuta a Basilea per il concilio del 1431. Il pavone, sul tetto della capanna, è un antichissimo simbolo cristiano di resurrezione e immortalità, poiché già in epoca romana si riteneva che le sue carni fossero immarcescibili; la viola simboleggia l'umiltà di Cristo, il garofano rosso la Passione.
SALA 4
Gentile da Fabriano.
l Polittico di Valle Romita è un dipinto a tempera e oro su tavola(280x250cm, di cui 157,20x79,6 la tavola centrale, 117,50x40 le tavole laterali inferiori e 48,9x37,8 le tavole superiori) di Gentile da Fabriano, databile al 1410-1412 circa e conservato nella Pinacoteca di Brera aMilano. È firmato in basso al centro sulla tavola centrale ("GENTILIS DE FABRIANO PINXIT"). La destinazione originaria era l'eremo francescano di Val di Sasso (detta anche Valle Romita) nei pressi della sua città natale, Fabriano.
In
Storia [modifica]Non si ha documentazione scritta dell'origine del dipinto, per cui sono state avanzate varie ipotesi. Una delle più suggestive indica come committente il Signore di Fabriano Chiavello Chiavelli che fece restaurare nel 1406 il convento in previsione di farvi ospitare la sua sepoltura, affidandolo ai frati zoccolanti. Il tema dell'incoronazione della Vergine, caro all'osservanza francescana, potrebbe allora essere stato scelto per decorare la chiesa rifondata. La datazione oscillerebbe così tra il 1406 e il 1414, anno in cui Gentile lasciò le Marche per trasferirsi a Brescia, sotto Pandolfo Malatesta. La presenza di elementi ispirati dal gotico internazionale di Michelino da Besozzo(come la resa minuziosa dei dettagli naturalistici) ha fatto poi pensare un incontro dei due artisti a Venezia, dove Gentile si recò a più riprese, circoscrivendo così la datazione del polittico al 1410-1412.
Il polittico venne smembrato probabilmente già nel XVIII secolo e nel 1811 giunsero a Brera la tavola centrale e i quattro scomparti laterali inferiori, direttamente dall'eremo che era stato soppresso. Le quattro tavole minori, tagliate di forma rettangolare, vennero acquistate da una collezione privata nel 1901. La cornice neogotica risale al 1925.
Descrizione e stile [modifica]Dettaglio del pratoIl polittico è composto da cinque scomparti a doppio registro. Il pannello centrale mostra l'Incoronazione della Vergine con una rappresentazione della Trinità e un coro di angeli musicanti in basso. Questa scena fu disegnata ispirandosi ai mosaici bizantini che Gentile aveva visto a Venezia nella basilica di San Marco, come dimostra soprattutto l'eterea sospensione nel cielo delle figure, l'astratta parte inferiore e l'abbacinante fondo oro. Come tipico delle migliori opere del pittore, l'oro è poi lavorato con grande maestria e raffinatezza, col disegno di raggi di luce incisi direttamente sulla superficie o con altre tecniche, come nelle decorazioni delle vesti e in altri decori, talvolta resi a rilievo grazie all'uso della "pastiglia" in gesso. La veste di Gesù è poi disegnata su lamina d'argento.
Del tutto nuova è la capacità del pittore di lavorare le superfici, soprattutto gli abiti, dove riesce a trasmettere il senso della diversa consistenza materica, grazie a una stesura a tratti soffici della pittura.
I quattro pannelli laterali ospitano altrettante figure di santi: da sinistra si vedono San Girolamo con un modellino della chiesa in mano, San Francesco d'Assisi, San Domenico e la Maddalena. Queste figure sono poste in un giardino, appoggiate con passo leggero, ma saldo, su un prato fiorito dove sono dipinte svariate specie botaniche con la massima precisione. Tra i brani di virtuosismo pittorico si annoverano la morbida veste di pelliccia bianca della Maddalena o gli espressivi piedi di san Francesco, coperti di soffice peluria. Nella Maddalena è estremamente raffinato il gesto indolente con cui regge l'ampolla degli unguenti, suo attributo tradizionale, indolentemente appoggiata sulla punta delle dita (l'ampolla è incisa nell'oro, non dipinta, come un oggetto della più raffinata oreficeria coeva): ben diverso sarà il trattamento dell'analogo soggetto nel Polittico Quaratesi, in cui la nuova Maddalena, memore del realismo di Masaccio, terrà saldamente in mano la pisside. Girolamo regge una chiesa gotica, simbolo della Chiesa romana stessa o dell'edificio fatto restaurare. Estremamente tortuoso è il ricadere degli orli dei manti, che creano curve sinuose e ritmate.
L'opera mostra una serie di influenze fabrianesi, lombarde, venete ed umbre, è composta in maniera poco omogenea: l'Incoronazione e i quattro santi nei pannelli laterali hanno un'aria contemplativa, mentre le scene nelle cuspidi sono più concrete, interessate alla caratterizzazione personale dei santi attraverso la scelta degli episodi e delle ambientazioni. L'insieme è comunque equilibrato e dotato di maggiore solidità rispetto alle coeve opere lombarde (come quelle di Michelino da Besozzo).
Cuspidi [modifica]San Giovanni Battista in preghiera nel desertoI quattro pannelli superiori, entro le cuspidi, mostrano invece San Giovanni Battista in preghiera nel deserto, il Martirio di Pietro da Verona, Santo francescano (sant'Antonio da Padova?) in lettura e San Francesco che riceve le stimmate.
Nel Martirio di Pietro da Verona la scena è ambientata sullo sfondo di una vivace veduta cittadina, con effetti di resa materica nella giubba dello sgherro, trattata con effetto di densopointillisme per dare l'idea della lana appallinata. I pannelli di San Giovanni e San Francescosono speculari e ambientati in un brullo paesaggio collinare quasi identico, che richiamava la religiosità ascetica dei francescani di Val di Sasso, isolati nel proprio eremo. Nel pannello del Battista nel deserto il pittore si concentrò soprattutto nel definire con cura i peli della casacca del santo o i cespugli spinosi, lumeggiati con una visione nitida e lenticolare.
Forse il pannello della Crocifissione, situato nella stessa sala del museo, era anticamente nella cuspide centrale del polittico. Una serie di piccoli santi (Collezione Berenson, Fiesole ePinacoteca nazionale di Bologna) sono stati messi in relazione col polittico quali possibili decorazioni dei perduti pilastrini laterali, ma tale ipotesi è stata ins eguito scartata.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
In
Storia [modifica]Non si ha documentazione scritta dell'origine del dipinto, per cui sono state avanzate varie ipotesi. Una delle più suggestive indica come committente il Signore di Fabriano Chiavello Chiavelli che fece restaurare nel 1406 il convento in previsione di farvi ospitare la sua sepoltura, affidandolo ai frati zoccolanti. Il tema dell'incoronazione della Vergine, caro all'osservanza francescana, potrebbe allora essere stato scelto per decorare la chiesa rifondata. La datazione oscillerebbe così tra il 1406 e il 1414, anno in cui Gentile lasciò le Marche per trasferirsi a Brescia, sotto Pandolfo Malatesta. La presenza di elementi ispirati dal gotico internazionale di Michelino da Besozzo(come la resa minuziosa dei dettagli naturalistici) ha fatto poi pensare un incontro dei due artisti a Venezia, dove Gentile si recò a più riprese, circoscrivendo così la datazione del polittico al 1410-1412.
Il polittico venne smembrato probabilmente già nel XVIII secolo e nel 1811 giunsero a Brera la tavola centrale e i quattro scomparti laterali inferiori, direttamente dall'eremo che era stato soppresso. Le quattro tavole minori, tagliate di forma rettangolare, vennero acquistate da una collezione privata nel 1901. La cornice neogotica risale al 1925.
