BEATO ANGELICO
.Fra Giovanni da Fiesole, detto Beato Angelico (noto dal 1417 - Roma 1455)
Madonna dell'umiltà, i santi Giovanni Battista e Paolo e l'incontro dei santi Domenico e Francesco.
Tempera e oro su tavola.
Madonna dell'umiltà, i santi Giovanni Battista e Paolo e l'incontro dei santi Domenico e Francesco.
Tempera e oro su tavola.
Statue romane in Basanite
Antonio Canova: Maria Luigia
ANNIBALE CARRACCI
Annibale Carracci (Bologna 1560-Roma 1609)
Deposizione con Vergine e santi
Olio su tela
Deposizione con Vergine e santi
Olio su tela
CIMA DA CONEGLIANO
L'opera riprende lo schema di pale coeve di Giovanni Bellini, come la Pala di San Giobbe. Fu dipinta per il Duomo di Parma.
Maria, su un alto trono sullo sfondo di un'abside mosaicata, pone la sua mano sul capo di due santi Cosma e Damiano[1] , accanto a san Giovanni Battista a sinistra. A destra il Bambino rivolge una benedizione verso due sante (caterina d'Alessandria e Maria Maddalena?) e san Giovanni Evangelista. In basso al centro si trova il tipico angelo musicante di stampo belliniano.
Maria, su un alto trono sullo sfondo di un'abside mosaicata, pone la sua mano sul capo di due santi Cosma e Damiano[1] , accanto a san Giovanni Battista a sinistra. A destra il Bambino rivolge una benedizione verso due sante (caterina d'Alessandria e Maria Maddalena?) e san Giovanni Evangelista. In basso al centro si trova il tipico angelo musicante di stampo belliniano.
CORREGGIO
L'Incoronazione della Vergine è un affresco staccato (212x324 cm) di Correggio, databile al 1521 circa e conservato nella Galleria nazionale di Parma. Proviene dal catino absidale della chiesa di San Giovanni Evangelista a Parma.
Indice [nascondi]
L'abate di San Giovanni, Girolamo Spinola, aveva incaricato Correggio, allora reduce dal primo clamoroso successo in città con la Camera della Badessa, di decorare l'intera chiesa appena finita di ricostruire, con un complesso pittorico che comprendeva la cupola e annessi, il coro, il fregio continuo nel perimetro interno e una lunetta con San Giovanni e l'aquila. Gli affreschi della cupola, il fregio e la lunetta sono ancora in loco, mentre nel 1587, quando il coro venne ingrandito, andarono perduti i dipinti parietali e per quanto riguarda il catino absidale si salvò solo la porzione centrale della calotta, quella dell'Incoronazione appunto. Il tema dell’Incoronazione della Vergine era strettamente connesso al fatto che la Madonna era patrona della città di Parma; lo stesso soggetto fu rappresentato sul sigillo cittadino e su alcune monete coniate in città. Con la demolizione, una copia degli affreschi del Correggio fu commissionata al pittore bolognese Cesare Aretusi (in loco)[1]. Si riuscì però a salvare faticosamente il massello dell'affresco originale, staccando l'intera porzione architettonica e lasciandola in deposito. Del cattivo stato dell’affresco staccato testimoniò già il cardinale Federico Borromeo, che si era recato a Parma nel tardo Cinquecento e aveva voluto commissionarne una copia per la propria collezione.
Si riuscirono a staccare anche altri frammenti più piccoli, che in seguito vennero dispersi. Tra questi oggi tre sono alla National Gallery di Londra:
Testa di un angelo, 35,6x35,6 cm
Testa di un angelo, 36x33 cm
Teste di due angeli, 44,5x61 cm
Descrizione e stile [modifica]
Questo frammento di affresco, in cattive condizioni, testimonia l’impresa importante a cui si dedicò l'artista, subito dopo gli affreschi della cupola che evidentemente avevano soddisfatto molto i committenti benedettini. Fortunatamente esistono molti disegni preparatori per questa decorazione perduta, tra cui ricordiamo uno studio per la Vergine, uno per l'Incoronazione e uno per il Cristo, che rivelano con quanta cura e studio l’artista avesse meditato sulla gestualità delle figure e, come dimostra la quadrettatura di uno di questi studi, sulle loro proporzioni. Infatti alla figura della Vergine e del Cristo erano riservate proporzioni maggiori rispetto a quelle delle altre figure per accrescerne il valore simbolico.
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L'abate di San Giovanni, Girolamo Spinola, aveva incaricato Correggio, allora reduce dal primo clamoroso successo in città con la Camera della Badessa, di decorare l'intera chiesa appena finita di ricostruire, con un complesso pittorico che comprendeva la cupola e annessi, il coro, il fregio continuo nel perimetro interno e una lunetta con San Giovanni e l'aquila. Gli affreschi della cupola, il fregio e la lunetta sono ancora in loco, mentre nel 1587, quando il coro venne ingrandito, andarono perduti i dipinti parietali e per quanto riguarda il catino absidale si salvò solo la porzione centrale della calotta, quella dell'Incoronazione appunto. Il tema dell’Incoronazione della Vergine era strettamente connesso al fatto che la Madonna era patrona della città di Parma; lo stesso soggetto fu rappresentato sul sigillo cittadino e su alcune monete coniate in città. Con la demolizione, una copia degli affreschi del Correggio fu commissionata al pittore bolognese Cesare Aretusi (in loco)[1]. Si riuscì però a salvare faticosamente il massello dell'affresco originale, staccando l'intera porzione architettonica e lasciandola in deposito. Del cattivo stato dell’affresco staccato testimoniò già il cardinale Federico Borromeo, che si era recato a Parma nel tardo Cinquecento e aveva voluto commissionarne una copia per la propria collezione.
Si riuscirono a staccare anche altri frammenti più piccoli, che in seguito vennero dispersi. Tra questi oggi tre sono alla National Gallery di Londra:
Testa di un angelo, 35,6x35,6 cm
Testa di un angelo, 36x33 cm
Teste di due angeli, 44,5x61 cm
Descrizione e stile [modifica]
Questo frammento di affresco, in cattive condizioni, testimonia l’impresa importante a cui si dedicò l'artista, subito dopo gli affreschi della cupola che evidentemente avevano soddisfatto molto i committenti benedettini. Fortunatamente esistono molti disegni preparatori per questa decorazione perduta, tra cui ricordiamo uno studio per la Vergine, uno per l'Incoronazione e uno per il Cristo, che rivelano con quanta cura e studio l’artista avesse meditato sulla gestualità delle figure e, come dimostra la quadrettatura di uno di questi studi, sulle loro proporzioni. Infatti alla figura della Vergine e del Cristo erano riservate proporzioni maggiori rispetto a quelle delle altre figure per accrescerne il valore simbolico.
Madonna della Scala
La Madonna della Scala è un affresco staccato trasportato su tela (196×141 cm) di Correggio, databile al 1523 circa e conservato nella Galleria Nazionale di Parma.
L'affresco dovette essere realizzato dal Correggio tra il 1522 e il 1523: in origine era situato sulla facciata interna della porta orientale di Parma, detta di San Michele, quasi come saluto ai viandanti che uscivano dalla città per raggiungere Reggio Emilia[1].
Anche il Vasari ebbe modo di vederla e apprezzarne la fattura[2].
Nel 1555, in occasione dell'allargamento della cinta muraria voluta da papa Paolo III, l'edificio che ospitava sulle sue pareti il dipinto venne abbattuto e l'affresco, staccato con la sua parte muraria, venne trasferito in un vicino oratorio: la denominazione tradizionale dell'opera è giustificata dal fatto che a tale oratorio era possibile accedere solo tramite una scala.
Si hanno almeno due testimonianze di viaggiatori stranieri in visita a Parma che rimasero affascinati dalla Madonna della Scala. La prima si deve all’inglese Jens Wolff (che rilevò «l'assurdo effetto provocato dallo zelo di qualche ignorante fanatico il quale [...] ha inchiodato una corona d'argento sul capo della Vergine dipinto dal Correggio ed ha così sfigurato un'opera incomparabile con un atto della più grossolana inciviltà»), la seconda si trova nelle pagine del romanzo di Madame de Stäel, Corinne ou l'Italie.