Descrizione e stile [modifica]Dettaglio del pratoIl polittico è composto da cinque scomparti a doppio registro. Il pannello centrale mostra l'Incoronazione della Vergine con una rappresentazione della Trinità e un coro di angeli musicanti in basso. Questa scena fu disegnata ispirandosi ai mosaici bizantini che Gentile aveva visto a Venezia nella basilica di San Marco, come dimostra soprattutto l'eterea sospensione nel cielo delle figure, l'astratta parte inferiore e l'abbacinante fondo oro. Come tipico delle migliori opere del pittore, l'oro è poi lavorato con grande maestria e raffinatezza, col disegno di raggi di luce incisi direttamente sulla superficie o con altre tecniche, come nelle decorazioni delle vesti e in altri decori, talvolta resi a rilievo grazie all'uso della "pastiglia" in gesso. La veste di Gesù è poi disegnata su lamina d'argento.
Del tutto nuova è la capacità del pittore di lavorare le superfici, soprattutto gli abiti, dove riesce a trasmettere il senso della diversa consistenza materica, grazie a una stesura a tratti soffici della pittura.
I quattro pannelli laterali ospitano altrettante figure di santi: da sinistra si vedono San Girolamo con un modellino della chiesa in mano, San Francesco d'Assisi, San Domenico e la Maddalena. Queste figure sono poste in un giardino, appoggiate con passo leggero, ma saldo, su un prato fiorito dove sono dipinte svariate specie botaniche con la massima precisione. Tra i brani di virtuosismo pittorico si annoverano la morbida veste di pelliccia bianca della Maddalena o gli espressivi piedi di san Francesco, coperti di soffice peluria. Nella Maddalena è estremamente raffinato il gesto indolente con cui regge l'ampolla degli unguenti, suo attributo tradizionale, indolentemente appoggiata sulla punta delle dita (l'ampolla è incisa nell'oro, non dipinta, come un oggetto della più raffinata oreficeria coeva): ben diverso sarà il trattamento dell'analogo soggetto nel Polittico Quaratesi, in cui la nuova Maddalena, memore del realismo di Masaccio, terrà saldamente in mano la pisside. Girolamo regge una chiesa gotica, simbolo della Chiesa romana stessa o dell'edificio fatto restaurare. Estremamente tortuoso è il ricadere degli orli dei manti, che creano curve sinuose e ritmate.
L'opera mostra una serie di influenze fabrianesi, lombarde, venete ed umbre, è composta in maniera poco omogenea: l'Incoronazione e i quattro santi nei pannelli laterali hanno un'aria contemplativa, mentre le scene nelle cuspidi sono più concrete, interessate alla caratterizzazione personale dei santi attraverso la scelta degli episodi e delle ambientazioni. L'insieme è comunque equilibrato e dotato di maggiore solidità rispetto alle coeve opere lombarde (come quelle di Michelino da Besozzo).
Cuspidi [modifica]San Giovanni Battista in preghiera nel desertoI quattro pannelli superiori, entro le cuspidi, mostrano invece San Giovanni Battista in preghiera nel deserto, il Martirio di Pietro da Verona, Santo francescano (sant'Antonio da Padova?) in lettura e San Francesco che riceve le stimmate.
Nel Martirio di Pietro da Verona la scena è ambientata sullo sfondo di una vivace veduta cittadina, con effetti di resa materica nella giubba dello sgherro, trattata con effetto di densopointillisme per dare l'idea della lana appallinata. I pannelli di San Giovanni e San Francescosono speculari e ambientati in un brullo paesaggio collinare quasi identico, che richiamava la religiosità ascetica dei francescani di Val di Sasso, isolati nel proprio eremo. Nel pannello del Battista nel deserto il pittore si concentrò soprattutto nel definire con cura i peli della casacca del santo o i cespugli spinosi, lumeggiati con una visione nitida e lenticolare.
Forse il pannello della Crocifissione, situato nella stessa sala del museo, era anticamente nella cuspide centrale del polittico. Una serie di piccoli santi (Collezione Berenson, Fiesole ePinacoteca nazionale di Bologna) sono stati messi in relazione col polittico quali possibili decorazioni dei perduti pilastrini laterali, ma tale ipotesi è stata ins eguito scartata.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Gentile da Fabriano - Crocifissione.
La Crocifissione è un'opera di Gentile da Fabriano
Dell'opera non si conosce la collocazione originaria, ma una scritta antica sul retro assicura una provenienza dalle Marche. Vi si legge infatti "from Cardinal Fra[n]zu[n]ios Collection 1729": prima di entrare in una collezione britannica doveva infatti essere appartenuto al cardinale genovese Giacomo Franzoni, vescovo di Camerino deal 1666al 1693. Sull'ipotesi che la tavola sia il pannello superiore del polittico di Valleromitaesistono una serie di indizi e una testimonianza antica che ricorda la cuspide sottratta da un "orientale"[1]. In base a questa ipotesi, a oggi non comprovata da documenti certi, la tavoletta viene datata al 1410 circa, come il polittico.
La composizione ha un'impostazione classica, su fondo oro, con la Croce al centro della scena, la Madonna, a sinistra, San Giovanni a destra e due angeli sopra di essi. Dalle ferite di Cristo zampilla sangue, che cola macabramente sul terreno. La qualità pittorica della tavoletta è altissima, come dimostrano le tinte morbide e sfumate, i panneggi di grande eleganza, le espressioni di dolore coinvolgente. L'opera è in buone condizioni, nonostante alcuni danni causati da restauri eseguiti in epoca imprecisata.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Dell'opera non si conosce la collocazione originaria, ma una scritta antica sul retro assicura una provenienza dalle Marche. Vi si legge infatti "from Cardinal Fra[n]zu[n]ios Collection 1729": prima di entrare in una collezione britannica doveva infatti essere appartenuto al cardinale genovese Giacomo Franzoni, vescovo di Camerino deal 1666al 1693. Sull'ipotesi che la tavola sia il pannello superiore del polittico di Valleromitaesistono una serie di indizi e una testimonianza antica che ricorda la cuspide sottratta da un "orientale"[1]. In base a questa ipotesi, a oggi non comprovata da documenti certi, la tavoletta viene datata al 1410 circa, come il polittico.
La composizione ha un'impostazione classica, su fondo oro, con la Croce al centro della scena, la Madonna, a sinistra, San Giovanni a destra e due angeli sopra di essi. Dalle ferite di Cristo zampilla sangue, che cola macabramente sul terreno. La qualità pittorica della tavoletta è altissima, come dimostrano le tinte morbide e sfumate, i panneggi di grande eleganza, le espressioni di dolore coinvolgente. L'opera è in buone condizioni, nonostante alcuni danni causati da restauri eseguiti in epoca imprecisata.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
SALA 6.
Liberale da Verona - San Sebastiano.
Carpaccio - Presentazione della Vergine al tempio.
Carpaccio - Miracolo della Verga Fiorita.
P.
Le Storie della Vergine sono un ciclo di teleri di Vittore Carpaccio, dipinto tra il1504 e il 1508 e oggi diviso tra più musei. Decorava anticamente la sala dell'Albergo nella Scuola di Santa Maria degli Albanesi a Venezia.Indice [
La Presentazione della Vergine al Tempio è ambientata nell'esterno di una piazza veneziana, con Maria adolescente che sale, umile ma decisa, i gradini del Tempio dove la aspetta il sacerdote, che la terrà come monaca fino al giorno del suo matrimonio. Dietro di lei si vedonoGioacchino e Anna, che la consegnano, e altri personaggi, dalle espressioni un po' imbambolate. Anche in questa tela l'aspetto più interessante sono i dettagli, come la veste del sacerdote, la torre che ricorda quella dell'Orologio a Venezia, il bambino in primo piano di spalle davanti a un fregio di Battaglia ispirato all'arte antica, con un cerbiatto al guinzaglio e un leprotto vicino ai piedi. Il taglio della tela è moderno, infatti lascia fuori della rappresentazioni alcuni brani, come il coronamento degli edifici sullo sfondo.