Dovendosi abbattere l'oratorio, il 4 dicembre del 1812 l'affresco venne staccato a massello e trasferito in Galleria: nel 1948 venne sottoposto a restauro, staccato dal suo supporto originale e trasferito su tela. Un nuovo intervento di restauro (1968) ha reso possibile l'eliminazione delle aggiunte arbitrarie[3].
Descrizione e stile [modifica]
L’opera mette in scena il rapporto affettuoso fra la Vergine e il Bambino, tema caro al Correggio e svolto con analoga freschezza in opere quali la Madonna del Latte e un angelo o la Madonna della Cesta. I due sono colti in un affettuoso abbraccio, che si risolve in una composizione a spirale, scorciata per una visione ottimale dal basso.
L'affresco dovette essere realizzato dal Correggio tra il 1522 e il 1523: in origine era situato sulla facciata interna della porta orientale di Parma, detta di San Michele, quasi come saluto ai viandanti che uscivano dalla città per raggiungere Reggio Emilia[1].
Anche il Vasari ebbe modo di vederla e apprezzarne la fattura[2].
Nel 1555, in occasione dell'allargamento della cinta muraria voluta da papa Paolo III, l'edificio che ospitava sulle sue pareti il dipinto venne abbattuto e l'affresco, staccato con la sua parte muraria, venne trasferito in un vicino oratorio: la denominazione tradizionale dell'opera è giustificata dal fatto che a tale oratorio era possibile accedere solo tramite una scala.
Si hanno almeno due testimonianze di viaggiatori stranieri in visita a Parma che rimasero affascinati dalla Madonna della Scala. La prima si deve all’inglese Jens Wolff (che rilevò «l'assurdo effetto provocato dallo zelo di qualche ignorante fanatico il quale [...] ha inchiodato una corona d'argento sul capo della Vergine dipinto dal Correggio ed ha così sfigurato un'opera incomparabile con un atto della più grossolana inciviltà»), la seconda si trova nelle pagine del romanzo di Madame de Stäel, Corinne ou l'Italie.
Dovendosi abbattere l'oratorio, il 4 dicembre del 1812 l'affresco venne staccato a massello e trasferito in Galleria: nel 1948 venne sottoposto a restauro, staccato dal suo supporto originale e trasferito su tela. Un nuovo intervento di restauro (1968) ha reso possibile l'eliminazione delle aggiunte arbitrarie[3].
Descrizione e stile [modifica]
L’opera mette in scena il rapporto affettuoso fra la Vergine e il Bambino, tema caro al Correggio e svolto con analoga freschezza in opere quali la Madonna del Latte e un angelo o la Madonna della Cesta. I due sono colti in un affettuoso abbraccio, che si risolve in una composizione a spirale, scorciata per una visione ottimale dal basso.
Martirio Quattro Santi
.l Martirio di quattro santi è un dipinto a olio su tela (160x185 cm) di Correggio, databile al 1524 circa e conservato alla Galleria Nazionale di Parma. Con il Compianto sul Cristo morto faceva parte della decorazione della Cappella Del Bono nella chiesa di San Giovanni Evangelista: le due tele decoravano le pareti laterali: il Compianto a destra e il Martirio a sinistra.
Indice [nascondi]
Le due tele della Cappella Del Bono sono già citate nella prima edizione delle Vite di Vasari (1550) seppure con l’erronea collocazione nel Duomo di Parma. La commissione era decisamente importante e fu ottenuta probabilmente anche grazie al successo riscosso dall’imponente affresco della cupola della chiesa di San Giovanni che il Correggio aveva appena terminato.
Il committente era il nobile parmense Placido Del Bono.
Descrizione e stile [modifica]
Il soggetto del dipinto, assai raro, è il martirio dei santi Placido e Flavia, fratello e sorella vissuti nel III-IV secolo, con alle spalle altri due fratelli romani, vissuti nel I secolo, Eutichio e Vittorino, nella tela già stati decapitati. La scelta fu dovuta per effigiare Placido, protettore del committente. Un angelo in volo sopra di loro tiene in mano la palma del martirio.
Data la rarità del soggetto, il Correggio non ebbe a disposizione una salda tradizione iconografica a cui fare riferimento e questa libertà, come spesso accade nei grandi artisti, si tradusse in un’occasione per impostare in maniera innovativa e creativa l’immagine.
Da un disegno preparatorio oggi conservato al Louvre, si vede che l’artista aveva in un primo tempo ideato una soluzione più banale che prevedeva una disposizione rigorosamente simmetrica delle quattro figure, mentre al centro stava un piccolo putto assiso su una nuvola che portava la corona del martirio. Solo in un secondo momento egli dovette prestare attenzione al particolare punto di vista obliquo che avrebbe avuto lo spettatore davanti alla cappella. Ciò lo spinse a costruire l’immagine secondo una diagonale collocando di spalle la figura di uno dei carnefici così destinata ad aprire, da sinistra, la scena.
Questa figura elegantissima, colta in un virtuosistico contrapposto, incontrò il favore di Niccolò dell'Abate, uno dei protagonisti più seducenti della “Maniera” emiliana. Il prestito di Niccolò, in una pala oggi purtroppo perduta[1] era già stato notato da Vasari.
Anche la gestualità delle figure dei martiri subì un significativo cambiamento dal disegno preparatorio all’opera finita. Particolarmente la santa Flavia, che prima era stata rappresentata con il braccio destro portato al petto e il volto di profilo, assunse nel dipinto una posizione più frontale, con le braccia dischiuse e lo sguardo rivolto al cielo in accettazione dolce e remissiva del proprio martirio. Una gestualità che il Correggio stesso riprese in anni assai prossimi a questi nella figura del Cristo dell'Orazione nell'orto e che affascinò, quasi un secolo più tardi, Federico Barocci[2].
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Le due tele della Cappella Del Bono sono già citate nella prima edizione delle Vite di Vasari (1550) seppure con l’erronea collocazione nel Duomo di Parma. La commissione era decisamente importante e fu ottenuta probabilmente anche grazie al successo riscosso dall’imponente affresco della cupola della chiesa di San Giovanni che il Correggio aveva appena terminato.
Il committente era il nobile parmense Placido Del Bono.
Descrizione e stile [modifica]
Il soggetto del dipinto, assai raro, è il martirio dei santi Placido e Flavia, fratello e sorella vissuti nel III-IV secolo, con alle spalle altri due fratelli romani, vissuti nel I secolo, Eutichio e Vittorino, nella tela già stati decapitati. La scelta fu dovuta per effigiare Placido, protettore del committente. Un angelo in volo sopra di loro tiene in mano la palma del martirio.
Data la rarità del soggetto, il Correggio non ebbe a disposizione una salda tradizione iconografica a cui fare riferimento e questa libertà, come spesso accade nei grandi artisti, si tradusse in un’occasione per impostare in maniera innovativa e creativa l’immagine.
Da un disegno preparatorio oggi conservato al Louvre, si vede che l’artista aveva in un primo tempo ideato una soluzione più banale che prevedeva una disposizione rigorosamente simmetrica delle quattro figure, mentre al centro stava un piccolo putto assiso su una nuvola che portava la corona del martirio. Solo in un secondo momento egli dovette prestare attenzione al particolare punto di vista obliquo che avrebbe avuto lo spettatore davanti alla cappella. Ciò lo spinse a costruire l’immagine secondo una diagonale collocando di spalle la figura di uno dei carnefici così destinata ad aprire, da sinistra, la scena.
Questa figura elegantissima, colta in un virtuosistico contrapposto, incontrò il favore di Niccolò dell'Abate, uno dei protagonisti più seducenti della “Maniera” emiliana. Il prestito di Niccolò, in una pala oggi purtroppo perduta[1] era già stato notato da Vasari.
Anche la gestualità delle figure dei martiri subì un significativo cambiamento dal disegno preparatorio all’opera finita. Particolarmente la santa Flavia, che prima era stata rappresentata con il braccio destro portato al petto e il volto di profilo, assunse nel dipinto una posizione più frontale, con le braccia dischiuse e lo sguardo rivolto al cielo in accettazione dolce e remissiva del proprio martirio. Una gestualità che il Correggio stesso riprese in anni assai prossimi a questi nella figura del Cristo dell'Orazione nell'orto e che affascinò, quasi un secolo più tardi, Federico Barocci[2].