Il Miracolo della verga fiorita mostra il matrimonio di Maria, quando all'interno del Tempio di Gerusalemme, maestosamente ritratto in un tripudio di decorazioni marmoree, tra cui si vede una menorah, si tenne una sfida tra gli uomini su chi, alla presenza del Sommo Sacerdote, avesso portato un bastone fiorito alla giovane Vergine. Solo quello dell'anziano Giuseppe risultò miracoloso, e si vede l'uomo che tra la sorpresa e la curiosità guarda la giovane sposa, mentre gli altri pretendenti si accalcano a destra e arrabbiati gettano le verghe perdenti sul pavimento. L'apparizione di un angelo, in alto a destra, certifica l'intervento divino nella vicenda, poiché l'anzianità di Giuseppe avrebbe garantito il mantenimento della verginità di Maria. Grande cura è riposta nella descrizione del tempio: dagli oggetti liturgici sul tavolino ligneo in primo piano, alle scritte ebraiche, all'altare col fuoco sacro, fino alle pregevoli decorazione ricamate sui gradini o sul tappeto orientale.
La Presentazione della Vergine al Tempio è ambientata nell'esterno di una piazza veneziana, con Maria adolescente che sale, umile ma decisa, i gradini del Tempio dove la aspetta il sacerdote, che la terrà come monaca fino al giorno del suo matrimonio. Dietro di lei si vedonoGioacchino e Anna, che la consegnano, e altri personaggi, dalle espressioni un po' imbambolate. Anche in questa tela l'aspetto più interessante sono i dettagli, come la veste del sacerdote, la torre che ricorda quella dell'Orologio a Venezia, il bambino in primo piano di spalle davanti a un fregio di Battaglia ispirato all'arte antica, con un cerbiatto al guinzaglio e un leprotto vicino ai piedi. Il taglio della tela è moderno, infatti lascia fuori della rappresentazioni alcuni brani, come il coronamento degli edifici sullo sfondo.
Il Miracolo della verga fiorita mostra il matrimonio di Maria, quando all'interno del Tempio di Gerusalemme, maestosamente ritratto in un tripudio di decorazioni marmoree, tra cui si vede una menorah, si tenne una sfida tra gli uomini su chi, alla presenza del Sommo Sacerdote, avesso portato un bastone fiorito alla giovane Vergine. Solo quello dell'anziano Giuseppe risultò miracoloso, e si vede l'uomo che tra la sorpresa e la curiosità guarda la giovane sposa, mentre gli altri pretendenti si accalcano a destra e arrabbiati gettano le verghe perdenti sul pavimento. L'apparizione di un angelo, in alto a destra, certifica l'intervento divino nella vicenda, poiché l'anzianità di Giuseppe avrebbe garantito il mantenimento della verginità di Maria. Grande cura è riposta nella descrizione del tempio: dagli oggetti liturgici sul tavolino ligneo in primo piano, alle scritte ebraiche, all'altare col fuoco sacro, fino alle pregevoli decorazione ricamate sui gradini o sul tappeto orientale.
Cima da Conegliano - San Gerolamo penitente.
San Girolamo nel deserto è un dipinto ad olio su tavola (37 x 30 cm) diCima da Conegliano, databile al 1495 e conservato nella Pinacoteca di Brera.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Cima da Conegliano - San Pietro in Trono fra i santi Giovanni Battista e Paolo
San Pietro in trono con i santi Giovanni Battista e Paolo è un dipinto ad olio su tavola trasferito su tela (156x146 cm) di Cima da Conegliano, databile al 1516 conservato presso la Pinacoteca di Brera a Milano.
Descrizione [modifica]Questo dipinto raffigura al centro san Pietro vestito di bianco con il mantello e ai suoi piedi le chiavi, a sinistra san Giovanni Battista, a destra san Paolo con la spada ed il libro, in basso al centro l'angelomusicante.
Descrizione [modifica]Questo dipinto raffigura al centro san Pietro vestito di bianco con il mantello e ai suoi piedi le chiavi, a sinistra san Giovanni Battista, a destra san Paolo con la spada ed il libro, in basso al centro l'angelomusicante.
Giovanni Bellini - Madonna Greca.
La Madonna greca è un dipinto tempera su tavola (82x62 cm) di Giovanni Bellini, databile al 1460-1470 circa
L'opera si trovava nell'ufficio dei Regulatori di Scrittura a palazzo Ducale a Veneziaquando venne requisita durante le soppressioni napoleoniche e destinata subito, nel1808, alla nascente pinacoteca milanese.
Descrizione e stile [modifica]Maria sorregge saldamente tra le mani il Bambino, il quale si appoggia al bordo inferiore della cornice dipinta, oltre la quale sporgono invece alcuni lembi della veste di Maria. Gesù ha in mano una mela dorata, forse un richiamo alla leggenda diParide ed a Maria-nuova Venere. L'aspetto generale dell'opera rimanda alla fissità iconica alle icone bizantine, ravvivate dai dolci gesti che legano madre e figlio vivificandone le figure. Pellizzari aveva addirittura ipotizzato che l'opera avesse avuto originariamente un fondo oro, ma ciò è stato smentito dal restauro del 1986. In quell'occasione si è anche scoperto che i frammenti d'oro vicino alle lettere greche sono un'aggiunta cinquecentesca, mentre lo sfondo originario era una tenda retta da una cordicella oltre la quale si intravede un cielo blu.
Gli sguardi dei protagonisti, come di consueto in questo tema, non si incontrano, ma la familiarità è resa dall'intrecciarsi delle mani, che crea un tenero abbraccio della madre verso il figlio. L'espressione è però pensosa e malinconica, perché ricorda la consapevolezza della futura sorte tragica di Gesù, destinato alla Passione.
Da un punto di vista tecnico, la tavola venne preparata come da tradizione con gesso e colla, sui quali il pittore fece un disegno preparatorio dove è tracciato con estrema precisione anche il chiaroscuro con sottili trattini incrociati molto regolari, visibili all'infrarosso.
L'opera si trovava nell'ufficio dei Regulatori di Scrittura a palazzo Ducale a Veneziaquando venne requisita durante le soppressioni napoleoniche e destinata subito, nel1808, alla nascente pinacoteca milanese.
Descrizione e stile [modifica]Maria sorregge saldamente tra le mani il Bambino, il quale si appoggia al bordo inferiore della cornice dipinta, oltre la quale sporgono invece alcuni lembi della veste di Maria. Gesù ha in mano una mela dorata, forse un richiamo alla leggenda diParide ed a Maria-nuova Venere. L'aspetto generale dell'opera rimanda alla fissità iconica alle icone bizantine, ravvivate dai dolci gesti che legano madre e figlio vivificandone le figure. Pellizzari aveva addirittura ipotizzato che l'opera avesse avuto originariamente un fondo oro, ma ciò è stato smentito dal restauro del 1986. In quell'occasione si è anche scoperto che i frammenti d'oro vicino alle lettere greche sono un'aggiunta cinquecentesca, mentre lo sfondo originario era una tenda retta da una cordicella oltre la quale si intravede un cielo blu.
Gli sguardi dei protagonisti, come di consueto in questo tema, non si incontrano, ma la familiarità è resa dall'intrecciarsi delle mani, che crea un tenero abbraccio della madre verso il figlio. L'espressione è però pensosa e malinconica, perché ricorda la consapevolezza della futura sorte tragica di Gesù, destinato alla Passione.
Da un punto di vista tecnico, la tavola venne preparata come da tradizione con gesso e colla, sui quali il pittore fece un disegno preparatorio dove è tracciato con estrema precisione anche il chiaroscuro con sottili trattini incrociati molto regolari, visibili all'infrarosso.
Giovanni Bellini - Pietà.
La Pietà (o Cristo morto sorretto da Maria e Giovanni) è un dipinto tempera su tavola (86x107 cm) di Giovanni Bellini, databile al 1465-1470
Il dipinto, già nella collezione Sampieri a Bologna (catalogata n. 454) entrò a Brera nel 1811, su donazione del viceré del Regno d'Italia Eugenio di Beauharnais.