Compianto
Fai clic qui per .Il Compianto sul Cristo morto è un dipinto a olio su tela (157x182 cm) di Correggio, databile al 1524 circa e conservato nella Galleria nazionale di Parma. Con il Martirio dei quattro santi faceva parte della decorazione della Cappella Del Bono nella chiesa di San Giovanni Evangelista: le due tele decoravano le pareti laterali: il Compianto a destra e il Martirio a sinistra.
Le due tele della Cappella Del Bono sono già citate nella prima edizione delle Vite di Vasari (1550) seppure con l’erronea collocazione nel Duomo di Parma. La commissione era decisamente importante e fu ottenuta probabilmente anche grazie al successo riscosso dall’imponente affresco della cupola della chiesa di San Giovanni che il Correggio aveva appena terminato.
Il committente era il nobile parmense Placido Del Bono.
Descrizione e stile [modifica]
La tela rappresenta il Compianto, cioè le persone care a Cristo che, dopo la deposizione dalla croce (che si intravede sullo sfondo), si raccolgono attorno al suo corpo morto abbracciandolo e baciandolo nella mestizia generale. Si tratta di un tema caro alla devozione popolare fin dal medioevo, poiché permetteva ai fedeli di immedesimarsi con i personaggi evangelici partecipando attivamente al dolore per il sacrificio di Gesù.
Correggio rappresentò infatti l'abbandono del corpo di Cristo dopo lo stacco dalla croce. Le mani rattrappite e gli occhi acquosi mostrano appieno la sofferenza. Scoppia così il pianto agitato di Giovanni e delle Marie, costipate a lato, e in fondo si ritira Maddalena in un intimo spasimo sconvolto, mirando i piedi amati di Gesù (figura indimenticabile, copiatissima poi dai pittori più grandi), prima protagonista di "un rapimento spirituale in termini fisici". Le cui vesti sono mosse e intrise di luce fino ad apparire vibranti ed animate, quasi fossero anch’esse partecipi del fremito interiore che la addolora. Questa figura i cui abiti sono descritti con particolare cura, a sottolineare la precedente vita mondana di Maddalena, ha affascinato moltissimi artisti.
Anche questa immagine fu studiata, con un calcolo che solo un pittore esperto di problemi prospettici poteva risolvere così brillantemente, per essere vista da un’angolazione obliqua, tenendo così conto del punto di vista dell’osservatore che si trovava all’ingresso della cappella. La scena è organizzata secondo una diagonale suggerita dal corpo di Cristo poggiato sul grembo della Madre e rafforzata dallo svenimento di quest’ultima nelle braccia del giovane san Giovanni. La visione in sguancio infatti ricompone l'equilibrio di tutti gli elementi, il loro rapporto proporzionale, la forte dinamicità drammatica delle figure (con la Madonna come indimenticabile protagonista).
Rispetto al Martirio dei quattro santi l'artista segnò un ulteriore sviluppo nella ricerca dedicata alla rappresentazione dei "moti dell’animo" che aveva iniziato ad interessare il Correggio a partire dal secondo decennio del Cinquecento.
Nella Maddalena lo spagnolo Pablo de Céspedes vide un’eccezionale rappresentazione del dolore che richiamava alla sua mente la scena del sacrificio di Ifigenia dipinta da Timante e descritta da Plinio il Vecchio. Molti artisti ne trassero incisioni[1] che permisero a questa invenzione di circolare nelle botteghe degli artisti e nei cabinets dei collezionisti. Francesco Scannelli le dedicò un intero paragrafo del suo Microcosmo mettendola addirittura in confronto con la Maddalena penitente di Caravaggio.
In generale si può dire che il Compianto costituì un modello anche per artisti seicenteschi, come Annibale Carracci, che seppero svilupparne
Le due tele della Cappella Del Bono sono già citate nella prima edizione delle Vite di Vasari (1550) seppure con l’erronea collocazione nel Duomo di Parma. La commissione era decisamente importante e fu ottenuta probabilmente anche grazie al successo riscosso dall’imponente affresco della cupola della chiesa di San Giovanni che il Correggio aveva appena terminato.
Il committente era il nobile parmense Placido Del Bono.
Descrizione e stile [modifica]
La tela rappresenta il Compianto, cioè le persone care a Cristo che, dopo la deposizione dalla croce (che si intravede sullo sfondo), si raccolgono attorno al suo corpo morto abbracciandolo e baciandolo nella mestizia generale. Si tratta di un tema caro alla devozione popolare fin dal medioevo, poiché permetteva ai fedeli di immedesimarsi con i personaggi evangelici partecipando attivamente al dolore per il sacrificio di Gesù.
Correggio rappresentò infatti l'abbandono del corpo di Cristo dopo lo stacco dalla croce. Le mani rattrappite e gli occhi acquosi mostrano appieno la sofferenza. Scoppia così il pianto agitato di Giovanni e delle Marie, costipate a lato, e in fondo si ritira Maddalena in un intimo spasimo sconvolto, mirando i piedi amati di Gesù (figura indimenticabile, copiatissima poi dai pittori più grandi), prima protagonista di "un rapimento spirituale in termini fisici". Le cui vesti sono mosse e intrise di luce fino ad apparire vibranti ed animate, quasi fossero anch’esse partecipi del fremito interiore che la addolora. Questa figura i cui abiti sono descritti con particolare cura, a sottolineare la precedente vita mondana di Maddalena, ha affascinato moltissimi artisti.
Anche questa immagine fu studiata, con un calcolo che solo un pittore esperto di problemi prospettici poteva risolvere così brillantemente, per essere vista da un’angolazione obliqua, tenendo così conto del punto di vista dell’osservatore che si trovava all’ingresso della cappella. La scena è organizzata secondo una diagonale suggerita dal corpo di Cristo poggiato sul grembo della Madre e rafforzata dallo svenimento di quest’ultima nelle braccia del giovane san Giovanni. La visione in sguancio infatti ricompone l'equilibrio di tutti gli elementi, il loro rapporto proporzionale, la forte dinamicità drammatica delle figure (con la Madonna come indimenticabile protagonista).
Rispetto al Martirio dei quattro santi l'artista segnò un ulteriore sviluppo nella ricerca dedicata alla rappresentazione dei "moti dell’animo" che aveva iniziato ad interessare il Correggio a partire dal secondo decennio del Cinquecento.
Nella Maddalena lo spagnolo Pablo de Céspedes vide un’eccezionale rappresentazione del dolore che richiamava alla sua mente la scena del sacrificio di Ifigenia dipinta da Timante e descritta da Plinio il Vecchio. Molti artisti ne trassero incisioni[1] che permisero a questa invenzione di circolare nelle botteghe degli artisti e nei cabinets dei collezionisti. Francesco Scannelli le dedicò un intero paragrafo del suo Microcosmo mettendola addirittura in confronto con la Maddalena penitente di Caravaggio.
In generale si può dire che il Compianto costituì un modello anche per artisti seicenteschi, come Annibale Carracci, che seppero svilupparne
Annunciazione
Fai clic qui per effettuare modifiche.L'Annunciazione è un affresco staccato (157x315 cm) di Correggio, databile al 1525 circa e conservato nella Galleria nazionale di Parma.
Fu menzionato da Vasari quando era stata da poco trasferita dalla sua originaria collocazione, la chiesa di San Francesco a Parma che fu demolita nel 1546: "come nella medesima città (Parma) nella chiesa de' Frati de' Zocoli di S. Francesco, che vi dipinse una Nunziata in fresco tanto bene, che accadendo per aconcime di quel luogo rovinarla, feciono que' frati ricignere il muro atorno con legami armati di ferramenti, e tagliandolo a poco a poco la salvorono, et in un altro loco più sicuro fu murata da loro nel medesimo convento". In quell'occasione l’opera fu trasportata nella chiesa dell'Annunziata a Capo di Ponte, con un intervento di conservazione che attesta già l’elevata fama raggiunta dal Correggio poco più di un decennio dopo la sua morte.
Per via puramente stilistica l’opera si colloca intorno alla metà degli anni venti del Cinquecento, quando il Correggio aveva da poco terminato l’impresa decorativa della cupola di San Giovanni Evangelista e si accingeva a intraprendere quella ben più monumentale della decorazione della cupola del Duomo di Parma.
Descrizione e stile [modifica]
Giuseppe M. Toscano, in La vita e la missione della Madonna nell'arte, rileva che: "fu il Correggio nel 1525 a lanciare l'innovazione del cielo che invade la camera della Vergine, e l'angelo vi penetra inginocchiato sulle nubi; in pochi anni questa Annunciazione trionfale, che unisce il cielo alla terra, fu l'Annunciazione di tutta Europa". Una "delegazione celeste" accompagna l'Arcangelo, quasi in rappresentanza di tutti i cieli.