Descrizione :Il corpo di Cristo morto è sorretto dalla Vergine (a sinistra) e da san Giovanni a destra, con un'evidente facilità che tradisce una certa mancanza di peso. La mano di Gesù poggia in primo piano su una lastra marmorea su cui si trova la firma dell'artista e un frase tratta dal libro delle Elegie di Properzio (HAEC FERE QVVM GEMITVS TVRGENTIA LVMINA PROMANT / BELLINI POTERAT IONNIS OPVS, "Questi occhi gonfi quasi emetteranno gemiti, quest'opera di Giovanni Bellini potrà spargere lacrime"), secondo uno schema derivato dallapittura fiamminga, già usato da Mantegna e dagli artisti padovani. Tale artificio separa il mondo reale dello spettatore da quello dipinti, ma tramite la travalicazione di questo confine, operata in questo caso dalla mano, si tenta un'illusoria fusione tra i due mondi.
La mano e la firmaL'incisività delle linee di contorno e i grafismi (nei capelli di Giovanni dipinti uno a uno o nella vena pulsante del braccio di Cristo) rimandano ancora alla lezione mantegnesca, ma l'uso del colore e della luce è ben diverso da quello del cognato. I toni sono infatti ammorbiditi e cercano di restituire un effetto di illuminazione naturale, di una chiara giornata all'aperto, fredda e metallica quale un'alba di rinascita, che asseconda il senso angoscioso della scena, facendo in un certo senso da cassa di risonanza delle emozioni umane[1]. La luce si impasta nei colori addolcendo la rappresentazione, grazie alla particolare stesura della tempera a tratti finissimi ravvicinati.
Più che concentrarsi sullo spazio prospettico, a Bellini sembra piuttosto interessare la rappresentazione della dolente umanità dei protagonisti, derivata dall'esempio di Rogier van der Weyden, secondo uno stile che divenne poi una delle caratteristiche più tipiche della sua arte. I volumi statuari delle figure, che campeggiano isolate conto il cielo chiaro, amplificano il dramma, che si condensa nel muto dialogo tra madre e figlio, mentre lo sguardo di san Giovanni tradisce un composto sgomento. Lo scambio di emozioni si riflette poi nel sapiente gioco delle mani, con un senso di dolore ed amarezza.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Il dipinto, già nella collezione Sampieri a Bologna (catalogata n. 454) entrò a Brera nel 1811, su donazione del viceré del Regno d'Italia Eugenio di Beauharnais.
Descrizione :Il corpo di Cristo morto è sorretto dalla Vergine (a sinistra) e da san Giovanni a destra, con un'evidente facilità che tradisce una certa mancanza di peso. La mano di Gesù poggia in primo piano su una lastra marmorea su cui si trova la firma dell'artista e un frase tratta dal libro delle Elegie di Properzio (HAEC FERE QVVM GEMITVS TVRGENTIA LVMINA PROMANT / BELLINI POTERAT IONNIS OPVS, "Questi occhi gonfi quasi emetteranno gemiti, quest'opera di Giovanni Bellini potrà spargere lacrime"), secondo uno schema derivato dallapittura fiamminga, già usato da Mantegna e dagli artisti padovani. Tale artificio separa il mondo reale dello spettatore da quello dipinti, ma tramite la travalicazione di questo confine, operata in questo caso dalla mano, si tenta un'illusoria fusione tra i due mondi.
La mano e la firmaL'incisività delle linee di contorno e i grafismi (nei capelli di Giovanni dipinti uno a uno o nella vena pulsante del braccio di Cristo) rimandano ancora alla lezione mantegnesca, ma l'uso del colore e della luce è ben diverso da quello del cognato. I toni sono infatti ammorbiditi e cercano di restituire un effetto di illuminazione naturale, di una chiara giornata all'aperto, fredda e metallica quale un'alba di rinascita, che asseconda il senso angoscioso della scena, facendo in un certo senso da cassa di risonanza delle emozioni umane[1]. La luce si impasta nei colori addolcendo la rappresentazione, grazie alla particolare stesura della tempera a tratti finissimi ravvicinati.
Più che concentrarsi sullo spazio prospettico, a Bellini sembra piuttosto interessare la rappresentazione della dolente umanità dei protagonisti, derivata dall'esempio di Rogier van der Weyden, secondo uno stile che divenne poi una delle caratteristiche più tipiche della sua arte. I volumi statuari delle figure, che campeggiano isolate conto il cielo chiaro, amplificano il dramma, che si condensa nel muto dialogo tra madre e figlio, mentre lo sguardo di san Giovanni tradisce un composto sgomento. Lo scambio di emozioni si riflette poi nel sapiente gioco delle mani, con un senso di dolore ed amarezza.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Giovanni Bellini - Madonna col Bambino Benedicente.
La Madonna col Bambino benedicente è un dipinto a olio su tavola(85x118 cm) di Giovanni Bellini, datato 1510
Quando il maestro dipinse l'opera aveva circa ottant'anni ed era già affermato come uno degli artisti di maggior prestigio del Rinascimento veneziano, capace di aggiornarsi continuamente alle ultime tendenze.
L'opera è stata restaurata nel 1986-1987, quando si rilevò l'assenza di disegno preparatorio sotto il paesaggio, a conferma dell'estrema confidenza ormai raggiunta dall'autore nel comporre e dipingere la natura. Tra i dettagli tecnici venuti alla luce c'è il procedimento di apporre velature sulla preparazione, intervenendo spesso anche con i polpastrelli delle dita.
Descrizione e stile [modifica]L'opera è affine alla Madonna del Prato di qualche anno anteriore. Sebbene manchi quella compenetrazione diretta tra soggetti sacri e sfondo, con recupero della tenda come inframezzo, il paesaggio è comunque impostato su valori atmosferici della pittura tonale, aggiornata alle novità di Giorgione.
La figura monumentale di Maria assisa in trono campeggia sul paesaggio al di qua di una tenda verde, con il Bambino in piedi su un suo ginocchio in atto benedicente verso lo spettatore. Gli ampi panneggi dilatano il volume del suo corpo, secondo schemi quattrocenteschi, ma mancano quelle asprezze e quell'incisività del segno tipica della produzione anteriore. Il protagonista della rappresentazione è ormai il colore, su cui ruota l'intero equilibrio della composizione.
Il paesaggio, dalla calda luminosità, è punteggiato di figure ritratte minuziosamente, che derivano dalla tradizione tardogotica, imparata dal padre Jacopo, di studiare i dettagli singolarmente dal vero. A sinistra spicca un ghepardo su un cippo classico, ove si trova a lettere capitali la firma dell'artista e la data 1510 (IOANNES BELLINUS MDX). Notevole è poi la rappresentazione delle attività agricole e di piccoli animali e figurette umane, mentre in lontananza le montagne si perdono su tonalità azzurrine schiarite dala foschia, secondo le regole della prospettiva aerea. Il risultato è un paesaggio ordinato e unificato dalla luce dorata, che investe anche il gruppo sacro dando all'insieme unità e armonia.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Quando il maestro dipinse l'opera aveva circa ottant'anni ed era già affermato come uno degli artisti di maggior prestigio del Rinascimento veneziano, capace di aggiornarsi continuamente alle ultime tendenze.
L'opera è stata restaurata nel 1986-1987, quando si rilevò l'assenza di disegno preparatorio sotto il paesaggio, a conferma dell'estrema confidenza ormai raggiunta dall'autore nel comporre e dipingere la natura. Tra i dettagli tecnici venuti alla luce c'è il procedimento di apporre velature sulla preparazione, intervenendo spesso anche con i polpastrelli delle dita.
Descrizione e stile [modifica]L'opera è affine alla Madonna del Prato di qualche anno anteriore. Sebbene manchi quella compenetrazione diretta tra soggetti sacri e sfondo, con recupero della tenda come inframezzo, il paesaggio è comunque impostato su valori atmosferici della pittura tonale, aggiornata alle novità di Giorgione.
La figura monumentale di Maria assisa in trono campeggia sul paesaggio al di qua di una tenda verde, con il Bambino in piedi su un suo ginocchio in atto benedicente verso lo spettatore. Gli ampi panneggi dilatano il volume del suo corpo, secondo schemi quattrocenteschi, ma mancano quelle asprezze e quell'incisività del segno tipica della produzione anteriore. Il protagonista della rappresentazione è ormai il colore, su cui ruota l'intero equilibrio della composizione.