La figura dell’angelo con le vesti mosse dal vento, quasi sospeso su una grande nuvola soffice deve essere stata ideata in prossimità con gli affreschi per San Giovanni e per il Duomo di Parma dove alle nuvole sarà riservato quel ruolo protagonista che soltanto l’arte barocca saprà accordargli ben cento anni dopo. Così come ricorda gli angeli ammiccanti della cupola del Duomo, il piccolo angioletto che fa capolino dietro all’arcangelo Gabriele. La sua posa e la postura in contrapposto è anche molto vicina ad alcuni dei putti che ornano il pergolato della Camera di San Paolo. Il volante annuncio di Gabriele è già in simultanea invasione con quella dello Spirito Santo - in forma di colomba entro la luce d'oro - su Maria.
L'opera non versa in condizioni ottime ed è una fortuna che sia giunto fino a noi un disegno eseguito a matita rossa, la tecnica preferita dal Correggio, con lumeggiature di biacca. Anche grazie allo stile di questo disegno si può proporre una datazione al 1524-1525.
Fu menzionato da Vasari quando era stata da poco trasferita dalla sua originaria collocazione, la chiesa di San Francesco a Parma che fu demolita nel 1546: "come nella medesima città (Parma) nella chiesa de' Frati de' Zocoli di S. Francesco, che vi dipinse una Nunziata in fresco tanto bene, che accadendo per aconcime di quel luogo rovinarla, feciono que' frati ricignere il muro atorno con legami armati di ferramenti, e tagliandolo a poco a poco la salvorono, et in un altro loco più sicuro fu murata da loro nel medesimo convento". In quell'occasione l’opera fu trasportata nella chiesa dell'Annunziata a Capo di Ponte, con un intervento di conservazione che attesta già l’elevata fama raggiunta dal Correggio poco più di un decennio dopo la sua morte.
Per via puramente stilistica l’opera si colloca intorno alla metà degli anni venti del Cinquecento, quando il Correggio aveva da poco terminato l’impresa decorativa della cupola di San Giovanni Evangelista e si accingeva a intraprendere quella ben più monumentale della decorazione della cupola del Duomo di Parma.
Descrizione e stile [modifica]
Giuseppe M. Toscano, in La vita e la missione della Madonna nell'arte, rileva che: "fu il Correggio nel 1525 a lanciare l'innovazione del cielo che invade la camera della Vergine, e l'angelo vi penetra inginocchiato sulle nubi; in pochi anni questa Annunciazione trionfale, che unisce il cielo alla terra, fu l'Annunciazione di tutta Europa". Una "delegazione celeste" accompagna l'Arcangelo, quasi in rappresentanza di tutti i cieli.
La figura dell’angelo con le vesti mosse dal vento, quasi sospeso su una grande nuvola soffice deve essere stata ideata in prossimità con gli affreschi per San Giovanni e per il Duomo di Parma dove alle nuvole sarà riservato quel ruolo protagonista che soltanto l’arte barocca saprà accordargli ben cento anni dopo. Così come ricorda gli angeli ammiccanti della cupola del Duomo, il piccolo angioletto che fa capolino dietro all’arcangelo Gabriele. La sua posa e la postura in contrapposto è anche molto vicina ad alcuni dei putti che ornano il pergolato della Camera di San Paolo. Il volante annuncio di Gabriele è già in simultanea invasione con quella dello Spirito Santo - in forma di colomba entro la luce d'oro - su Maria.
L'opera non versa in condizioni ottime ed è una fortuna che sia giunto fino a noi un disegno eseguito a matita rossa, la tecnica preferita dal Correggio, con lumeggiature di biacca. Anche grazie allo stile di questo disegno si può proporre una datazione al 1524-1525.
Madonna di San Girolamo
.La Madonna di San Girolamo o Il Giorno (in contrapposizione alla Notte) è un dipinto a pittura a olio su tavola (205x141 cm) di Correggio, databile al 1528 circa e conservato nella Galleria Nazionale di Parma.
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1 Storia
2 Descrizione e stile
3 Note
4 Bibliografia
5 Voci correlate
6 Altri progetti
7 Collegamenti esterni
Storia [modifica]
La pala fu commissionata nel 1523 da Briseide Colla, in memoria del marito (Ottaviano Bergonzi), per la cappella nella chiesa di Sant'Antonio a Parma, in una data collocabile intorno alla fine degli anni venti del Cinquecento. Si può ipotizzare che il Correggio fosse entrato in contatto con Ottavio Bergonzi, una figura di spicco nella Parma del tempo, grazie a Giovanna Piacenza che era sua parente e che fu la prima importante committente del Correggio a Parma, nel monastero di San Paolo. La cappella era un vano laterale, sul fianco destro, e la pala sarebbe stata vista dapprima parzialmente da lontano, e poi in progressione diagonale.
La fama di quest’opera fu veramente eccezionale, a cominciare da Vasari che ne ammirò "il mirabile colorito" e il dolce sorriso dell’angelo che offre la Bibbia al Bambino capace, a suo dire, di rallegrare anche il più malinconico degli osservatori. Anche gli artisti ne rimasero affascinati e il pittore cretese El Greco si incantò davanti alla figura della Maddalena esclamando che per lui era "l’unica figura della Pittura!".
Grazie agli elogi dei critici e a una bella incisione di Agostino Carracci[1], la fama della Madonna di San Girolamo si diffuse nel corso del Seicento a Milano, a Venezia e a Roma e da qui alle grandi capitali artistiche europee. "Forse il più bel dipinto che uscisse mai di mano d'uomo", scrisse l'Algarotti.
Disegno preparatorio
Nel primo Settecento, quando la chiesa di Sant'Antonio necessitava di pesanti e costosi restauri, più di un collezionista si fece avanti per acquistare l’opera offrendo somme da capogiro: tra gli aspiranti acquirenti figuravano il re di Polonia, il re di Francia e l’Imperatore. Nel 1749 la tavola venne trasferita nel duomo e successivamente acquistata, nel 1765, dal governo della città.
La pala rimase nella sua collocazione fino a che non fu trafugata dalle truppe napoleoniche che la portarono a Parigi. Nel 1815 tornò in Italia e fu ospitata nell'attuale collocazione.
Numerose sono le copie antiche.
Descrizione e stile [modifica]
Il soggetto della rappresentazione, non nuovo ma poco frequentato dall'iconografia ecclesiastica, è la presentazione a Gesù, da parte di san Girolamo, della traduzione della Bibbia dall'ebraico al latino popolare (la cosiddetta Vulgata) in modo da ottenerne l'assenso. Una complessa e pia leggenda voleva che il santo, nato in Dalmazia, vissuto ad Antiochia e a Roma, e poi ritiratosi in Palestina con una piccola comunità, fosse invece vissuto a lungo in aspra penitenza nella Grotta di Betlemme, solo con la compagnia di un leone da lui guarito, e qui avesse atteso alla desiderata traduzione, chiestagli da papa Damaso. A tale credenza si attenne il Correggio, mostrando la possente vecchiezza di Girolamo, i capelli e la barba ispida, le sue unghie artigliate e ciuffose, e il leone compagno, anch'esso di antico pelo. Un angelo sta leggendo la Scrittura alla Madonna e al Bambino, quasi ad averne il beneplacito. Il rotolo (l'antica stesura) è invece ancora stretto nella mano di Girolamo.
Le figure, modellate morbidamente, sono disposte a semicerchio, secondo uno schema compositivo che il Correggio aveva già adottato nella Madonna di San Sebastiano e che era funzionale ad accrescere la partecipazione emotiva degli spettatori chiamati a chiudere l’anello idealmente suggerito dai personaggi della storia sacra.
La Vergine, Gesù e Maddalena, dettaglio
Tuttavia, a differenza di quanto accadeva in quel precedente dipinto e a differenza di quanto il Correggio sembra aver pensato in un primo momento, ogni personaggio è rappresentato assorto nel proprio gesto: la Vergine intenta a coprire, forse ad asciugare il Bambino, questi incuriosito dalla grande Bibbia che gli mostra un efebico angelo, san Girolamo in severa meditazione, la Maddalena china sul Bambino in languido abbandono. Solo due figure sembrano voler sottolineare la presenza di uno spettatore davanti al dipinto: il leone di Girolamo sulla sinistra che guarda fuori del quadro e il lezioso angioletto che arriccia il naso odorando il vaso degli unguenti della santa penitente. Il gesto della Maddalena verso Gesù Bambino, asciugargli i capelli dopo averli lavati con prezioso unguento, anticipa il gesto che secondo il Vangelo la Maddalena convertita compie nella casa di Simone. Sta proprio nella sequenza di gesti e sguardi il legame più autentico tra figura e figura, e in ciò Coprreggio dimostrò di aver portato a pieno compimento la lezione di Leonardo da Vinci.
Gli attributi più tradizionali, come il leone per san Girolamo e il vaso degli unguenti per Santa Maria Maddalena diventano quindi pretesti narrativi e prendono piena parte alla storia sacra, offrendo l’opportunità di evocare sensazioni olfattive in maniera analoga a quanto accadeva, evocando in quel caso sensazioni acustiche, nel gesto della figura della Vergine che sfregava le unghie sul parapetto di marmo nell'Ecce homo oggi a Londra.
Per chi giunga da destra appare convincente la frontalità fra san Girolamo e la Madonna col Bambino. Il movimento della composizioone si gioca poi su diagonali di colore, come il rosso del tendaggio che scende dall'alto e quasi avvolge il santo a sinistra, e come il serpeggiare del giallo oro unito alle luci degli incarnati, che sale dal manto della Maddalena sino allo sfolgorìo del libro e del volto dell'Angelo.
Indice [nascondi]
1 Storia
2 Descrizione e stile
3 Note
4 Bibliografia
5 Voci correlate
6 Altri progetti
7 Collegamenti esterni
Storia [modifica]
La pala fu commissionata nel 1523 da Briseide Colla, in memoria del marito (Ottaviano Bergonzi), per la cappella nella chiesa di Sant'Antonio a Parma, in una data collocabile intorno alla fine degli anni venti del Cinquecento. Si può ipotizzare che il Correggio fosse entrato in contatto con Ottavio Bergonzi, una figura di spicco nella Parma del tempo, grazie a Giovanna Piacenza che era sua parente e che fu la prima importante committente del Correggio a Parma, nel monastero di San Paolo. La cappella era un vano laterale, sul fianco destro, e la pala sarebbe stata vista dapprima parzialmente da lontano, e poi in progressione diagonale.
La fama di quest’opera fu veramente eccezionale, a cominciare da Vasari che ne ammirò "il mirabile colorito" e il dolce sorriso dell’angelo che offre la Bibbia al Bambino capace, a suo dire, di rallegrare anche il più malinconico degli osservatori. Anche gli artisti ne rimasero affascinati e il pittore cretese El Greco si incantò davanti alla figura della Maddalena esclamando che per lui era "l’unica figura della Pittura!".
Grazie agli elogi dei critici e a una bella incisione di Agostino Carracci[1], la fama della Madonna di San Girolamo si diffuse nel corso del Seicento a Milano, a Venezia e a Roma e da qui alle grandi capitali artistiche europee. "Forse il più bel dipinto che uscisse mai di mano d'uomo", scrisse l'Algarotti.
Disegno preparatorio
Nel primo Settecento, quando la chiesa di Sant'Antonio necessitava di pesanti e costosi restauri, più di un collezionista si fece avanti per acquistare l’opera offrendo somme da capogiro: tra gli aspiranti acquirenti figuravano il re di Polonia, il re di Francia e l’Imperatore. Nel 1749 la tavola venne trasferita nel duomo e successivamente acquistata, nel 1765, dal governo della città.
La pala rimase nella sua collocazione fino a che non fu trafugata dalle truppe napoleoniche che la portarono a Parigi. Nel 1815 tornò in Italia e fu ospitata nell'attuale collocazione.
Numerose sono le copie antiche.
Descrizione e stile [modifica]
Il soggetto della rappresentazione, non nuovo ma poco frequentato dall'iconografia ecclesiastica, è la presentazione a Gesù, da parte di san Girolamo, della traduzione della Bibbia dall'ebraico al latino popolare (la cosiddetta Vulgata) in modo da ottenerne l'assenso. Una complessa e pia leggenda voleva che il santo, nato in Dalmazia, vissuto ad Antiochia e a Roma, e poi ritiratosi in Palestina con una piccola comunità, fosse invece vissuto a lungo in aspra penitenza nella Grotta di Betlemme, solo con la compagnia di un leone da lui guarito, e qui avesse atteso alla desiderata traduzione, chiestagli da papa Damaso. A tale credenza si attenne il Correggio, mostrando la possente vecchiezza di Girolamo, i capelli e la barba ispida, le sue unghie artigliate e ciuffose, e il leone compagno, anch'esso di antico pelo. Un angelo sta leggendo la Scrittura alla Madonna e al Bambino, quasi ad averne il beneplacito. Il rotolo (l'antica stesura) è invece ancora stretto nella mano di Girolamo.
Le figure, modellate morbidamente, sono disposte a semicerchio, secondo uno schema compositivo che il Correggio aveva già adottato nella Madonna di San Sebastiano e che era funzionale ad accrescere la partecipazione emotiva degli spettatori chiamati a chiudere l’anello idealmente suggerito dai personaggi della storia sacra.
La Vergine, Gesù e Maddalena, dettaglio
Tuttavia, a differenza di quanto accadeva in quel precedente dipinto e a differenza di quanto il Correggio sembra aver pensato in un primo momento, ogni personaggio è rappresentato assorto nel proprio gesto: la Vergine intenta a coprire, forse ad asciugare il Bambino, questi incuriosito dalla grande Bibbia che gli mostra un efebico angelo, san Girolamo in severa meditazione, la Maddalena china sul Bambino in languido abbandono. Solo due figure sembrano voler sottolineare la presenza di uno spettatore davanti al dipinto: il leone di Girolamo sulla sinistra che guarda fuori del quadro e il lezioso angioletto che arriccia il naso odorando il vaso degli unguenti della santa penitente. Il gesto della Maddalena verso Gesù Bambino, asciugargli i capelli dopo averli lavati con prezioso unguento, anticipa il gesto che secondo il Vangelo la Maddalena convertita compie nella casa di Simone. Sta proprio nella sequenza di gesti e sguardi il legame più autentico tra figura e figura, e in ciò Coprreggio dimostrò di aver portato a pieno compimento la lezione di Leonardo da Vinci.
Gli attributi più tradizionali, come il leone per san Girolamo e il vaso degli unguenti per Santa Maria Maddalena diventano quindi pretesti narrativi e prendono piena parte alla storia sacra, offrendo l’opportunità di evocare sensazioni olfattive in maniera analoga a quanto accadeva, evocando in quel caso sensazioni acustiche, nel gesto della figura della Vergine che sfregava le unghie sul parapetto di marmo nell'Ecce homo oggi a Londra.
Per chi giunga da destra appare convincente la frontalità fra san Girolamo e la Madonna col Bambino. Il movimento della composizioone si gioca poi su diagonali di colore, come il rosso del tendaggio che scende dall'alto e quasi avvolge il santo a sinistra, e come il serpeggiare del giallo oro unito alle luci degli incarnati, che sale dal manto della Maddalena sino allo sfolgorìo del libro e del volto dell'Angelo.
Madonna della Scodella
.La Madonna della Scodella è un dipinto a olio su tavola (216,7x137,3 cm) del Correggio, databile al 1528-1530 circa e conservato nella Galleria Nazionale di Parma.
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1 Storia
2 Descrizione e stile
3 Note
4 Bibliografia
5 Voci correlate
6 Altri progetti
7 Collegamenti esterni
Storia [modifica]
La tavola venne realizzata dal Correggio per la chiesa del Santo Sepolcro di Parma: venne probabilmente commissionata all'artista nel 1524, quando un tale Cristoforo Bondini, morendo, lasciò in legato alla chiesa la somma di 15 lire per la realizzazione di una pala per l'altare di san Giuseppe[1]. Doveva essere completata nel 1530.
Sono stati catalogati due disegni preparatori del quadro[2]. La cornice originale, che si è ipotizzato essere stata eseguita su disegno dello stesso Correggio[3], reca l'iscrizione: DIVO IOSEPPO DEIPARAE VIRGINIS CUSTODI / FIDISS COELITUSQ DESTINATO HVIVSCE / ARAE COMUNI AERE ERECTORES DEVOTI / ALACRESQ EREXERE / DIE II IVNII.