Il paesaggio, dalla calda luminosità, è punteggiato di figure ritratte minuziosamente, che derivano dalla tradizione tardogotica, imparata dal padre Jacopo, di studiare i dettagli singolarmente dal vero. A sinistra spicca un ghepardo su un cippo classico, ove si trova a lettere capitali la firma dell'artista e la data 1510 (IOANNES BELLINUS MDX). Notevole è poi la rappresentazione delle attività agricole e di piccoli animali e figurette umane, mentre in lontananza le montagne si perdono su tonalità azzurrine schiarite dala foschia, secondo le regole della prospettiva aerea. Il risultato è un paesaggio ordinato e unificato dalla luce dorata, che investe anche il gruppo sacro dando all'insieme unità e armonia.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Andrea Mantegna - Polittico di San Luca.
Il Polittico di San Luca è un'opera tempera su tavola (177x230 cm) realizzata da Andrea Mantegna tra il 1453 e il 1454 e conservata nella Pinacoteca di Brera a Milano.
I
Storia [modifica]Il polittico venne commissionato dai monaci benedettini dell'abbazia di Santa Giustina a Padova per la cappella di San Luca della chiesa, nell'agosto del 1453, dall'abate Mauro, al secolo Sigismondo de' Folperti da Pavia.
L'opera fu completata entro la fine del 1454, mentre l'artista era contemporaneamente impegnato agli affreschi della cappella Ovetari nella chiesa degli Eremitani. La pala è firmata in caratteri romani sulla colonna che regge il leggio di san Luca al centro (OPVS / ANDREAE MANTEGNA).
La pala rimase in loco fino al 1797, quando con le soppressioni napoleoniche venne destinata all'Accademia di Milano, dove arrivò nel 1811.
Descrizione e stile [modifica]San Luca allo scrittoio, dettaglioVolto del Cristo, dettaglioSan ProsdocimoImpaginazione generale [modifica]Il polittico è composto da dodici scomparti organizzati su due registri. Perduta è la cornice lignea originale che, come nella Pala di San Zeno, doveva essere stata disegnata dall'artista stesso e doveva raccordare unitariamente i vari pannelli. I documenti parlando della sua realizzazione da parte di maestro Guglielmo, con rifiniture pittoriche in oro e blu d'Alemagna, quest'ultime pagate a un atle maestro Guzon nel 1455.
Nella pala si trovano fusi elementi arcaici, come il fondo oro e le diverse proporzioni tra le figure, ed elementi innovativi come l'unificazione spaziale prospettica nel gradino in marmi policromi che fa da base ai santi del registro inferiore e la veduta scorciata dal basso dei personaggi del registro superiore, estremamente soldi e monumentali, che con la cornice originale dovevano dare l'idea di affacciarsi da una loggia ad arcate, posta in alto rispetto al punto di vista dello spettatore. Le figure hanno contorni nitidi, evidenziati dalla brillantezza quasi metallica dei colori.
La scelta dei santi è strettamente legata alla storia dell'ordine benedettino e a quella dell'abbazia, in particolare alle leggende sul culto delle reliquie presenti fin dalle origini nel monastero. Essi, a parte Benedetto, fondatore dei benedettini, si trovano tutti citati in un miscellanea quattrocentesca di manoscritti della biblioteca dell'abbazia, copia di un più antico testo del XII secolo, intitolata Passio beatae Iustinae virginis, vita sancti Prosdocimi, legende sanctorum monasterii Sanctae Iustinae. Vi si trovano infatti capitoli dedicati al sermone di san Girolamo su san Luca e alla storie del rinvenimento delle reliquie dei santiMassimo, Giustina, Luca e altri.
Fascia inferiore [modifica]Nella fascia inferiore, la figura centrale è quella di san Luca evangelista (140x67 cm), seduto su uno scranno marmoreo che sembra un trono (con delfini scolpiti sui braccioli, marmi policromi, megalioni, ecc.) e concentrato nella scrittura del Vangelo, che è appoggiato su un piano inclinato ligneo a sua volta retto da un tavolo marmoreo circolare su un'alta colonnina. Tra il piano dello scrittoio e la base marmorea si trova una natura morta con due libri, una lucrena rossa e due calamai infilati in un buchi nel legno, contenenti inchiostro rosso e nero. Evidente è anche qui lo scorcio dal basso verso l'alto e curatissima è la raffigurazione dei marmi policromi, derivata dall'esempio del suo maestro Squarcione. La scelta di raffigurare Luca come un amanuense, con un'estrema cura nella descrizione degli strumenti del mestiere, è legata senz'altro anche alla presenza di un importante scriptorium in Santa Giustina.
Da sinistra verso destra si riconoscono santa Scolastica, nell'abito nero di monaca benedettina e il libro della Regola; san Prosdocimo, in abiti vescovili, con il pastorale e la brocca, simbolo delBattesimo; san Benedetto da Norcia, in abito scuro, con il libro della Regola e un fascio di verghe, che indicano le norme della Regola; santa Giustina, con la palma del martirio e un pugnale nel cuore, variazione della spada che la decapitò. Santa Scolastica era sorella di san Benedetto, mentre santa Giustina venne battezzata da san Prosdocimo: la loro disposizione crea una preziosa alternanza cromatica tra gli abiti neri dei religiosi regolari e gli abiti chiari e rosati dei due protettori di Padova. Ciascuna di queste tavole laterali misura 118x42 cm.
Fascia superiore [modifica]Nella fascia superiore, al centro la Pietà (51x30 cm) con Maria e san Giovanni (70x19 cm ciascuno), dove si nota la lezione dei rilievi dell'altare del Santo di Donatello (come quello delCristo morto), anche se Mantegna non raggiunge la drammaticità profondamente umana dello scultore fiorentino: le ferite di Cristo infatti non sembrano scalfire il suo corpo quasi pietrificato e la sua sofferenza viene esaltata solo in virtù dei gesti delle due figure dolenti di Giovanni e Maria ai lati.
La Pietà è affiancata da quattro santi: da sinistra, san Daniele diacono, patrono di Padova, san Gerolamo, con il manto rosso di cardinale e una pietra in mano, con cui si percuoteva il petto in segno di penitenza; sant'Agostino o san Massimo vescovo di Padova, con mitria e pastorale di vescovo e san Sebastiano, in veste di soldato, con la spada e la palma del martirio, talvolta erroneamente indicato come san Giuliano l'Ospitaliere (che porta pure la spada, ma non fu martirizzato). Ciascuna di queste tavole misura 69x40 cm.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
I
Storia [modifica]Il polittico venne commissionato dai monaci benedettini dell'abbazia di Santa Giustina a Padova per la cappella di San Luca della chiesa, nell'agosto del 1453, dall'abate Mauro, al secolo Sigismondo de' Folperti da Pavia.
L'opera fu completata entro la fine del 1454, mentre l'artista era contemporaneamente impegnato agli affreschi della cappella Ovetari nella chiesa degli Eremitani. La pala è firmata in caratteri romani sulla colonna che regge il leggio di san Luca al centro (OPVS / ANDREAE MANTEGNA).
La pala rimase in loco fino al 1797, quando con le soppressioni napoleoniche venne destinata all'Accademia di Milano, dove arrivò nel 1811.
Descrizione e stile [modifica]San Luca allo scrittoio, dettaglioVolto del Cristo, dettaglioSan ProsdocimoImpaginazione generale [modifica]Il polittico è composto da dodici scomparti organizzati su due registri. Perduta è la cornice lignea originale che, come nella Pala di San Zeno, doveva essere stata disegnata dall'artista stesso e doveva raccordare unitariamente i vari pannelli. I documenti parlando della sua realizzazione da parte di maestro Guglielmo, con rifiniture pittoriche in oro e blu d'Alemagna, quest'ultime pagate a un atle maestro Guzon nel 1455.