Giorgio Vasari citò l'opera nella seconda edizione delle Vite parlando di Girolamo da Carpi (“tavola di pittura divina”), che l'avrebbe studiata nella chiesa del Santo Sepolcro[4]: rimase in tale sede fino al 1796, quando venne requisita dal governo napoleonico e trasportata a Parigi; venne restituita nel 1815, dopo la disfatta di Napoleone a Waterloo, e venne collocata nella Galleria Nazionale. Nel 1893, su proposta di Corrado Ricci, venne reinserita nella cornice originale.
Per la datazione del dipinto viene comunemente proposta la data del 1528-1530: Cecil Gould ritiene che solo gli angeli nella parte alta della tela siano stati eseguiti in questi anni e che la parte inferiore dell'opera risalga, invece, alla metà del terzo decennio del XVI secolo[5].
L’opera ebbe un’eccezionale fortuna figurativa: fu studiata da Lelio Orsi, da Federico Barocci[6], da Lanfranco, Domenichino e, più tardi, da Carlo Maratta e Pompeo Batoni.
Descrizione e stile [modifica]
Il dipinto illustra un episodio dell'infanzia di Gesù narrato nel vangelo apocrifo dello pseudo-Matteo: nel corso del viaggio di ritorno in Palestina dopo la fuga in Egitto, durante una sosta all'ombra di una palma da dattero, la sacra Famiglia sarebbe stata sfamata dalla pianta che si sarebbe miracolosamente piegata per offire i suoi frutti ai viaggiatori. Nel momento in cui la palma si era raddrizzata sarebbe sorta dal terreno una sorgente d’acqua miracolosa. La Vergine è allora rappresentata nell'atto di raccogliere dell'acqua con una scodella per dissetare il Bambino, donde la denominazione tradizionale dell'opera. Il titolo con cui è conosciuta è anche significativo dell’importanza visiva che il Correggio volle riservare, qui come nella Madonna della Cesta, al semplice oggetto della scodella[7].
Tale soggetto iconografico non aveva conosciuto grande fortuna nella produzione artistica italiana. Era invece più frequente al Nord, come testimoniano opere di Albrecht Altdorfer e di Lucas Cranach[8].
Il ruolo di protagonista di Giuseppe andava a rispondere alle esigenze della cappella, dedicata al santo che era anche titolare della confraternita che aveva commissionato il dipinto. L’immagine è costruita su una linea diagonale, che si inaugura a sinistra con la scodella d’argento e segue quindi il sapientissimo intreccio di mani fra la Vergine, il Bambino e san Giuseppe. Il Bambino è colto in un calcolato contrapposto che gli permette di giocare il ruolo di trait d’union fra il mondo dipinto, a cui appartiene, e il mondo reale degli osservatori a cui rivolge uno sguardo ammiccante.
In alto una gloria di angeli si libra in un animato girotondo memore degli affreschi della cupola del Duomo di Parma.
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2 Descrizione e stile
3 Note
4 Bibliografia
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Storia [modifica]
La tavola venne realizzata dal Correggio per la chiesa del Santo Sepolcro di Parma: venne probabilmente commissionata all'artista nel 1524, quando un tale Cristoforo Bondini, morendo, lasciò in legato alla chiesa la somma di 15 lire per la realizzazione di una pala per l'altare di san Giuseppe[1]. Doveva essere completata nel 1530.
Sono stati catalogati due disegni preparatori del quadro[2]. La cornice originale, che si è ipotizzato essere stata eseguita su disegno dello stesso Correggio[3], reca l'iscrizione: DIVO IOSEPPO DEIPARAE VIRGINIS CUSTODI / FIDISS COELITUSQ DESTINATO HVIVSCE / ARAE COMUNI AERE ERECTORES DEVOTI / ALACRESQ EREXERE / DIE II IVNII.
Giorgio Vasari citò l'opera nella seconda edizione delle Vite parlando di Girolamo da Carpi (“tavola di pittura divina”), che l'avrebbe studiata nella chiesa del Santo Sepolcro[4]: rimase in tale sede fino al 1796, quando venne requisita dal governo napoleonico e trasportata a Parigi; venne restituita nel 1815, dopo la disfatta di Napoleone a Waterloo, e venne collocata nella Galleria Nazionale. Nel 1893, su proposta di Corrado Ricci, venne reinserita nella cornice originale.
Per la datazione del dipinto viene comunemente proposta la data del 1528-1530: Cecil Gould ritiene che solo gli angeli nella parte alta della tela siano stati eseguiti in questi anni e che la parte inferiore dell'opera risalga, invece, alla metà del terzo decennio del XVI secolo[5].
L’opera ebbe un’eccezionale fortuna figurativa: fu studiata da Lelio Orsi, da Federico Barocci[6], da Lanfranco, Domenichino e, più tardi, da Carlo Maratta e Pompeo Batoni.
Descrizione e stile [modifica]
Il dipinto illustra un episodio dell'infanzia di Gesù narrato nel vangelo apocrifo dello pseudo-Matteo: nel corso del viaggio di ritorno in Palestina dopo la fuga in Egitto, durante una sosta all'ombra di una palma da dattero, la sacra Famiglia sarebbe stata sfamata dalla pianta che si sarebbe miracolosamente piegata per offire i suoi frutti ai viaggiatori. Nel momento in cui la palma si era raddrizzata sarebbe sorta dal terreno una sorgente d’acqua miracolosa. La Vergine è allora rappresentata nell'atto di raccogliere dell'acqua con una scodella per dissetare il Bambino, donde la denominazione tradizionale dell'opera. Il titolo con cui è conosciuta è anche significativo dell’importanza visiva che il Correggio volle riservare, qui come nella Madonna della Cesta, al semplice oggetto della scodella[7].
Tale soggetto iconografico non aveva conosciuto grande fortuna nella produzione artistica italiana. Era invece più frequente al Nord, come testimoniano opere di Albrecht Altdorfer e di Lucas Cranach[8].
Il ruolo di protagonista di Giuseppe andava a rispondere alle esigenze della cappella, dedicata al santo che era anche titolare della confraternita che aveva commissionato il dipinto. L’immagine è costruita su una linea diagonale, che si inaugura a sinistra con la scodella d’argento e segue quindi il sapientissimo intreccio di mani fra la Vergine, il Bambino e san Giuseppe. Il Bambino è colto in un calcolato contrapposto che gli permette di giocare il ruolo di trait d’union fra il mondo dipinto, a cui appartiene, e il mondo reale degli osservatori a cui rivolge uno sguardo ammiccante.
In alto una gloria di angeli si libra in un animato girotondo memore degli affreschi della cupola del Duomo di Parma.
DODDO DOSSI
Giovanni Luteri, detto Dosso Dossi (Mirandola 1490-Ferrara 1542)
San Michele arcangelo, il demonio e la Madonna assunta
Olio su tavola
San Michele arcangelo, il demonio e la Madonna assunta
Olio su tavola
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.Domenico Theotokopoulos, detto El Greco (Creta 1541-Toledo 1614)
Guarigione del cieco
Olio su tela
Guarigione del cieco
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.Hans Holbein il Giovane (Augusta 1498-Londra 1543)
Erasmo da Rotterdam
Olio su tavola
Erasmo da Rotterdam
Olio su tavola
Leonardo da Vinci
La Testa di fanciulla (detta La Scapigliata) è un dipinto a terra ombra, ambra inverdita e biacca su tavola (24,7x21 cm) di Leonardo da Vinci, databile al 1508 circa e conservato nella Galleria nazionale di Parma.
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1 Storia
2 Descrizione e stile
3 Bibliografia
4 Altri progetti
Storia [modifica]
Il dipinto, un incompiuto su tavola (non un disegno preparatorio quindi), è ricordato sicuramente per la prima volta in un inventario di casa Gonzaga del 1627 come "un quadro dipintovi la testa di una donna scapigliata, bozzata, [...] opera di Leonardo da Vinci". Probabilmente era la stessa opera che Ippolito Calandra, nel 1531, suggeriva di appendere in camera di Margherita Paleologa, moglie di Federico Gonzaga e nuora di Isabella d'Este. Ancora più anticamente, nel 1501, la tavola è forse accennata in una lettera della marchesa a Pietro da Novellara, datata 27 maggio, in cui la marchesa richiedeva a Leonardo una Madonna per il suo studiolo privato.
La datazione dell'opera, che si trova nella Galleria parmense dal 1839, ha visto alternarsi numerose ipotesi. Inizialmente venne avvicinata ad altri lavori incompiuti della gioventù di Leonardo, quali l'Adorazione dei Magi e il San Girolamo; a un'analisi stilistica più approfondità si è poi optato, in prevalenza, per una datazione legata alla piena maturità dell'artista, vicina alla Vergine delle Rocce di Londra o al Cartone di Burlington House (Carlo Pedretti, che propose il 1508).
A inizio del XIX secolo il dipinto si trovava nella raccolta privata del pittore parmense Gaetano Callani, il cui figlio Francesco la vendette in seguito all'Accademia di Belle Arti, poi Galleria Nazionale. L'attribuzione a Leonardo da parte della critica è pressoché unanime, con l'eccezione di Corrado Ricci, direttore della Galleria Nazionale (in un catalogo del 1896 avanzò l'ipotesi che fosse opera dello stesso Callani), e di Wilhelm Suida (1929) che la ritenne di scuola.
Descrizione e stile [modifica]
La Scapigliata è un dipinto incompiuto, tuttavia alcune parti del volto sono finite e trovano riscontro nell'opera di Leonardo. Vi è ritratta una testa femminile, con un accenno delle spalle, voltata di tre quarti verso sinistra e inclinata verso il basso. I lineamenti sono dolcissimi, i bulbi oculari tondeggianti e leggermente sporgenti, il naso pronunciato, le labbra carnose accennanti un sorriso, il mento arrotondato. Il forte chiaroscuro steso sul viso con lumeggiature esalta il rilievo scultoreo del volto, di angelica compostezza, interrotta però dalla vibrante capigliatura, scomposta ad arte in ricci turbolenti, che ricordano il principio dell'espressione esteriore dei "moti dell'animo", uno dei principi chiave della poetica leonardiana.
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1 Storia
2 Descrizione e stile
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Storia [modifica]
Il dipinto, un incompiuto su tavola (non un disegno preparatorio quindi), è ricordato sicuramente per la prima volta in un inventario di casa Gonzaga del 1627 come "un quadro dipintovi la testa di una donna scapigliata, bozzata, [...] opera di Leonardo da Vinci". Probabilmente era la stessa opera che Ippolito Calandra, nel 1531, suggeriva di appendere in camera di Margherita Paleologa, moglie di Federico Gonzaga e nuora di Isabella d'Este. Ancora più anticamente, nel 1501, la tavola è forse accennata in una lettera della marchesa a Pietro da Novellara, datata 27 maggio, in cui la marchesa richiedeva a Leonardo una Madonna per il suo studiolo privato.
La datazione dell'opera, che si trova nella Galleria parmense dal 1839, ha visto alternarsi numerose ipotesi. Inizialmente venne avvicinata ad altri lavori incompiuti della gioventù di Leonardo, quali l'Adorazione dei Magi e il San Girolamo; a un'analisi stilistica più approfondità si è poi optato, in prevalenza, per una datazione legata alla piena maturità dell'artista, vicina alla Vergine delle Rocce di Londra o al Cartone di Burlington House (Carlo Pedretti, che propose il 1508).
A inizio del XIX secolo il dipinto si trovava nella raccolta privata del pittore parmense Gaetano Callani, il cui figlio Francesco la vendette in seguito all'Accademia di Belle Arti, poi Galleria Nazionale. L'attribuzione a Leonardo da parte della critica è pressoché unanime, con l'eccezione di Corrado Ricci, direttore della Galleria Nazionale (in un catalogo del 1896 avanzò l'ipotesi che fosse opera dello stesso Callani), e di Wilhelm Suida (1929) che la ritenne di scuola.
Descrizione e stile [modifica]
La Scapigliata è un dipinto incompiuto, tuttavia alcune parti del volto sono finite e trovano riscontro nell'opera di Leonardo. Vi è ritratta una testa femminile, con un accenno delle spalle, voltata di tre quarti verso sinistra e inclinata verso il basso. I lineamenti sono dolcissimi, i bulbi oculari tondeggianti e leggermente sporgenti, il naso pronunciato, le labbra carnose accennanti un sorriso, il mento arrotondato. Il forte chiaroscuro steso sul viso con lumeggiature esalta il rilievo scultoreo del volto, di angelica compostezza, interrotta però dalla vibrante capigliatura, scomposta ad arte in ricci turbolenti, che ricordano il principio dell'espressione esteriore dei "moti dell'animo", uno dei principi chiave della poetica leonardiana.
Piazzetta: Immacolate Concezione
Opere di Parmigianino
.La Schiava turca è un dipinto a olio su tavola (67x53 cm) di Parmigianino, databile al 1533 circa e conservato nella Galleria nazionale di Parma.
L'opera si trovava agli Uffizi e il 5 settembre 1928 fu scambiata in cambio di due tavole duecentesche (una è il Redentore tra la Vergine e tre santi di Meliore) e un ritratto di Don Filippo di Borbone di Giuseppe Baldrighi (poi riconosciuto come autoritratto)[1]. Vi era giunta tramite il cardinale Leopoldo de' Medici, che la possedette almeno dal 1675 lasciandola in eredità alla Guardaroba medicea. Citata negli inventari del 1704 e del 1890, è ricordata in quest'ultimo come "ritratto di giovane donna con turbante in capo, con la sinistra tiene un pennacchio, di mano del Parmigianino"[2].
Nel 1968 fu restaurata e pubblicata dalla Ghidiglia Quitavalle. In quell'occasione venne asportato lo sfondo scuro trovandovi sotto un uniforme color terra. Tale intervento venne criticato da Alessandro Conti (1981), che ritenne il fondo scuro una modifica autografa del pittore, adducendo la sua compatibilità col contorno della figura e la sua presenza nelle copie cinquecentesche. Brusco è infatti il passaggio luminoso tra lo sfondo e le ombre sulla spalla sinistra[2].
Descrizione e stile [modifica]
Il titolo di "Schiava turca" è un retaggio romantico, dovuto a una suggestione esotica legata al copricapo che venne visto come un turbante, in realtà un'acconciatura tipica delle nobildonne presente in numerosi altri ritratti della stessa epoca[3].
Una fanciulla dai capelli bruni e dai grandi occhi castani, accennanti una smorfietta quasi civettuola, è ritratta mezza figura con indosso una setosa veste rigata d'oro e d'arancio e increspata, e un pesante vestito nero scivolato oltre le spalle, con maniche a sbuffo. In grembo ha lo zinale, un grembiule leggerissimo e ricamato, che si vede anche nel ritratto dell'Antea. In testa ha una grande cuffia a ciambella (capigliara), con un balzo a rete di fili d'oro, decorata da un medaglione con Pegaso, metafora d'iniziazione amorosa e poetica, o forse un riferimento araldico alla famiglia Cavalli[4]: si tratta di un copricapo allora di moda, inventato per Isabella d'Este e presente in numerosi ritratti femminili dei primi decenni del Cinquecento in area lombarda e padana[2].
Una mano dalle dita affusolate, tipica dell'autore, indossa un anellino dorato (indizio che la donna potrebbe essere una giovane sposa) e regge un pennacchio di piume per sventolarsi, realizzato con grande virtuosismo, che qui pare piuttosto voler coprire l'attaccatura del seno[3].
Il ritratto è tra i più espressivi, oltre che dei più noti, dell'artista: la maliziosa sensualità del soggetto è esaltata dallo sguardo fisso verso l'osservatore, dal sorriso ambiguo e interiorizzato (come quello della Gioconda), e dalla sapienza compositiva dei decisi ritmi curvilinei che ne incorniciano la figura: il viso, dalla compattezza perlacea, gli occhi, le spalle, il copricapo, il ventaglio[3].
I volumi appaiono marcati, con l'ovale della testa scandito dalle aracate perfette delle sopracciglia, il colorito metallico nei dettagli, la superficie smaltata dell'incarnato. La posizione leggermente di sbieco dà un senso di tridimensionalità.
Tra le proposte di identificazione, quella con Giulia Gonzaga al tempoi del matrimonio con Vespasiano Colonna[3].