Nella pala si trovano fusi elementi arcaici, come il fondo oro e le diverse proporzioni tra le figure, ed elementi innovativi come l'unificazione spaziale prospettica nel gradino in marmi policromi che fa da base ai santi del registro inferiore e la veduta scorciata dal basso dei personaggi del registro superiore, estremamente soldi e monumentali, che con la cornice originale dovevano dare l'idea di affacciarsi da una loggia ad arcate, posta in alto rispetto al punto di vista dello spettatore. Le figure hanno contorni nitidi, evidenziati dalla brillantezza quasi metallica dei colori.
La scelta dei santi è strettamente legata alla storia dell'ordine benedettino e a quella dell'abbazia, in particolare alle leggende sul culto delle reliquie presenti fin dalle origini nel monastero. Essi, a parte Benedetto, fondatore dei benedettini, si trovano tutti citati in un miscellanea quattrocentesca di manoscritti della biblioteca dell'abbazia, copia di un più antico testo del XII secolo, intitolata Passio beatae Iustinae virginis, vita sancti Prosdocimi, legende sanctorum monasterii Sanctae Iustinae. Vi si trovano infatti capitoli dedicati al sermone di san Girolamo su san Luca e alla storie del rinvenimento delle reliquie dei santiMassimo, Giustina, Luca e altri.
Fascia inferiore [modifica]Nella fascia inferiore, la figura centrale è quella di san Luca evangelista (140x67 cm), seduto su uno scranno marmoreo che sembra un trono (con delfini scolpiti sui braccioli, marmi policromi, megalioni, ecc.) e concentrato nella scrittura del Vangelo, che è appoggiato su un piano inclinato ligneo a sua volta retto da un tavolo marmoreo circolare su un'alta colonnina. Tra il piano dello scrittoio e la base marmorea si trova una natura morta con due libri, una lucrena rossa e due calamai infilati in un buchi nel legno, contenenti inchiostro rosso e nero. Evidente è anche qui lo scorcio dal basso verso l'alto e curatissima è la raffigurazione dei marmi policromi, derivata dall'esempio del suo maestro Squarcione. La scelta di raffigurare Luca come un amanuense, con un'estrema cura nella descrizione degli strumenti del mestiere, è legata senz'altro anche alla presenza di un importante scriptorium in Santa Giustina.
Da sinistra verso destra si riconoscono santa Scolastica, nell'abito nero di monaca benedettina e il libro della Regola; san Prosdocimo, in abiti vescovili, con il pastorale e la brocca, simbolo delBattesimo; san Benedetto da Norcia, in abito scuro, con il libro della Regola e un fascio di verghe, che indicano le norme della Regola; santa Giustina, con la palma del martirio e un pugnale nel cuore, variazione della spada che la decapitò. Santa Scolastica era sorella di san Benedetto, mentre santa Giustina venne battezzata da san Prosdocimo: la loro disposizione crea una preziosa alternanza cromatica tra gli abiti neri dei religiosi regolari e gli abiti chiari e rosati dei due protettori di Padova. Ciascuna di queste tavole laterali misura 118x42 cm.
Fascia superiore [modifica]Nella fascia superiore, al centro la Pietà (51x30 cm) con Maria e san Giovanni (70x19 cm ciascuno), dove si nota la lezione dei rilievi dell'altare del Santo di Donatello (come quello delCristo morto), anche se Mantegna non raggiunge la drammaticità profondamente umana dello scultore fiorentino: le ferite di Cristo infatti non sembrano scalfire il suo corpo quasi pietrificato e la sua sofferenza viene esaltata solo in virtù dei gesti delle due figure dolenti di Giovanni e Maria ai lati.
La Pietà è affiancata da quattro santi: da sinistra, san Daniele diacono, patrono di Padova, san Gerolamo, con il manto rosso di cardinale e una pietra in mano, con cui si percuoteva il petto in segno di penitenza; sant'Agostino o san Massimo vescovo di Padova, con mitria e pastorale di vescovo e san Sebastiano, in veste di soldato, con la spada e la palma del martirio, talvolta erroneamente indicato come san Giuliano l'Ospitaliere (che porta pure la spada, ma non fu martirizzato). Ciascuna di queste tavole misura 69x40 cm.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Andrea Mantegna - Cristo morto.
IL Cristo morto (noto anche come Lamento sul Cristo morto) è uno dei più celebri dipinti di Andrea Mantegna, tempera su tela (68x81 cm), databile con incertezza tra il 1475-1478 circa.
Storia [modifica]La datazione al 1475-1478 è solo una delle ipotesi più accreditate, che oscillano entro quasi un cinquantennio di produzione mantegnesca, dalla fine del periodo mantovano alla morte. In ogni caso l'opera viene in genere messa in relazione allaCamera degli Sposi, con il contenuto illusionistico della prospettiva che sarebbe un'evoluzione a estremi livelli dello scorcio dell'"oculo"[2].
Descrizione : DettaglioL'iconografia di riferimento per l'opera è quella del compianto sul Cristo morto, che prevedeva la presenza dei "dolenti" riuniti attorno al corpo che veniva preparato per la sepoltura. Cristo è infatti sdraiato sulla pietra dell'unzione, semicoperta dal sudario, e la presenza del vasetto degli unguenti in alto a destra dimostra che è già stato cosparso di profumi. La forte valenza sperimentale dell'opera è confermato sia dall'uso della tela come supporto, ancora raro per l'epoca, e dall'uso potente e invasivo dello scorcio prospettico, accompagnato a una sorprendente concentrazione di mezzi espressivi[1]. Mantegna strutturò la composizione per produrre un inedito impatto emotivo, con i piedi di Cristo proiettati verso lo spettatore e la fuga di linee convergenti che trascina l'occhio di chi guarda al centro del dramma[1].
A sinistra, compressi in un angolo, si trovano tre figure dolenti: la Vergine Maria che si asciuga le lacrime con un fazzoletto, san Giovanni che piange e tiene le mani unite e, in ombra sullo sfondo, la figura di una donna che si dispera, in tutta probabilità Maria Maddalena. Pochi accenni rivelano l'ambiente in cui si svolge la scena: a destra si vede un tratto di pavimento e un'apertura che introduce in una stanza buia[5].
Il forte contrasto di luce, proveniente da destra, e ombra origina un profondo senso dipathos[5]. Ogni dettaglio è amplificato dal tratto incisivo delle linee, costringendo lo sguardo a soffermarsi sui particolari più raccapriccianti, come le membra irrigidite dal rigor mortis e le ferite ostentatamente presentate in primo piano, come consueto nella tradizione[3]. I fori nelle mani e nei piedi, così come i volti delle altre figure, solcati dal dolore, sono dipinti senza nessuna concessione di idealismo o retorica.
Il drappo che copre parzialmente il corpo, contribuisce a drammatizzare ulteriormente il cadavere. Un particolare che sorprende è la scelta di porre i genitali del Cristo al centro del quadro; scelta che è aperta ad una moltitudine di interpretazioni.
Storia [modifica]La datazione al 1475-1478 è solo una delle ipotesi più accreditate, che oscillano entro quasi un cinquantennio di produzione mantegnesca, dalla fine del periodo mantovano alla morte. In ogni caso l'opera viene in genere messa in relazione allaCamera degli Sposi, con il contenuto illusionistico della prospettiva che sarebbe un'evoluzione a estremi livelli dello scorcio dell'"oculo"[2].
Descrizione : DettaglioL'iconografia di riferimento per l'opera è quella del compianto sul Cristo morto, che prevedeva la presenza dei "dolenti" riuniti attorno al corpo che veniva preparato per la sepoltura. Cristo è infatti sdraiato sulla pietra dell'unzione, semicoperta dal sudario, e la presenza del vasetto degli unguenti in alto a destra dimostra che è già stato cosparso di profumi. La forte valenza sperimentale dell'opera è confermato sia dall'uso della tela come supporto, ancora raro per l'epoca, e dall'uso potente e invasivo dello scorcio prospettico, accompagnato a una sorprendente concentrazione di mezzi espressivi[1]. Mantegna strutturò la composizione per produrre un inedito impatto emotivo, con i piedi di Cristo proiettati verso lo spettatore e la fuga di linee convergenti che trascina l'occhio di chi guarda al centro del dramma[1].