L'opera si trovava agli Uffizi e il 5 settembre 1928 fu scambiata in cambio di due tavole duecentesche (una è il Redentore tra la Vergine e tre santi di Meliore) e un ritratto di Don Filippo di Borbone di Giuseppe Baldrighi (poi riconosciuto come autoritratto)[1]. Vi era giunta tramite il cardinale Leopoldo de' Medici, che la possedette almeno dal 1675 lasciandola in eredità alla Guardaroba medicea. Citata negli inventari del 1704 e del 1890, è ricordata in quest'ultimo come "ritratto di giovane donna con turbante in capo, con la sinistra tiene un pennacchio, di mano del Parmigianino"[2].
Nel 1968 fu restaurata e pubblicata dalla Ghidiglia Quitavalle. In quell'occasione venne asportato lo sfondo scuro trovandovi sotto un uniforme color terra. Tale intervento venne criticato da Alessandro Conti (1981), che ritenne il fondo scuro una modifica autografa del pittore, adducendo la sua compatibilità col contorno della figura e la sua presenza nelle copie cinquecentesche. Brusco è infatti il passaggio luminoso tra lo sfondo e le ombre sulla spalla sinistra[2].
Descrizione e stile [modifica]
Il titolo di "Schiava turca" è un retaggio romantico, dovuto a una suggestione esotica legata al copricapo che venne visto come un turbante, in realtà un'acconciatura tipica delle nobildonne presente in numerosi altri ritratti della stessa epoca[3].
Una fanciulla dai capelli bruni e dai grandi occhi castani, accennanti una smorfietta quasi civettuola, è ritratta mezza figura con indosso una setosa veste rigata d'oro e d'arancio e increspata, e un pesante vestito nero scivolato oltre le spalle, con maniche a sbuffo. In grembo ha lo zinale, un grembiule leggerissimo e ricamato, che si vede anche nel ritratto dell'Antea. In testa ha una grande cuffia a ciambella (capigliara), con un balzo a rete di fili d'oro, decorata da un medaglione con Pegaso, metafora d'iniziazione amorosa e poetica, o forse un riferimento araldico alla famiglia Cavalli[4]: si tratta di un copricapo allora di moda, inventato per Isabella d'Este e presente in numerosi ritratti femminili dei primi decenni del Cinquecento in area lombarda e padana[2].
Una mano dalle dita affusolate, tipica dell'autore, indossa un anellino dorato (indizio che la donna potrebbe essere una giovane sposa) e regge un pennacchio di piume per sventolarsi, realizzato con grande virtuosismo, che qui pare piuttosto voler coprire l'attaccatura del seno[3].
Il ritratto è tra i più espressivi, oltre che dei più noti, dell'artista: la maliziosa sensualità del soggetto è esaltata dallo sguardo fisso verso l'osservatore, dal sorriso ambiguo e interiorizzato (come quello della Gioconda), e dalla sapienza compositiva dei decisi ritmi curvilinei che ne incorniciano la figura: il viso, dalla compattezza perlacea, gli occhi, le spalle, il copricapo, il ventaglio[3].
I volumi appaiono marcati, con l'ovale della testa scandito dalle aracate perfette delle sopracciglia, il colorito metallico nei dettagli, la superficie smaltata dell'incarnato. La posizione leggermente di sbieco dà un senso di tridimensionalità.
Tra le proposte di identificazione, quella con Giulia Gonzaga al tempoi del matrimonio con Vespasiano Colonna[3].
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Autoritratto con berretto rosso è un dipinto a olio su carta (21x15,5 cm) attribuito a Parmigianino, databile al 1540 circa e conservato nella Galleria nazionale di Parma.
Storia e descrizione [modifica]
L'opera venne presentata nel 1968 nell'ambito della mostra Tesori nascosti della Galleria di Parma. Staccandolo dalla tela su cui era allora incollato venne rinvenuto sul retro lo studio di una Santa Caterina e di una Madonna col Bambino. La Ghidiglia Quintavalle ipotizzò che si trattasse di un autoritratto del Parmigianino degli ultimi anni, riconoscendolo in una delle opere descritte nell'inventario dello studio del pittore dopo la sua morte: "un quadretto colorito finito di lapis nel qual è ritratto il Parmesanino di sua mano alto 0,5 largo 4". In realtà tale associazione è tutt'altro che scontata, anche perché l'opera della galleria di Parma non ha le finiture a mina di grafite, cioè "di lapis". L'opera veniva messa in relazione alla descrizione data da Vasari dell'artista negli ultimi anni di vita, quando «[da] delicato e gentile, fatto con la barba e le chiome lunghe e malconce, quasi un uomo salvatico, un altro da quello che era stato».
L'attribuzione dell'opera ricevette consensi quasi unanimi (Fagiolo dell'Arco, 1970, Rossi, 1980, Freedberg, 1987, Di Giampaolo, 1991, Gould, 1994, Coliva, 1998, Chiusa, 2001), con l'eccezione di Cirillo-Godi (1982) che vi ravvisarono la mano di Michelangelo Anselmi, con una modifica successiva del giudizio di Cirillo (1999).
Il personaggio, con un vistoso cappello rosso, un po' sdrucito, è raffigurato con una posizione diagonale delle spalle, ma a parte un'ombra scura del corpo non si ravvisa altro che il volto, dai capelli incolti, la barba grigia, la bocca piegata, gli occhi infossati in uno sguardo malinconico e assente.
Sebbene in galleria si esposto come "autoritratto", di recente è stata avanzata con più forza l'attribuzione all'Anselmi, in base a dati stilistici quali la chioma scomposta, la barba tenera e ad andamento serpentino, mentre la santa retrostante potrebbe essere lo studio per i Santi Girolamo e Caterina nella Pinacoteca di Brera.
Storia e descrizione [modifica]
L'opera venne presentata nel 1968 nell'ambito della mostra Tesori nascosti della Galleria di Parma. Staccandolo dalla tela su cui era allora incollato venne rinvenuto sul retro lo studio di una Santa Caterina e di una Madonna col Bambino. La Ghidiglia Quintavalle ipotizzò che si trattasse di un autoritratto del Parmigianino degli ultimi anni, riconoscendolo in una delle opere descritte nell'inventario dello studio del pittore dopo la sua morte: "un quadretto colorito finito di lapis nel qual è ritratto il Parmesanino di sua mano alto 0,5 largo 4". In realtà tale associazione è tutt'altro che scontata, anche perché l'opera della galleria di Parma non ha le finiture a mina di grafite, cioè "di lapis". L'opera veniva messa in relazione alla descrizione data da Vasari dell'artista negli ultimi anni di vita, quando «[da] delicato e gentile, fatto con la barba e le chiome lunghe e malconce, quasi un uomo salvatico, un altro da quello che era stato».
L'attribuzione dell'opera ricevette consensi quasi unanimi (Fagiolo dell'Arco, 1970, Rossi, 1980, Freedberg, 1987, Di Giampaolo, 1991, Gould, 1994, Coliva, 1998, Chiusa, 2001), con l'eccezione di Cirillo-Godi (1982) che vi ravvisarono la mano di Michelangelo Anselmi, con una modifica successiva del giudizio di Cirillo (1999).
Il personaggio, con un vistoso cappello rosso, un po' sdrucito, è raffigurato con una posizione diagonale delle spalle, ma a parte un'ombra scura del corpo non si ravvisa altro che il volto, dai capelli incolti, la barba grigia, la bocca piegata, gli occhi infossati in uno sguardo malinconico e assente.
Sebbene in galleria si esposto come "autoritratto", di recente è stata avanzata con più forza l'attribuzione all'Anselmi, in base a dati stilistici quali la chioma scomposta, la barba tenera e ad andamento serpentino, mentre la santa retrostante potrebbe essere lo studio per i Santi Girolamo e Caterina nella Pinacoteca di Brera.
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.Giulio Pippi, detto Giulio Romano (Roma 1499-Mantova 1546)
La Deesis e i santi Paolo e Caterina
Tempera grassa su tavola
La Deesis e i santi Paolo e Caterina
Tempera grassa su tavola
GB TIEPOLO: 1)San Francesco 2)Maddalena
Paolo Veneziano: Altare Portatile
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TEATRO FARNESE
Pae4saggi e Vedute
Bellotto: Roma
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Bellotto: Campidoglio
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Bellotto: Colosseo
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Bellotto: Capriccio Romano
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Canaletto: Venezia
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