A sinistra, compressi in un angolo, si trovano tre figure dolenti: la Vergine Maria che si asciuga le lacrime con un fazzoletto, san Giovanni che piange e tiene le mani unite e, in ombra sullo sfondo, la figura di una donna che si dispera, in tutta probabilità Maria Maddalena. Pochi accenni rivelano l'ambiente in cui si svolge la scena: a destra si vede un tratto di pavimento e un'apertura che introduce in una stanza buia[5].
Il forte contrasto di luce, proveniente da destra, e ombra origina un profondo senso dipathos[5]. Ogni dettaglio è amplificato dal tratto incisivo delle linee, costringendo lo sguardo a soffermarsi sui particolari più raccapriccianti, come le membra irrigidite dal rigor mortis e le ferite ostentatamente presentate in primo piano, come consueto nella tradizione[3]. I fori nelle mani e nei piedi, così come i volti delle altre figure, solcati dal dolore, sono dipinti senza nessuna concessione di idealismo o retorica.
Il drappo che copre parzialmente il corpo, contribuisce a drammatizzare ulteriormente il cadavere. Un particolare che sorprende è la scelta di porre i genitali del Cristo al centro del quadro; scelta che è aperta ad una moltitudine di interpretazioni.
Andrea Mantegna Madonna col Bambino e Cherubini.
La Madonna col Bambino e un coro di cherubini è un dipinto a tempera grassasu tavola (88x70 cm) di Andrea Mantegna, databile al 1485 circa.
Con il restauro di Luigi Cavenaghi venne riconosciuta la mano di Mantegna, permettendo di risalire a fonti documentarie sull'opera, che è stata indicata come forse la Madonna che il pittore donò all'amico abate Matteo Bosso.
Con il restauro di Luigi Cavenaghi venne riconosciuta la mano di Mantegna, permettendo di risalire a fonti documentarie sull'opera, che è stata indicata come forse la Madonna che il pittore donò all'amico abate Matteo Bosso.
Sala 7
Lorenzo Lotto - Ritratto di Gentiluomo.
Lorenzo Lotto - Ritratto di Laura di Pola.
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Lorenzo Lotto - Ritratto di Febo da Brescia.
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Tiziano - Ritratto conte Antonio Porcia.
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Paris Bordon - Gli Innamorati.
SALA 8.
Cima da Conegliano - Pala di Oderzo.
La Sacra Conversazione (Madonna col Bambino in trono circondato da frati e devoti in preghiera, con i santi Giovanni Battista, Rocco e Maria Maddalena) è un dipinto ad olio su tavola(301x211 cm) di Cima da Conegliano, databile al 1490 conservato presso la Pinacoteca di Brera a Milano.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Cima da Conegliano San Pietro Martire e i Santi Nicola e Benedetto.
San Pietro martire e i santi Nicola da Bari e Benedetto con angelo musicante è un dipinto ad olio su tavola (330x216 cm) di Cima da Conegliano, databile al 1504 conservato presso la Pinacoteca di Brera aMilano..
Gentile e Giovanni Bellini.
La Predica di san Marco ad Alessandria d'Egitto è un dipinto olio su tela (347x770 cm) diGentile e Giovanni Bellini, databile al 1504-1507 e conservato nella
DettaglioLa tela venne iniziata da Gentile nel luglio del 1504, ma dopo la sua morte (febbraio 1507), quando era già "fatto in buona parte", passò al fratello Giovanni, come indicato nel testamento, che la completò, operando anche alcune modifiche.
La scena è ricca di spunti tratti dal vero, anche esotici, che Gentile ebbe modo di studiare di persona durante il suo viaggio a Costantinopoli del1479-1480. Richiami all'architettura mamelucca, piuttosto che ottomana, hanno fatto pensare a un continuamento fino a Gerusalemme del viaggio dell'artista.
La tela venne ridotta in un periodo imprecisato, tagliando via una striscia superiore, dove terminavano le architetture che oggi sono inconsuetamente mozze. L'opera arrivò a Brera nel 1809, in seguito alle soppressioni napoleoniche.
Su un palco a forma di ponticello a sinistra, è impegnato in un'immaginaria piazza di Alessandria d'Egitto, davanti a un gruppo misto di personaggi, tra cui si notano alcuni ottomani con turbante, una serie di donne turche coperte da un lungo velo bianco, e una serie di dignitari veneziani nei loro abiti, che contrastano con l'esotismo degli altri personaggi. Lo sfondo è composto da un'ampio palcoscenico cittadino chiuso su tre lati, di chiara ideazione di Gentile, dominato da una solenne moschea-basilica che sembra un connubio tra San Marco a Venezia (con le specchiature marmoree e il tema dell'arco come coronamento) e Santa Sofia a Costantinopoli (con la forma semicircolare dell'architettura piena di contrafforti). A sinistra si vede un alto obelisco tra minareti e a destra torreggiano un campanile, un minareto e una colonna onoraria. Ai lati si dispongono una serie di edifici semplici, dalle lisce pareti intonacate di bianco, che vennero notevolmente semplificati da Giovanni Bellini, coprendo gli edifici alti e stretti già dipinti dal fratello, come hanno dimostrato le radiografie.
Tra i numerosi personaggi veneziani si riconoscono i membri della Scuola Grande, alcuni dignitari e figure di spicco della città all'alba del XVI secolo, e alcuni ritratti simbolici, come quello, nel gruppo di uomini in primo piano a destra, di Dante Alighieri, riconoscibile dalla corona d'alloro, che sottintende la recente conquista veneziana della città della Romagna, tra cui Ravenna in cui il poeta era sepolto.
Da un punto di vista stilistico la tela è caratterizzata dall'assenza di una vera e propria profondità spaziale, voluta per la particolare ubicazione originale dell'opera, che era appesa lungo una delle pareti degli ambienti rettangolari della Scuola Grande. La lettura ideale si svolge infatti in maniera lineare, lungo i due piani orizzontali paralleli composti dal gruppo delle figure e dallo sfondo col maestoso edificio centrale. Gli elementi non sono tutti raccordati a un medesimo punto di fuga, come tipico della pittura di gentile, che Giovanni cerco in parte di correggere. Questo si vede chiaramente nel campanile terrazzato a destra della basilica, che sembra ripreso da "sott'in su" (si vede il lato inferiore dei balconcini) mentre ciò non avviene negli altri minareti sullo sfondo.
Giovanni, muovendo e animando i personaggi, alleggerì il rigore ordinato dello stile del fratello, e restituì loro un'individualità peculiare, dando alla storia nel complesso una dimensione più umana e moderna[3].Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
DettaglioLa tela venne iniziata da Gentile nel luglio del 1504, ma dopo la sua morte (febbraio 1507), quando era già "fatto in buona parte", passò al fratello Giovanni, come indicato nel testamento, che la completò, operando anche alcune modifiche.
La scena è ricca di spunti tratti dal vero, anche esotici, che Gentile ebbe modo di studiare di persona durante il suo viaggio a Costantinopoli del1479-1480. Richiami all'architettura mamelucca, piuttosto che ottomana, hanno fatto pensare a un continuamento fino a Gerusalemme del viaggio dell'artista.
La tela venne ridotta in un periodo imprecisato, tagliando via una striscia superiore, dove terminavano le architetture che oggi sono inconsuetamente mozze. L'opera arrivò a Brera nel 1809, in seguito alle soppressioni napoleoniche.
Su un palco a forma di ponticello a sinistra, è impegnato in un'immaginaria piazza di Alessandria d'Egitto, davanti a un gruppo misto di personaggi, tra cui si notano alcuni ottomani con turbante, una serie di donne turche coperte da un lungo velo bianco, e una serie di dignitari veneziani nei loro abiti, che contrastano con l'esotismo degli altri personaggi. Lo sfondo è composto da un'ampio palcoscenico cittadino chiuso su tre lati, di chiara ideazione di Gentile, dominato da una solenne moschea-basilica che sembra un connubio tra San Marco a Venezia (con le specchiature marmoree e il tema dell'arco come coronamento) e Santa Sofia a Costantinopoli (con la forma semicircolare dell'architettura piena di contrafforti). A sinistra si vede un alto obelisco tra minareti e a destra torreggiano un campanile, un minareto e una colonna onoraria. Ai lati si dispongono una serie di edifici semplici, dalle lisce pareti intonacate di bianco, che vennero notevolmente semplificati da Giovanni Bellini, coprendo gli edifici alti e stretti già dipinti dal fratello, come hanno dimostrato le radiografie.
Tra i numerosi personaggi veneziani si riconoscono i membri della Scuola Grande, alcuni dignitari e figure di spicco della città all'alba del XVI secolo, e alcuni ritratti simbolici, come quello, nel gruppo di uomini in primo piano a destra, di Dante Alighieri, riconoscibile dalla corona d'alloro, che sottintende la recente conquista veneziana della città della Romagna, tra cui Ravenna in cui il poeta era sepolto.
Da un punto di vista stilistico la tela è caratterizzata dall'assenza di una vera e propria profondità spaziale, voluta per la particolare ubicazione originale dell'opera, che era appesa lungo una delle pareti degli ambienti rettangolari della Scuola Grande. La lettura ideale si svolge infatti in maniera lineare, lungo i due piani orizzontali paralleli composti dal gruppo delle figure e dallo sfondo col maestoso edificio centrale. Gli elementi non sono tutti raccordati a un medesimo punto di fuga, come tipico della pittura di gentile, che Giovanni cerco in parte di correggere. Questo si vede chiaramente nel campanile terrazzato a destra della basilica, che sembra ripreso da "sott'in su" (si vede il lato inferiore dei balconcini) mentre ciò non avviene negli altri minareti sullo sfondo.
Giovanni, muovendo e animando i personaggi, alleggerì il rigore ordinato dello stile del fratello, e restituì loro un'individualità peculiare, dando alla storia nel complesso una dimensione più umana e moderna[3].Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Andrea Mantegna - San Bernardino
San Bernardino da Siena tra due angeli è un dipinto tempera su tela (385x220 cm) attribuito ad Andrea Mantegna e collaboratori, databile al 1460 circa e conservato nellaPinacoteca di Brera a Milano.
Storia [modifica]Il dipinto proviene dalla cappella funebre del marchese Ludovico Gonzaga, dedicata a san Bernardino e situata nella chiesa di San Francesco a Mantova. Dopo le soppressioni pervenne in galleria, nel 1811.
Descrizione e stile [modifica]La figura del Santo è centrale: tiene in mano il trigramma di Cristo e i suoi piedi poggiano su un basamento coperto da un tappeto orientale. Ai lati, stanno due angeli, mentre al di sopra dell'architrave sono seduti e inginocchiati quattro cherubini.
Sull'architrave è incisa la scritta in latino Huius lingua salus hominum, ovvero "La sua parola è salvezza degli uomini". L'arco è decorato con festoni di fiori e frutta, elemento tipico dei dipinti padovani di Mantegna, influenzati da Francesco Squarcione.
Il basamento reca un cartiglio con una data, letta da alcuni come 1460, come anche1468 o 1469.
Generalmente il dipinto è attribuito ai collaboratori dell'artista, anche se il criticoGiuseppe Fiocco è del parere che sia di Mantegna stesso: Roberto Longhi ed Ettore Camesasca ritengono invece che l'ideazione sia da ascrivere all'artista, mentre l'esecuzione agli aiuti. Secondo il catalogo della galleria spetta a Mantegna la progettazione complessiva e la stesura della parte centrale, mentre quella superiore spetta a un collaboratore.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Storia [modifica]Il dipinto proviene dalla cappella funebre del marchese Ludovico Gonzaga, dedicata a san Bernardino e situata nella chiesa di San Francesco a Mantova. Dopo le soppressioni pervenne in galleria, nel 1811.
Descrizione e stile [modifica]La figura del Santo è centrale: tiene in mano il trigramma di Cristo e i suoi piedi poggiano su un basamento coperto da un tappeto orientale. Ai lati, stanno due angeli, mentre al di sopra dell'architrave sono seduti e inginocchiati quattro cherubini.
Sull'architrave è incisa la scritta in latino Huius lingua salus hominum, ovvero "La sua parola è salvezza degli uomini". L'arco è decorato con festoni di fiori e frutta, elemento tipico dei dipinti padovani di Mantegna, influenzati da Francesco Squarcione.
Il basamento reca un cartiglio con una data, letta da alcuni come 1460, come anche1468 o 1469.
Generalmente il dipinto è attribuito ai collaboratori dell'artista, anche se il criticoGiuseppe Fiocco è del parere che sia di Mantegna stesso: Roberto Longhi ed Ettore Camesasca ritengono invece che l'ideazione sia da ascrivere all'artista, mentre l'esecuzione agli aiuti. Secondo il catalogo della galleria spetta a Mantegna la progettazione complessiva e la stesura della parte centrale, mentre quella superiore spetta a un collaboratore.Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
SALA 9 .
Tiziano - San Gerolamo Penitente.
Tintoretto - Ritrovamento del corpo di San Marco.
l Ritrovamento del corpo di San Marco è un dipinto del Tintoretto, eseguito tra il 1562 ed il 1566 per un ciclo di tele su San Marco; oggi è custodito nellaPinacoteca di Brera a Milano.
Descrizione e stile [modifica]Il dipinto mostra l'attimo in cui viene scoperto il corpo di San Marco, patrono veneziano sepolto ad Alessandria d'Egitto e poi portato nell'829 nella capitale della Repubblica veneta.[1] Tra i più celebri dipinti del Tintoretto, offre una visione prospettica di una lunga galleria di scorcio, illuminata da luci artificiali contrastanti con le tinte cupe presenti nell'impianto architettonico.[1] La luce fa risaltare le volte e i sarcofagi sulla destra, oltre a rendere particolarmente evocativa l'apertura di una tomba verso la fine dell'inquadratura; in primo piano, sulla sinistra, vi è la figura del Santo, punto chiave dell'opera.[1]Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Descrizione e stile [modifica]Il dipinto mostra l'attimo in cui viene scoperto il corpo di San Marco, patrono veneziano sepolto ad Alessandria d'Egitto e poi portato nell'829 nella capitale della Repubblica veneta.[1] Tra i più celebri dipinti del Tintoretto, offre una visione prospettica di una lunga galleria di scorcio, illuminata da luci artificiali contrastanti con le tinte cupe presenti nell'impianto architettonico.[1] La luce fa risaltare le volte e i sarcofagi sulla destra, oltre a rendere particolarmente evocativa l'apertura di una tomba verso la fine dell'inquadratura; in primo piano, sulla sinistra, vi è la figura del Santo, punto chiave dell'opera.[1]Paragraph. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Paolo Veronese - Festa alla casa di Simone.
Paolo Veronese - battesimo e Tentazione di Cristo.
Pa
Paolo Veronese - Cristo al Getsemani.
Pa
Tintoretto S.Elena e Santa Barbara Adorano la Croce.
Tintoretto - Pietà.
SALA 10
Umberto Boccioni - La città che sale.
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Umberto Boccioni - rissa in Galleria.
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Umberto Boccioni - Autoritratto
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Amedeo Modigliani - Ritratto di Moisé Kisling.
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Amedeo Modigliani - Ritratto di Giovinetta.
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Amedeo Modigliani - L'Enfant Gras.
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SALA 14
Romanino - Presentazione di Gesù al tempio.
Romanino - Cristo porta la Croce.
Moretto da Brescia. Madonna col Bambino
Cariani - Madonna Bambino e Santi.
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Bonifacio Veronese - Il ritrovamento di Mosé.
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Sala 15
Gaudrnzio Ferrari - Martirioi di S.Caterina D'Alessandria.
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Bramantino - Madonna col Bambino e Angeli.
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Bramantino - Crocifissione.
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Vincenzo - Foppa - Madonna del Tappeto.
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Vincenzo Foppa - San Sebastiano.
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Maestro della Pala Sforzesca.
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Marco d'Oggioni - I Tre Arcangeli.
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